di Dario Voltolini
I tre alberi di fronte alla finestra occidentale stanno cominciando a mutare la colorazione del fogliame per l’autunno. Il più alto, che è anche il più bello, ha un’apparenza tale, così racchiusa nella chioma come in un doppio gesto fatto con le mani, che sembrerebbe possibile comprenderlo in un unico sguardo, né più né meno che un cespuglio, una siepe. Ai suoi piedi un’automobile aspetta la freccia verde per svoltare a sinistra. La macchina è minuscola, rispetto all’albero. Eppure l’albero non sembra enorme rispetto a lei. Qui c’è un’asimmetria che non so spiegare. Addirittura è l’albero che risulta essere di uso più quotidiano, come se la sua visione ripetuta e consueta ce lo facessero adoperare, più ancora di come adoperiamo un’automobile.
Nei tre alberi cominciano a scorgersi i rami che innervano il fogliame. Raffiche di vento hanno già un po’ diradato le chiome. I rami salgono oltre i fili del tram, salgono fino a sovrapporsi a un primo pezzo di cielo. Innervano neri anche il cielo, che adesso è grigio e uniforme, senza nemmeno un calo di luminosità da qualche parte, nemmeno un flebile rilievo di nube: solo uno strato liscio e compatto di un unico grigio. Da qualche ora piove, le ruote delle automobili passando fanno quel rumore bagnato. Dal cielo a poco a poco in questi giorni stiamo forse imparando ad aspettarci i pericoli, che irrazionali cadano su di noi, proiettati e sfilanti, sul suolo terrestre, gruppi di capsule, di teli gonfiati, di siluri senza una chiara struttura.
Quando la luce si smorza ci sono quelle figure di persone singole o a piccoli gruppi che attraversano le strade. Giovani con le mani nelle tasche percorrono i marciapiedi verso una deriva periferica, pensando ciascuno a qualche misterioso oggetto. Questi oggetti di pensiero non li conosco — nemmeno per caso fortuito: d’altronde lo sapevo e ne ero fiero anche io anni fa: nessuno può indovinarti i pensieri. I marciapiedi erano più o meno gli stessi, gli isolati erano isolati come ora. Lo stesso rumore delle gomme sul bagnato. Il cielo è sempre lo stesso cielo. Il cielo non è mai lo stesso cielo.
(Si ringrazia La Stampa per la gentile concessione)