L’anormale serata di un milanese affranto
La pietà per quei poveri corpi, per quelle anime straziate, per quelle pozze di carne purulenta, per quegli sguardi allucinati, per quelle stanze che suppurano polpa infetta, per quella bambina incapace di astio contro il mondo, trattenuta tra le braccia dal padre ignoto e choccato – lei, offesa e sminuzzata da ganasce di metallo e da insidiosi ordigni, ma veramente, veramente, tanto concretamente da lanciarmi un urlo straziante in totale silenzio, che mi chiude lo stomaco, mentre tra poco devo mangiare la carne buona cucinata nella gastronomia, con le verdure e tutto, e a lei quella carne manca, non un’offesa mortale, ma permanente, ineludibile, definitiva, lei colpevole di farmi salire questo conato di acido gastrico, fatto di colpa (mia? perché?) e di paresi delle mie facoltà… Sono attonito e colpito, è meno grave della lesione alla gamba della bambina, alle 20.40, tra poco si mangia la carne, su RaiDue, questa bambina che ha soltanto una gamba in meno e molti mondi in più. Ierisera, su RaiDue, la bambina senza una gamba, mentre ora nell’azienda in cui lavoro c’è uno entusiasta a due metri che dice: “Ogni cluster di utente”. Benvenuti nel mio mondo.
E poco dopo Massimo Moratti rilascia terribili dichiarazioni su Hector Cuper, c’è una violenza in quelle dichiarazioni. Ancora venti minuti e “Figo, missile verso la porta di Barthez”. Io ho a fianco un poeta, Mario. Mi attende la notte, solitario come sempre, poi, in cui c’è un pensiero, anzi meno che un pensiero, e stamattina questo tizio dell’azienda entusiasta che adesso sta dicendo “dobbiamo fare una cosa molto semplificata” e poi “riduciamo la barriera tecnologica” e ora in questo momento preciso “mi sembra di ricordarmi che questa cosa la utilizza, che cazzo ne so?, chi ha la Visa, rispetto al totale”.
E mi preparo.
Adesso dice “cinquecentomila utenti”. Adesso dice “il baricentro del polso dell’utente”. Adesso ne passa un altro e dice “comunque sia è la finanza”. E hanno una giacca e i capelli bluastri e una pelata lucidissima e tanto sguardo in meno.
La pietà è retorica? La sofferenza, se muta, ha legittimità? E dico la sua sofferenza, della bambina, e anche la mia, di purissimo spettatore che altro non spende se non quel po’ di empatia che ancora mi trattiene in questa specie affamata, che non è sempreuguale, perché mi pare, ma è un pensiero affastellato tra altri colpi allo stomaco, la gastrite per lo “psichismo collettivo”, eccetera, mi pare, tra i pensieri che si accavallano, che questa specie sia spaccata, stravolta, dissociata: no, non è sempreuguale questa specie umana, c’è stato un salto, qualcosa, una rottura, non improvvisa, che la letteratura che amo aveva sempre esorcizzato, siamo stremati ma per nulla sconfitti, noi, al centro di una Baghdad spirituale, presi tra due fuochi, uno che brucia altissimo e fa fumo e imprime fatica alle nostre parole, di noi che ci crediamo, che continuiamo a crederci, e nelle parole e nell’uomo, non smettiamo di crederci, noi. Perché continuare a crederci ci fa umani: credere che quella bambina posso abbracciarla, ma per davvero, quel suo arto fantasma, quel vuoto che le preme il ginocchio bendato, immacolato, la benda bianchissima, qualcosa di profondamente rituale, questa gamba che non c’è più ma ancora resiste fantasma nello sguardo supremo di questa bambina lontana e lesionata per sempre, per sempre, in purissima rappresentanza di tutti gli uomini offesi, coloro ai quali vorrei portare testimonianza di affetto e non per un’astratta idea di supposta uguaglianza, ma perché proprio sono uguali a me, non è retorica il fatto che si dica che sono carne della mia carne, poiché sono fatti della stessa carne mia, capito?, sono umani, sono fatti di retorica, cioè di emozioni, e faremmo l’amore insieme senza badare a dove quando questa bambina sarà cresciuta e sarà donna, sotto il sole magari, respirando, pastosamente, in un campo, eriche più in là, io a fare l’amore con questa ex bambina ferita per chiuderle la ferita e insegnarle che, se affrontata umanamente, l’ambiguità non fa male, non c’è male nell’ambiguità, l’uomo esorcizza l’ambiguità vivendola fino a fondo, chiudendo la possibilità al male di manifestarsi tra uomo e uomo, su questo pianeta, di cui qualcuno disse: ce lo ricorderemo, questo pianeta. Perciò le lecco dove termina il ginocchio, faccio l’amore con la sua gamba offesa, ambiguo.
E’ tutto così confuso, sono tutto così mutilato.
Al cuore della notte, e per davvero, il fiotto luminoso, verde fosforescente, del rovescio di bile nella mia notte bianca. Come quando ero bambino. Si vomita, è un sisma. Non c’è stima di sé e altissima stima del mondo. Ecco: la divaricazione. Questa specie – mentre vomito penso -, questa specie che si è spaccata in due. Questa cosa dello spaccarsi in due, il due che è un numero infame, che già mi premeva dentro quando leggevo alla Biblioteca Calvairate Jean Améry per un esame. Quelli che sembrano uomini e sono serpenti. E gli uomini che sono angeli. La capigliatura compatta, oleosa, colore del legno nei disegni dei bambini, di Donald Rumsfeld che ride buccinando. E lo sguardo della bambina senza la gamba, in braccio al papà, dentro l’ospedale dell’Iraq del sud, dove lavorano soltanto due medici, soltanto due, ventiquattr’ore al giono e non c’è l’acqua, nelle corsie all’improvviso c’è una nuvola di polvere e ne esce un soldato britannico e una donna vestita di nero e seduta lo guarda.
Lo sguardo di Rumsfeld contro lo sguardo della bambina.
E io che devo includere, includere, includere, mentre vomito, mentre la pietà mi rende marmo lo stomaco e non mi gusto proprio la carne che Donata ha portato dal suo paese, parlando con la vecchia madre, una madre che ha vissuto una guerra, ha parlato con la vecchia madre di quando lei era una bambina, aveva iniziato a parlare che aveva dieci mesi, la prima parola era “mamma”, era una bambina scomposta e veloce che cadeva sempre, aveva certi lividi sulle gambe. Donata che ha ancora le gambe. Guardo le mie gambe: quanta carne mi tocca ancora, da lenire, da trasportare verso l’abbraccio che posso concedere, scusate, davvero, faccio il massimo che posso, lo so, è poco, è travisato, non si capisce bene che cerco di abbracciare questa gamba di bambina che non esiste.
Vedo tante persone riassumersi in un solo sguardo, sotto le bandiere multicolori, e io respiro.
Soltanto poche settimane fa, in piazzale Loreto, dove pendeva ciccione e bianco dal distributore Mussolini, c’erano settecentomila persone e la sirena, tutti in silenzio, una sirena che non avevo mai sentito e che mio padre aveva descritto alla perfezione, lunghissima, in salendo, come una mucca affranta, tutti in silenzio, non si rideva neanche per l’imbarazzo isterico, per nulla. Disegnarono a terra in piazzale Loreto la sagoma di gesso del cadavere di una bambina.
Spettro che ritorna, quella bambina, pallida, con gli occhi colore nocciola, imbronciata, senza la gamba, fasciata, dentro l’aria satura dell’ospedale iracheno, mi ritorna davanti e io vorrei morire, alle 20.40 su RaiDue, mentre Massimo Moratti rilascia terribili dichiarazioni.
E stamattina mi son svegliato e ho trovato l’invasor.
E il mio amico poeta Mario aveva scritto una poesia che terminava così: “Scusatemi tutti”.
Sì, vi chiedo scusa.
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