di Giuseppe Genna
Anche e non solo per mestiere, mi tocca occuparmi di letteratura. E’ con un fastidio crescente – imbarazzo, senso di degenerazione, percezione di una certa scabrosità – che me ne occupo in questi giorni che giudico ben più drammatici di quanto cerchi di fare credere la fiction della propaganda ad usum idiotis. Mi pare tutto irrilevante, sul piano della letteratura che si vende, che si propone, che affolla gli scaffali. Prendere in mano un romanzo brillantissimo e di esorbitante intelligenza come L’uomo autografo della ragazza prodigio Zadie Smith (perché a 26 anni si è ancora una ragazza prodigio, oggidì…) mi incute un sentimento di inadeguatezza personale. Il che non sottintende una sfiducia nei confronti della letteratura: la letteratura che mi sembra più pesante di plutonio e uranio, per esempio, mi pare decisiva in queste ore e non mi crea nessun imbarazzo. Sarà dunque una sfiducia nei confronti di ciò che è facile e apparente a farmi apparire narrativa e poesia contemporanee come evanescenti idiomi di una popolazione allo stremo? Quale popolazione? Lo dico subito: quella americana – se non nel passaporto, almeno nella testa. Antidoti letterari a questa sindrome del golfino contro gli spifferi? Uno, al momento: Harmonia Caelestis di Péter Esterházy .
Non è nichilismo, il mio, e ci tengo a ribadirlao, poiché l’equivoco non è dietro l’angolo: ha già svoltato, ci viene incontro a braccia aperte. Non sto dicendo che è tutto una merda. Sto soltanto dicendo che è una merda questa prosopopea occidentalistica, questa difesa a oltranza dell’intelligenza non più creatrice, bensì assisa in opera centrale di puro montaggio, di puro champagne psichico, con cui gli americani e i loro colonizzati eiettano ciò che appare fantastico (nel senso con cui un’aspirante velina potrebbe esclamare un sabato sera, davanti a coca e registi: fantastico!), mentre ciò che non è per nulla fantastico sta accadendo, concretamente, se non davanti ai nostri occhi, almeno davanti agli occhi della mente. E’ con un sottile lutto anticipatorio, per esempio, che attendo la traduzione di quella macchinina scoppiettante dell’ultimo Eggers. C’è una divaricazione dissociativa di cui, mi pare, sono vittima gli americani & co. di questi tempi: i disagi borghesi fintoallegorici di Franzen, gli psicologismi cazzuti di Safran Foer fatti passare per storia mondiale, il paranormale intimista e universalista di Yoshimoto, i pastiche autodivertiti di Sedaris: tutto pseudotragico e davvero consolatorio, polaroid da un nichilismo irriverente che soltanto i culi al caldo possono formulare e rappresentarsi artisticamente. Sia chiaro: questa è letteratura buona, non è un rilievo prettamente letterario che muovo.
Poi, come sempre, la letteratura spalanca l’abisso del tragico e del comico e del meditativo che “pesa”: germoglia un’opera che serve a interpretare (secondo canoni di intelligenza ed emozione e presa di coscienza) la realtà. Non soltanto quella che si sta vivendo: ma prima e dopo e quasi sempre. Questa vocazione della letteratura è, che lo si contesti o meno, la declinazione epica. La declinazione epica è l’incontro e la miracolosa coincidenza di una voce individuale con una voce collettiva. Di quale collettività? Della collettività assoluta: l’umanità. Non è che la voce omerica faccia epica greca: fa epica dell’umanità, tocca un livello di universalità dell’umanità: datemi un uomo, Omero gli parla. Non vorrei difendere proprio le concezioni orfico-ispirazioniste che dipingono un letterato-profeta: poiché è tutto storico, anche casuale, molto contingente. Anzi, più profondamente è storica e casuale e contingente questa voce, più l’opera letteraria è un’opera epica. Per intenderci provvisoriamente: secondo me, James Ellroy è epico e non soltanto perché dipinge nella sua totalità un tempo o più tempi – tocca bensì il mito, questa costruzione di superintelligenza che l’uomo secerne del tutto naturalmente.
E’ difficile pensare a un illuminato svizzero almeno quanto, per l’occidente, è stato fino a poco tempo difficile pensare a un genio letterario ungherese. Tuttavia, chi conosce bene lo spirito e la letteratura magiari non si sorprende mentre si incanta leggendo le incredibili pagine di Harmonia Caelestis, probabilmente il capolavoro definitivo di Péter Esterházy. Costui appartiene a un ramo famigliare che vanta ascendenze nobiliari, aristocratiche e di lignaggio all’interno della selva europea, quasi da sempre, da quando esiste un’idea autostoricizzantesi di “occidente”. E’ dunque questa storia famigliare e collettiva che Esterházy affronta, fa esplodere, fa collassare, stupra nel raccontare secondo deformazioni e menzogne e verità cronachistiche che spartiscono la propria bizzarria con la filologia più improbabile. Esterházy, per sua stessa ammissione “scrittore sperimentalista”, se ne fotte bellamente delle categorie di teoria letteraria, che impegolano le avanguardie con funebri contraddizioni perssoché irrisolvibili. Invece procede come un fiume in piena, tracimando in geografie che sembrano fantastiche da quanto sono vere, clamorosamente inventando ciò che è esistito ed esiste, e tracciando un percorso che è romanzesco non si sa bene perché: ma è romanzesco, e quest’incertezza fondamentale è traccia rivelatrice che si è in presenza di grande letteratura.
Storia apicale e decadente di una famiglia allegorica, che tiene nel proprio seno la vicenda collettiva plurima e travolgente della galassia europea, dal ‘500 fino a ieri, secondo una frattura (o un salto) strutturalmente illuminante, Harmonia Caelestis non si confina nell’indicazione che, preventivamente, ne dà Giorgio Pressburger, splendido traduttore e prefatore peraltro raffinatissimo nel riassumere in poche righe il patrimonio genetico di questo opus magnum: non è l’ironia, nemmeno quella fatalista che ha fatto la gloria del realismo fantastico e saggissimo dei sudamericani, il timone fermo con cui Esterházy guida la navicella del suo ingegno tra i gorghi e le secche di una storia non soltanto sua – bensì l’ipostasi del sé, la cancellazione di un “io” troppo piccolo, infimo e scomodamente ingabbiato tra le sue anguste pareti. Non con l’ironia Esterházy abbatte questo “io”, e nemmeno lo supera approdando al “noi”, che è la categoria più stupida con cui si può leggere l’epica: tutt’altro, egli approda al “nessuno”, sguardo testimoniale, non difensivo e non giudicante, stupefatto senza sorpresa, laddove il prima non si lega al poi, e che riduce a orizzontalità una storia che, altrimenti, si convertirebbe in sisma quasi impazzito.
E’ un capolavoro, questo Harmonia Caelestis di Péter Esterházy, e ringrazio Feltrinelli per averlo tradotto e pubblicato: non mi vergogno a dirlo, nemmeno in questo preciso istante, mentre uomini stanno venendo maciullati da tank provenienti da lontanissimo.
Péter Esterházy – Harmonia Caelestis – Feltrinelli – 22 euro