gowan.jpg Peter Gowan insegna relazioni internazionali alla Metropolitan University di Londra ed è redattore della prestigiosa rivista della sinistra britannica New Left Review. Nel suo ultimo libro, The Global Gamble – America’s Faustian Bid for World Domination (Verso 1999), ha analizzato il dispiegarsi del progetto statunitense di egemonia globale dopo la caduta dell’Unione Sovietica.
Abbiamo discusso con lui della guerra in Iraq e delle attuali tendenze geopolitiche.


1. Questa seconda Guerra del Golfo è una guerra per l’egemonia globale. Molti commentatori indicano le differenti poste in gioco di una vittoria statunitense: il controllo sul petrolio, il predominio del dollaro, la prosecuzione dei flussi di capitale verso gli USA, il battesimo della dottrina Bush, una dimostrazione di forza verso i principali competitori (UE, Giappone, Cina, Russia) e nemici…
Come inquadreresti questa guerra nel contesto delle priorità geopolitiche statunitensi?

Dopo la seconda guerra mondiale il capitalismo americano si è espanso nel mondo sotto l’ombrello del predominio politico unipolare degli Stati Uniti nei confronti di tutti i principali paesi capitalisti. Tale predominio derivava inizialmente dall’abilità statunitense nell’allineare le potenze capitalistiche per il confronto con il Comunismo e l’Unione Sovietica. Una volta allineati in questo modo, i paesi in questione divennero militarmente dipendenti dagli USA per le esigenze della guerra fredda. E la dipendenza militare assicurò la loro subordinazione politica sui problemi più importanti della politica mondiale.
Questo rapporto, a sua volta, permise agli Stati Uniti di continuare a dominare le istituzioni che plasmavano l’economia mondiale ben al di là del momento in cui persero lo schiacciante vantaggio economico dell’immediato dopoguerra. Gli USA potevano così controllare i cambiamenti nell’economia mondiale in maniere che favorivano l’ulteriore espansione del capitalismo statunitense e preservavano la sua posizione dominante. Allo stesso tempo, potevano legittimare nel nome dell’anticomunismo l’impiego della potenza militare per rovesciare regimi tacciati di ostilità. Potevano infine contare sui propri alleati più stretti e sul controllo delle istituzioni chiave del dominio economico mondiale per proiettare la propria potenza verso l’esterno, in tutto il mondo non comunista.

Il collasso del Blocco Sovietico ha avuto effetti contraddittori. Il ridimensionamento delle capacità militari del Blocco Sovietico ha reso gli Stati Uniti militarmente senza rivali, ed ha aperto nuove enormi aree dell’Eurasia all’espansione statunitense. D’altra parte, ha anche liberato l’Europa occidentale dalla dipendenza politico-militare dagli USA, incoraggiando processi più accentuati di regionalizzazione politica e un’accelerazione dell’espansione europea (politica ed economica) verso est.
Allo stesso tempo, la capacità degli Stati Uniti di legittimare il proprio controllo militare del confine tra i paesi capitalisti avanzati e le loro periferie è risultata minata. L’anticomunismo non è più utilizzabile, l’aggressione umanitaria / in difesa dei diritti umani è troppo poco credibile e molti stati, inclusa la maggior parte di quelli dell’Europa occidentale, hanno richiesto la legittimazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (UNSC) per qualsiasi aggressione militare.

Dal 1990 è esistito un consenso programmatico all’interno della classe capitalistica statunitense, che controlla lo stato americano, sul fatto che gli USA dovessero cercare di mantenere il proprio controllo unipolare sul mondo capitalista avanzato estendendo l’unipolarismo all’intero globo – l’intera Eurasia. Questo programma attivamente espansionista era tanto più necessario, in quanto i capitali statunitensi dipendevano ora più che mai dalle operazioni all’estero. Ma come conseguire un simile unipolarismo globale, come costringere ciascuna delle principali potenze in un sistema di cooperazione centrato sugli USA? E come legittimare le manovre geopolitiche necessarie a raggiungere tale obiettivo, non solo sul piano internazionale ma anche nei confronti di un elettorato interno non più cementato attorno all’espansionismo USA dall’anticomunismo? Un primo e critico compito strategico era quello di subordinare nuovamente l’Europa occidentale, che venne affrontato con le manovre nei Balcani occidentali (Bosnia; l’attacco contro la Jugoslavia nel 1999) e con l’allargamento della NATO fino ai confini della Russia. Ma questa iniziativa si rivelò un parziale fallimento: gli Europei si accodarono all’offensiva USA ma cercarono simultaneamente di rafforzarsi come soggetto politico unitario.

Questi problemi vennero mitigati negli anni ’90 da due fattori: (1) il programma di globalizzazione economica, mirante all’apertura delle economie nazionali e alla rimozione delle conquiste operaie, era molto popolare nei circoli d’affari di tutti i paesi capitalisti, centrali e non; (2) il capitalismo finanziarizzato statunitense, durante il boom iniziato nel 1995, offriva alle aziende di tutto il mondo enormi spazi di investimento finanziario per espandere le proprie operazioni.
Ma quando la bolla finanziaria negli USA è esplosa e il programma di globalizzazione economica si è rivelato in molte regioni estremamente destabilizzante, questi elementi mitiganti hanno perso la loro forza.

L’amministrazione Bush è entrata in carica determinata a trovare il modo di utilizzare la carta vincente dei mezzi militari senza danneggiare più di tanto la propria legittimazione ideologica internazionale. Il nucleo centrale della squadra di Bush è costituito da Cheney, Rumsfeld, Rice, Wolfowitz, tutti legati a questo approccio. Powell fu chiamato come spia di eventuali allarmi sul fronte diplomatico / ideologico. Il Tesoro, così centrale nella squadra di Clinton, venne marginalizzato.
Costoro non avevano inizialmente le idee chiare sulle priorità tattiche, e accarezzavano l’idea di un confronto con la Cina. Ma l’11 settembre fornì tutte le direttrici d’azione, tattiche e strategiche.

L’obiettivo strategico divenne il rafforzamento di un nuovo cleavage [linea di frattura] globale contro il terrorismo e gli “stati canaglia” (già preparato dall’amministrazione Clinton), che avrebbe legittimato un’iniziativa militare volta ad acquisire il controllo dell’intera regione del Golfo e del Mar Caspio, e controllare così il fluido vitale di tutte le principali economie – il petrolio. Simultaneamente, questa offensiva strategica avrebbe inferto un grave colpo agli sforzi dell’Europa occidentale di mantenere e sviluppare una politica unitaria indipendente. Se si fosse accodata all’offensiva, avrebbe dovuto abbandonare la concezione di un ordine mondiale centrato sulle Nazioni Unite, le tradizionali politiche mediorientali, l’influenza autonoma nel Medio Oriente e l’intero atteggiamento verso il Sud del mondo, la proliferazione, i diritti umani, etc. Se non si fosse accodata, sarebbe stata isolata e umiliata, con le proprie classi capitalistiche in rivolta.
Gli obiettivi tattici dovevano invece essere: primo, l’Afghanistan; secondo, lasciare mano libera a Sharon contro i Palestinesi; terzo, conquistare l’Iraq; quarto, destabilizzare e rovesciare il regime iraniano.

2. La posizione degli Stati Uniti è stata definita di “dominio senza egemonia”, e l’opposizione drammaticamente in crescita che si trovano a dover affrontare, sia a livello di pubbliche opinioni che di governi, lo dimostra. E’ saggio questo slancio imperiale ed unilateralista?

La saggezza o meno dell’orientamento in questione dipendeva dal successo dell’attacco all’Iraq e dal conseguente consolidamento del controllo sulla regione caspica e del Golfo. Da un punto di vista statunitense, il fatto che questa offensiva avrebbe rafforzato le tendenze verso il terrorismo era da considerarsi un fatto positivo più che negativo: avrebbe reso il cleavage contro il terrorismo più forte e attivo. Ma Washington stava correndo un rischio, quello di dover fare quasi tutto il lavoro da sola e con le proprie risorse.

Quel rischio si è ora trasformato in un pericolo molto grande. La tipica arroganza razzista / imperiale verso le popolazioni del Terzo Mondo prive di tecnologia militare avanzata e sprofondate nella povertà (dalle sanzioni Anglo-Americane) ha spinto gli USA a fare un disastroso errore di calcolo militare nel loro piano di attacco contro l’Iraq: avrebbero dovuto condurre un bombardamento genocida. Il mondo intero è ora “colpito e terrorizzato” dalla resistenza irachena. Per il popolo iracheno e per il mondo arabo, questa guerra è già diventata un episodio storico ed eroico di resistenza nazionale contro l’alleanza anglo-americana-israeliana. Il successivo annientamento dello stato iracheno non altererà questo fatto. L’unica speranza consisterebbe nel tentativo di affermare che gli Sciiti nel sud hanno abbandonato la resistenza nazionale, il che appare poco probabile.

Al momento sembra impossibile che gli Stati Uniti riescano a stabilizzare un regime nell’Iraq del dopoguerra unicamente con le proprie risorse. Se ci provano, si ritroveranno in un pantano strategico per molti anni, in un Medio Oriente caotico. E gli Inglesi se ne tireranno fuori per salvarsi. Ma se gli USA impegnassero anche risorse militari, politiche e finanziarie di altri paesi, ne dovrebbero pagare il prezzo: una perdita di controllo egemonico. E, nel frattempo, il loro intero sistema di alleanze è in crisi politica e istituzionale. Immagino che la classe capitalistica statunitense e i suoi leader politici saranno incollati al telefono con i propri alleati del grande capitale europeo, nel disperato tentativo di spingerli ad esercitare pressioni sui propri governi perché tornino in riga dietro agli Stati Uniti.

Fine 1/2 – La seconda parte apparirà venerdì 4 aprile