di Alessandro Portelli
Alessandro Portelli insegna Lingue e Letterature Anglo-Americane all’Università di Roma “La Sapienza” ed è condirettore della rivista Ácoma. Tratto dal Il Manifesto del 26 marzo.
Non so se avete presente quella vecchia canzone proletaria romana che dice «vent’anni e più di tirannia fascista \ col carcere, il confino ed il bastone \ non hanno menomato al comunista \ la convinzione»; e poi continua: «questa città ribelle e mai domata \ dalle rovine e dai bombardamenti…» Sono versi che abbiamo sentito tante volte che non si pensa più a che vogliono dire. E invece fermiamoci un attimo e facciamoci caso: la canzone non attribuisce ai bombardamenti la funzione di liberare la città, ma quella di domarla.
Uno dei miti che accompagnano le guerre a cavallo del millennio è che se tu bombardi un popolo oppresso, questo te ne sarà grato e ti accoglierà con fiori e confetti, e la festosa accoglienza alle truppe alleate nel 1944-45 in Italia è il precedente storico che fa scuola. Le buone ragioni le sappiamo: i primi a bombardare e a provocare la guerra eravamo stati noi; l’arrivo segnava la fine di una lunga guerra (non l’inizio di una guerra lampo) e la costruzione di un nuovo ordine internazionale (non la sua distruzione); gli alleati erano occidentali come noi, non esponenti di una cultura e di una religione diverse e spesso ostili o percepite come tali; soprattutto, direi, oltre che oppressa dal fascismo, l’Italia era già un paese occupato da un altro esercito straniero, particolarmente efferato.
Tuttavia, la canzone (e una quantità di narrazioni orali raccolte nel corso degli anni) suggeriscono che i bombardamenti non vengono percepiti solo come alternativa liberatrice all’oppressione, ma anche come una sua continuazione sotto altre forme e per altre mani: da una parte, le rovine e i bombardamenti pongono fine ai vent’anni e più; da un’altra, vi si aggiungono. Le disgrazie si accumulano sulla povera gente; la regola non è «chiodo scaccia chiodo», ma «piove sul bagnato». Troppo spesso, quando parliamo di regimi dittatoriali, pensiamo alle popolazioni come se l’oppressione politica fosse l’unico aspetto che conta della loro esistenza (e, per gli oppositori, i ribelli, gli esuli praticamente lo è). Ma anche sotto Mussolini o sotto Saddam, le città sono piene di gente che nel frattempo manda i figli a scuola, fa la spesa, va al cinema, va in chiesa o alla moschea, si sposa… tutte cose che la dittatura rende difficili, e che le bombe rendono impossibili.
Anche per questo credo che dobbiamo fare specialmente caso al verbo usato nella canzone: «domata». Qui, naturalmente, si parla soprattutto degli oppositori, dei partigiani («ribelle»). Ma più ampiamente, l’idea che l’effetto delle bombe sia quello di «domare» la città si riferisce alla soggettività: una città domata non è solo sconfitta, ma ha anche interiorizzato l’inevitabilità e la giustezza della propria sconfitta. In questo senso la canzone sembra anticipare la terminologia della guerra in corso – quello «shock and awe» che, come scrivono i suoi teorici James Wade e Harlan Ullman, consiste nello «intontire, terrorizzare, decapitare, spezzare la volontà di resistenza». Forse la traduzione più giusta e letterale di «shock and awe» va cercata nel manzoniano «percossa, attonita»: sotto shock, appunto, e ammutolita davanti a un evento luminoso di incomprensibile grandiosità.
Però qui c’è un altro problema. Già durante la seconda guerra mondiale i bombardamenti erano accompagnati da volantini che incitavano la popolazione a ribellarsi contro Mussolini e contro i tedeschi, giustamente indicati come la causa prima delle loro disgrazie. Lo stesso è avvenuto in Irak, e l’invasione è stata intrapresa con l’aspettativa che non solo non ci sarebbe stata resistenza, ma che la popolazione si sarebbe sollevata contro il suo sanguinario tiranno. Finora, di questa sollevazione non c’è segno, salvo in territori come il Kurdistan irakeno dove già esiste una struttura sociale alternativa al regime. Ma come aspettarsi che una società civile disarticolata dalle bombe, una massa di individui intontiti e senza volontà, costretti a mettere in primo piano l’esigenza elementare di sopravvivere (senza acqua, senza elettricità…) – come si fa ad aspettarsi che una società in queste condizioni, per quanto odi il tiranno, trovi le energie e l’organizzazione per insorgere? Più ancora: dopo aver ridotto una società in questo stato, come si fa a immaginare di poterci trovare le basi di una democrazia?