di Giuseppe Genna
S’avanza sempre più massicciamente un assedio alla nostra Baghdad interiore. E’ un assedio portato da truppe visibili e invisibili, eiettate da catodi e radiotransistor. Queste truppe sono armate di un’arma unica che spara sempre il medesimo proiettile. La munizione ha un duplice effetto: uno intenzionale, che sarebbe quello di squassarci la mente e il cuore; e uno reale e concreto, che è quello di fiaccarci e di fare cadere le braccia. Disponiamo di scudi umanissimi contro questi spari esplosi nella notte in cui non tutte le vacche sono nere (Loro, le vacche d’oro, le distinguiamo alla perfezione): disponiamo della rabbia. Una rabbia nei confronti dell’universo parallelo di un Potere pervicacemente imbastardito negli atti e nelle strategie. Una rabbia nei confronti del tentativo di pervertire la statura e l’intelligenza di milioni di persone che in questi anni, in questi mesi, in questi giorni hanno gridato parole pesanti: “pace“, “giustizia“, “legalità“, “vita“. E “pietà“.
Ecco il killeraggio argomentativo che stanno tentando: siete antiamericani, quindi siete con Saddam. Questa spazzatura dialettica non meriterebbe la risposta che qui, per parte mia, tento di dare – risposta che è una banalità di base, una perdita di tempo, una fatica inutile. Non so nemmeno se questa risposta sia rappresentativa di altri oltre a me. Però credo fermamente nell’argomentazione. Diffidare in massimo grado delle parole (non solo quelle d’ordine) presuppone un amore sconfinato e una fiducia nella profondità del linguaggio. Con il linguaggio verbale rispondo: sono contro Bush sicuramente più di quanto io sia contro Saddam; non sono per nulla antiamericano, ma sono certamente antitecnocratico e dentifico nell’Amministrazione Bush la componente visibile di antiumanismo indegno.
Già Valerio Evangelisti, sulle pagine di Carmilla, ha espresso la totalità dei possibili distinguo a proposito dell’accusa di antiamericanismo, parlando del Giardino degli antiamericani suicidi. Ma non vale davvero la pena di difendersi da un’accusa tanto rozza e imbecille, tutta ipocritamente tesa a squalificare una delle mobilitazioni collettive che entreranno nella storia umana di sempre. Una simile accusa è un espediente retorico (quindi eminentemente letterario) che a pieno titolo è da annoverare nella “coperta di fiction” stesa sul pianeta dagli scherani texani. Una simile accusa impedisce l’espressione e, come tutte le menzogne, sottrae potere a chi la subisce per conferirne a chi la perpetra. Un microesempio significativo soltanto in forma di emblema: dieci minuti di discussione, ierisera, a Ballarò, con faticoso e idiota contributo da parte del segretario diessino Piero Fassino, a dire che no, siamo per la pace, non è vero che siamo antiamericani, ci preoccupa quest’antiamericanismo diffuso, l’antiamericanismo è come l’antisemitismo e l’antisraelismo. Dieci minuti in cui ha dovuto tacere il professore Jean Ziegler, il quale, quando ha avuto la possibilità di parlare, ha iniziato a elencare dati, cifre, idee, retroscena che devono essere conosciuti affinché si precisi il lavoro di coscienza collettiva (la storia del Carlyle Group in primis). Dieci minuti che hanno tacitato, finché hanno potuto e perciò finché sono durati, gli argomenti di una deriva planetaria che fa tanto male a chi lancia al Movimento l’accusa di antiamericanismo.
Nello specifico e davvero: cosa significa sentirsi oppositori di Bush e non degli Stati Uniti? In America prosegue, a volte carsica e sottile, a volte patente e massiva, una discussione intorno al nucleo identitario di una nazione che è, al tempo stesso, federale e compatta, passiva e tuttavia capace di espressione di un potere unico (si badi: quest’espressione veniva formulata anche in tempi di bipolarismo geopolitico). E’ un dibattito che oltretutto si incarna in una forte eterogeneità di prassi: strategie economiche, culturali, politiche, retropolitiche, diplomatiche. E’ come se si stesse assistendo a una vasta psicoterapia di un ciclope che tenta di resistere a uno stato dissociativo in piena emersione.
Due sono le parti in conflitto: un conflitto interno agli Stati Uniti che finora ha soltanto parzialmente condizionato gli assetti internazionali e le culture che gli Usa hanno in vario modo tentato di colonizzare. Sono in gioco due personalità che esulano dalla distinzione propriamente tecnica di Democratico e Repubblicano (da questo punto di vista, Gary Heart non si distingue se non, ma significativamente e questo va ammesso, da Paul Wolfowitz). Una di queste personalità, la più deviante e interessante, quella che strategicamente bisognerebbe enfatizzare, può essere definita “identità jeffersoniana“. Per non sottilizzare troppo: si tratta dell’America autocritica e autocratica, capace di concedere a sé e agli altri un limite e una dialettica di civiltà, priva di fondamentalismi irrispettosi e di atteggiamenti irriguardosi, e che fa della pietas uno dei perni della proposta umana che avanza. Ovviamente non stanno proprio così, le cose: si tratta in realtà di una “identità” gravida di contraddizioni, pratiche e filosofiche, che tarda a fare i conti con i paradossi che del tutto naturalmente trasuda. L’altra componente identitaria statunitense è più difficilmente sintetizzabile. Negli ultimi tempi ha adottato uno slogan onomastico e ha deciso di chiamarsi “neoconservative“. E’ l’America di Bush Sr e di Bush Jr, dei texani e della lobby ebraica, del gruppo millenarista protestante e della cupola finanziaria. Non è una civiltà di primo grado: il consenso che raccoglie tra i cittadini americani non è naturale e istintivo. Questa è un’identità più nascosta (e, quindi, più profonda) della “personalità jeffersoniana”. Utilizza uno schermo vivente (che educa attraverso culture dominanti per guadagnarsi una rappresentanza pubblica) e al tempo stesso potrebbe farne a meno, poiché coincide con i cosiddetti Poteri Forti.
Alcuni punti decisivi intorno ai quali divergono queste due civiltà commiste e solo astrattamente distinguibili: il momento economico (la posizione dei jeffersoniani è “riallineamento e Nuova Bretton Woods”, mentre i neoconservative spingono per il turbocapitalismo e la finanziarizzazione definitiva della totalità dei mercati); il momento rappresentativo (i jeffersoniani sono per un riallineamento anche politico della base elettorale alle istituzioni; i neoconservative enunciano fintamente la medesima posizione, ma puntano decisamente a potenziare i processi decisionali delle élites – anzi della élite); il momento etnico (i jeffersoniani tendono a un modello di matching identities, secondo le modalità del melting pot; i neoconservative predicano e realizzano il modello salad bowl, cioè il recipiente che contiene diversi tipi di insalata, le cui foglie si mischiano senza snaturarsi, e in realtà pratica la superiorità decisionale della componente wasp); il momento educativo (i jeffersoniani per l’educazione pubblica e di massa; i neoconservative per un abbassamento implicito della cultura collettiva, a vantaggio di un atteggiamento votato all’entrata precoce sul mercato); il momento religioso (i jeffersoniani per una diffusione e tutela delle sétte, sotto l’egida di una centralità massonica illuminata; i neoconservative per un atteggiamento distintamente e alternativamente neoscettico e millenarista, potenziando un essoterismo polarmente opposto all’esoterismo a cui partecipa il cuore dell’élite).
Ora, in un contesto planetario che, già di per sé, gronda ambiguità e contraddizioni, questa lotta identitaria interna alla civiltà americana è decisiva se e soltanto se il prossimo futuro del pianeta sarà griffato da un’unica superpotenza: quella statunitense, per l’appunto. E’ una prospettiva del tutto personale quella che esprimo: sono per amplificare questo dibattito americano, per conferire alla posizione jeffersoniana il massimo di rappresentanza in un continente che, problemi del genere, sembrava averli superati, prima di crollare sotto i colpi di rinculo imposti dal rappresentante europeo neoconservativo, che è e sarà sempre l’Inghilterra.
Non sono antiamericano, come sono sicuro che non lo sia gran parte del Movimento e della sommatoria degli spiriti liberi che ancora vivificano questo pianeta. Non sono nemmeno jeffersoniano, poiché aspiro a una quota di libertà collettiva, a ogni livello, ben superiore a quella che lo spirito jeffersoniano può immaginare e permettersi. Ma non sono talmente idiota da non vedere che il jeffersonismo permette una sostenibilità civile molto maggiore rispetto all’insostenibilità incivile che irradia dalla non più nascosta tirannide dell’élite neoconservatrice.
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