di Giuseppe Genna
Chi si occupa di tecnologie militari, non per diramare bollettini di entusiastica compartecipazione ai progressi che la scienza bellica compie di anno in anno, conosce benissimo uno degli aspetti meno chiacchierati dell’attuale conflitto in Iraq: il testing. E’ fondamentale per l’industria militare americana provare l’efficacia, la precisione, la resistenza allo stress tecnico e il coordinamento delle nuove tecnologie prodotte negli ultimi anni all’interno di laboratori semianonimi o, comunque, mai abbastanza al centro della pubblica attenzione. Come illustri filosofi avevano già sottolineato nel Novecento e anche un po’ di secoli prima, non è che la tecnologia non esprima una cultura o sia imbecillemente inerte. Per esempio, surfando sullo tsunami dell’attualità, la novità à la page della strumentazione militare Usa, i cosiddetti droni, ha impresso all’Occidente mediale la certezza che questa guerra sarebbe stata “diversa” e “strana”: meno morti, soprattutto tra le file di chi invadeva, grazie al sentore alluminato di un’artificialità perfetta, asintomatica e asetticissima – garantita da attacchi a cui avrebbe partecipato in grado minore il comparto umano. Lo sguardo allucinato e il sistema neurovegetativo sconvolto del marine catturato e mandato in diretta tv e in paranoia sanciscono quanto sia menzognera l’affermazione di Rumsfeld intorno a una guerra più “chirurgica” e “sicura”.
Che questa guerra sia strana e più sicura, e che implichi minori spargimenti di sangue rispetto a un conflitto identico da affrontarsi negli anni Settanta, non è questione tecnologica, bensì essenzialmente strategica. La “chirurgia” a cui fa riferimento Rumsfeld fu un concetto guida dell’intervento nel Golfo del ’91: e i risultati furono sotto gli occhi di tutti, tenendo inoltre presente che allora si trattava di agire principalmente in territorio extrairaqeno.
La strategia è mutata, nel frattempo, per motivazioni anzitutto psicologiche. Non che si tenti di presentare questa guerra come “più pulita” agli occhi dell’opinione pubblica mondiale. Abbiamo ben visto in questi mesi quanto interessi davvero all’amministrazione Bush jr dell’opinione pubblica mondiale. Le motivazioni psicologiche che costringono a un mutamento di strategia riguardano invece la controparte iraqena. Per sua stessa ammissione, Rumsfeld ha cercato defezioni di massa nell’esercito di Saddam Hussein, fallendo miseramente. Le centrali elettriche non sono state bombardate. Il tutto per evitare di dare al nemico, che potrebbe essere il futuro alleato della remunerativa ricostruzione e occupazione dei giacimenti petroliferi, l’impressione di volere punire il popolo iraqeno e non semplicemente di tentare la molto propagandata estirpazione della tirannide (aprendo così uno spazio di potere per le attuali seconde linee del regime di Saddam).
Ammessa a mezza voce, questa verità più tattica che strategica è stata offuscata dalle affermazioni intorno alla superiorità tecnologica del contendente americano. Che, ovviamente, è incontestabile, al punto che è divenuta il perno financo filosofico del documento steso da Condoleeza Rice nel 2002, quello sulla nuova visione dell’ordine mondiale secondo Washington.
Incontestabile, questa superiorità tecnologica, e però fallace. Tutta la tecnologia bellica statunitense, da anni, vira all’indipendenza di movimento e di intervento da parte dell’inorganico. Le due innovazioni testate massicciamente in questo conflitto: la polvere di silicio che trasmette dati digitalizzati al centro di controllo intorno alla conformazione del territorio, al clima, alla presenza animale (cioè soprattutto umana) e ai rischi eventuali da corrersi durante l’attacco; e la tecnologia dei droni, applicata soprattutto agli aerei, che permette un controllo a distanza di mezzi di trasporto per ordigni, senza alcun pilotaggio umano. E’ principlamente l’avanzato stato di raffinatezza tecnologica dei droni che, per esempio, ha fatto gridare al complotto interno in occasione dei dirottamenti dell’11 settembre 2001: trattandosi di una tecnologia installata sui Boeing, ha prestato il fianco ai teorici della cospirazione che non credevano capaci arabi male istruiti di pilotare convogli aerei con una simile precisione d’impatto.
In realtà, lo sviluppo dei droni rientra in un vasto movimento che culmina anzitutto nella sostituzione di HUMINT con DIGINT e SIGINT: si passa da un’intelligence che utilizza agenti umani sul campo a un’intelligence del tutto artificiale e tecnologica (intercettazioni e corollario inorganico nella raccolta di informazioni) – da HUMAN INTELLIGENCE a DIGITAL e SIGNAL INTELLIGENCE (Echelon è una semplice occorrenza di questo fondamentale passaggio).
Qui è il punto critico. Se gli attentati al Pentagono e al World Trade Center sono un complotto interno, si suppone che l’espulsione dell’agente umano dal contesto di intelligence faccia parte del complotto; se invece si tratta di un attentato realizzato da nemici esterni, CIA e FBI hanno fallito, dimostrando che la rivoluzione tecnologica in corso è fallace.
Lo stesso dicasi per la supposta “guerra dei droni” scatenata in Iraq. Come è chiaro dal ricorso di Delta Force (la truppa di avanguardia che attualmente è già presente in Baghdad), senza l’elemento umano non è possibile tentare di arrivare al cuore del bersaglio. Ammesso che lo fosse, la strategia cambierebbe: bombardamento aereo a tappeto, seconda ondata di truppe umane. Il che non comporterebbe variazioni rispetto all’unica autentica sconfitta subìta finora dall’Amministrazione Bush: che non è la perdita di vite di piloti aerei, bensì la cattura di marines a terra, spediti poi per tattica più che ovvia in diretta tv mondiale.
Non è dunque nella resistenza da parte dell truppe iraqene che bisogna ravvedere la Grande Difficoltà del sistema militare dei conquistadores anglotexani. E’ nella sperimentazione del limite implicito nel trionfo dell’inorganico che si cela una più profetica e importante sconfitta.
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