di Valerio Evangelisti
Chiunque non sopporti lo spettacolo osceno di una violenza annunciata con freddo cinismo, centellinata di giorno in giorno, descritta con abbondanza di cartine dai quotidiani, fatta oggetto di fredde e disinvolte dissertazioni da parte di analisti di dubbia neutralità, vive con angoscia i giorni che mancano all’eccidio voluto da George W. Bush e dalla pletora dei suoi servi.
L’indegnità della messinscena allestita per giustificare un massacro ha pochi precedenti nella storia. “Saddam Hussein deve disarmare”, ci viene ripetuto da quasi un anno; e, nello stesso tempo, non ci si perita di nascondere che, disarmo o non disarmo, l’esito sarà lo stesso, poiché la distruzione dell’Iraq era già stata decisa prima che cominciasse il goffo allestimento dei pretesti per farlo.
L’andazzo sarebbe quello di una farsa, se non vi fossero in ballo decine di migliaia di vite umane, ostaggio di brutali intenzioni di conquista e giocate come le carte di una partita a briscola. Ma forse persino questo potrebbe essere tollerato se presentato per ciò che è: una selvaggia esibizione di crudeltà, in linea con un’etica che, dai tempi della frontiera fino alle 300 esecuzioni di quest’anno nelle carceri del Texas, non giudica riprovevole in sé l’omicidio. Ciò che è davvero intollerabile è che Hannibal the Cannibal si mascheri da Robin Hood, e accumuli alibi preventivi per giustificare l’eccidio che progetta.
Prendiamo gli “strumenti di distruzione di massa” in possesso di Saddam Hussein. Quali sarebbero? Missili capaci di arrivare trenta chilometri più in là del lecito? Via, non scherziamo. Il tanto temuto antrace? Finora il solo antrace che ha circolato per posta negli Stati Uniti proveniva da laboratori americani ed era fabbricato da tecnici americani con la vocazione del serial killer. Gli ordigni atomici? In Iraq non ce ne sono, per ammissione unanime.
In compenso, mentre attribuiva a Saddam Hussein le intenzioni più diaboliche, il governo Usa sperimentava, tra la sinistra euforia dei media, una bomba di svariate tonnellate capace di produrre gli effetti di un’atomica; confessava l’uso della tortura sui talebani prigionieri a Guantanamo (e confermava che alcuni di essi si sono suicidati); con i compari inglesi moltiplicava i bombardamenti quotidiani sull’Iraq meridionale e preannunciava a cuor leggero, dopo la guerra imminente, tutta una serie di guerre future. In nome del bene, ovviamente, o dell’ “interesse nazionale americano”, o della democrazia, che sarebbero poi la stessa cosa.
D’altra parte, in passato Saddam Hussein commise i propri crimini più aberranti col pieno consenso del governo degli Stati Uniti, e talora su sua diretta istigazione. Le esecuzioni in massa dei comunisti iracheni (tuttora la forza di opposizione maggioritaria nel paese), la guerra feroce e sanguinosissima contro l’Iran, l’uso dei gas tossici contro i villaggi curdi, la repressione della rivolta degli sciiti del sud: altrettanti momenti di una complicità sciagurata e criminale. Persino l’invasione del Kuwait forse derivò, secondo studiosi di prestigio, da un mero fraintendimento della volontà statunitense.
Perché ricordo episodi teoricamente noti a tutti? Perché alcuni giorni fa il più garrulo e blandito di tutti i detenuti italiani si è rivolto al movimento pacifista per chiedergli se, a guerra iniziata, parteggerà (anzi, “tiferà”, e già il verbo è raccapricciante) per la democrazia americana o per il tiranno Saddam Hussein (cfr. La Repubblica dell’11 marzo 2003). Veramente, sarebbe ora che l’autore dell’articolo fosse liberato, sia perché è innocente, sia perché lo si possa finalmente prendere a calci in culo, come merita da almeno un decennio. O forse no, sarebbero calci sprecati. Il tizio è solo uno degli esponenti di quella tendenza europea che vede ex leader dell’estremissima sinistra, a suo tempo incensatori dei regimi più aberranti, dall’Iran di Khomeini (è il caso del nostro, già autore di un libro involontariamente comico in elogio degli ayatollah) alla Cambogia di Pol Pot (Pascal Brukner, André Glucksmann), passare al campo opposto con la stessa sicumera, quasi non vi fosse rottura di continuità. Dove per “campo opposto” deve intendersi la “difesa dell’Occidente”, anche quando l’Occidente ha il viso poco rassicurante di George W. Bush o del suo partner naturale in Medio Oriente, Ariel Sharon.
Gente di quel tipo, incline al pulpito, malata di protagonismo (ogni volta che parla lo fa a nome di una generazione, del mondo intellettuale, della Verità, della Storia, di una frazione più lungimirante della massa accecata), prigioniera dell’antico vizio di credere che l’intelligenza di un movimento si esaurisca nei suoi portavoce, finge di non capire che ciò che si prepara non è una partita di Risiko, bensì una strage immane che avrà per vittime disgraziati del tutto incolpevoli. E che l’elemento nuovo, realmente dirompente, espresso dalle moltitudini che si oppongono alla guerra è quello di una fraternità umana elementare capace di unire i popoli a dispetto dei loro governi, contro le forme vacue di rappresentanza formale o quelle abiette di potere coercitivo che soffocano il riconoscimento reciproco e la reciproca empatia.
E’ questo il miracolo a cui stiamo assistendo. Quando ormai sembrava che ogni comunità dovesse sgretolarsi, che ogni forma di convivenza solidale fosse destinata a sfaldarsi in conflitti di religione, di etnia o di campanile, ecco che dal basso, in forme largamente spontanee, sorge la spinta a ricucire i legami, a riattivare le solidarietà perdute, a superare le fratture artificiose, indotte dalle sovrastrutture politiche, in nome di una fondamentale comunanza di interessi. L’egoismo forsennato insito nella mortifera ideologia liberale (o liberal, come oggi si usa dire per sottolinearne l’ascendenza anglosassone) crolla sotto gli occhi sbigottiti di opinion makers che avevano consacrato ogni loro energia alla sua propagazione.
E’ logico che chi aveva teorizzato la guerra quale strumento umanitario, i bombardamenti quali sorgenti di democrazia, un nuovo colonialismo (affidato all’Onu, e perché no, magari direttamente a Emma Bonino) quale dispensatore di equità, si trovi spiazzato da un movimento che muta completamente i termini della questione, ponendo le premesse di un nuovo internazionalismo. Tuttavia nemmeno tale, forse comprensibile imbarazzo, giustifica l’idiozia mostruosa della domanda: scoppiata la guerra, starete col democratico occidentale Bush o sosterrete Saddam Hussein? Porre un simile quesito vuole dire non avere capito nulla di ciò che sta avvenendo, nelle piazze e nelle coscienze. Significa trascurare il fatto che i popoli non coincidono con i loro governi, ma sono fatti da persone concrete che, al di là di ogni differenza culturale, non desiderano uccidersi a vicenda.
Inutile indagare se la domanda sia originata da ottusità o malafede. Meglio volgere le spalle ai tristi cultori di snuff, tutti eccitati dalla lettura ideologica di uno spargimento di sangue, e guardare nella direzione in cui, alla vigilia di una tragedia immane, una nuova sensibilità collettiva sta emergendo. Su quell’orizzonte, dove lo strazio annunciato di una massa di infelici suscita moti istintivi di empatia, si colloca, confido, l’argine al cinismo che ha finora dilagato impunemente. Se c’è un avvenire con un briciolo di speranza è da quella parte, dove ogni logica di potere viene smantellata dalla pulsione alla solidarietà. Invece l’avvenire propugnato da chi chiede di tifare per un’armata o per l’altra, per l’omicidio benedetto dall’Onu o per l’omicidio senza Onu, non è solo tragico: è sordido.
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