Il racconto che pubblichiamo ha almeno cinque anni. Ciò non toglie che, per chi sta scrivendo queste parole, si tratti di uno dei racconti italiani più belli dell’ultimo trentennio. Ha forse lo scrivente una stima eccessiva di Aldo Nove se asseriamo che questo poeta e narratore è uno dei massimi interpreti della lingua letteraria italiana? Può darsi. Ciò non toglie che, impegnando a fondo l’intera cultura poetica di cui dispone lo scrivente, egli non riesca a resistere a un senso di profonda ammirazione e alto sbalordimento per quanto riesce a fare Aldo Nove nel racconto che segue. Il quale fu pubblicato sul manifesto del 14.4.98 e in un’antologia uscita da Rizzoli, Il ’68 di chi non c’era ancora, a cura di Raul Montanari, con testi di Scarpa, Doninelli, Corrias, Nove, Campo, Voltolini, Lucarelli, Pinketts, Pinardi, Janeczek, Caliceti. [giuseppe genna]
Bio. Il ’68 visto da un cortile
di Aldo Nove
Nel 1968 mia madre era un fiume già stato, da sempre, con le tette e la voce modulare del pianeta che abitavo prima degli scioperi operai delle manifestazioni e di Celentano, completamente madre da toccare nella casa del cortile dove io sono nato.
Verso l’uscita del cortile dove io sono nato c’era una fabbrica che faceva il rumore di un gallo che ogni cinque minuti veniva schiacciato da una pressa. Mia madre era la pelle che incominciava dove finiva il terrore di quel rumore di gallo schiacciato. Più tardi, mia nonna, diceva di lei.
Parlava con l’orologio dei vecchi sul davanzale con il pulcino meccanico che becca il miglio d’acciaio ogni secondo ogni volta che le lancette giravano a bassavoce dentro di me entrava, sottile, bavoso, razzismo.
Mia madre andava e veniva nel cortile dove io sono nato.
Dentro quel cortile, ogni giorno un uomo grasso veniva vestito di blu ad aprire la fabbrica faceva un rumore di ferro e di ferro più forte di odore di olio al mattino con tanti pezzetti di ferro arrugginiti là fuori, quell’uomo accendeva la macchina del gas.
Quando ho incominciato a fissare nella memoria quel rumore prendeva forma la vita, quell’anno, era il 1968.
Quell’uomo era cupo e sinistro fumava ogni anno invecchiava seduto fuori dalle porte di ferro e vetro unte di olio guardava passare le linee degli aerei alte nel cielo tossiva era pieno di rughe.
Quando un altro anno quell’uomo è morto un altro uomo veniva al mattino vestito di blu ad aprire la fabbrica faceva un rumore di ferro più forte di odore di olio al mattino con tanti pezzetti di ferro arrugginiti là fuori, quell’uomo accendeva la macchina del gas.
E la luna? La luna si bloccava tutta la notte come un ingranaggio di quella fabbrica, esaurito ed esaltante sopra i tetti che ci sono correndo verso le scuole elementari Buzzi Reschini buttava raggi contro alle persone mentre restava sospesa lì in mezzo magistrale, sopra i camini colorava i sampietrini di bianco lunare e i mattoni.
Dentro lo spazio del cortile ogni giorno si sommavano colorati sampietrini di rosso e mattoni a pezzetti con pietre e cespugli erba uno spiazzo dove dopo mettevo le biglie inclinato talmente che ogni volta che ci passavo la carrozzina sussultava volavo, guardavo più alto nel cielo mia madre i camini.
Più di tutto era un caco che c’era svettava ogni anno più alto recinto dal muro di fianco era un grande padrone del tempo restava lì a fianco di dove passavo era un caco trionfante occupava lo spazio di cento bambini pressati era grande potente e invadente fin sopra la finestra della sala saliva cresceva occupava sfacciato.
Quel cortile era come una bolla una boccia dove guardavo muoversi le cose che erano il mondo normale della finestra della sala come la macchina di mio padre che tornava alle sette e mezzo di sera.
E i vicini vestiti giganti aprivano il portone con le voci il rumore delle chiavi di fuori ogni volta che il cane abbaiava simultaneamente più forte della televisione, impreciso il rumore del mondo annottava.
Io sapevo che, oltre quel cortile, c’era l’Oriente e tutte le strade avevano l’odore strano delle spezie per l’arrosto in cucina con i cammelli disegnati color cannella che appena scorgevo quando qualcuno lasciava aperto il portone si intravedeva questo mondo dove io ero arrivato buonsapore Bonomelli condimento.
L’Oriente era tutto quello che non era cortile e animali audaci che si vedevano gettare lo sguardo di sbieco dentro la carrozzella come i leoni finti della cementificazione, tra le strade del centro di Viggiù.
Nel mondo c’erano l’Africa e l’Asia coperta di malattia e lebbra dei giornali illustrati con i colori diversi da quelli che ci sono adesso, leggermente più sbiaditi trattassero di Asia o di Euchessina dentro il negozio in cui mio padre mia madre lavoravano tranne che la notte erano esposti assieme alla brillantina Linetti in via Roma 104.
Ogni giorno tornavano lì a lavorare a lavorare saltando a pie’ pari la notte. Nel mondo c’erano fortissimi temporali e gente che veniva a suonare alla porta e un cane che abbaiava forte ogni volta che quell’uomo suonava alla porta oppure all’improvviso di notte abbaiava.
La notte cresceva pulsava invadeva la finestra azzurra la televisione blu dalla cucina dalla camera da letto mia madre presente.
Come un’oppressione invadente di sudato la storia c’era comunque boccheggiava davanti al portone spaccata in due galleggiava come una testa di pesce marcia dove fermentavano a scacchiera le generazioni nell’acqua pestilenziale di una non omogenea integrazione tra gli abitanti del piccolo centro lombardo io cominciavo a indossare mesi.
Era tutto pieno di gente, io sentivo gli odori e li vedevo.
Essi erano di Viggiù o teroni, certi altri di Malnate o ad esempio Cantello, e a volte quelli di Cantello erano teroni come mia madre.
Mia madre era una ragazza, venuta su dalla Teronia per farmi con amore di mio padre a Viggiù se avesse trovato lavoro in Svizzera.
C’era questo gruppo emigrante di Sardegnole di Ortueri (Nu) per trovare lavoro dentro l’Istituto per anziani Suore di San Giuseppe Casa di Accoglienza per Giovani Lavoratrici per lavorare in Svizzera per cui nasceva l’amore con gli indigeni che andavano con la lambretta a vederle tra cui mio padre e io nel 1967 a un certo punto sono nato.
Mia madre, allora, era completamente terona ma aveva un buon odore che mio padre annusava correvano nei campi c’era la canzone Luglio col bene che ti voglio si guardavano negli occhi. Ora è morta, e non vale più.
Mia nonna mi diceva più avanti friulana della Teronia tremenda erano tutti ignoranti e sputavano erano come delle bestie e rubavano al mercato che adesso non lo fanno più lì, più tardi mia nonna diceva.
Nelle foto antiche di prima di che io sono nato c’erano mio padre mia madre mio padre aveva le basette e una cinquecento azzurra fiammante si vedono che guardano ancora non si sa dove con perspicace ottimismo mia madre indossava un vestito indiano a fiori.
I miei genitori erano presenti nel territorio dove io sono arrivato mi circondavano di carezze e mobili per accogliermi e scatolette Simmenthal e altre cose del mondo che avrei visto compresi la Svizzera e l’amore.
Oltre del portone e dell’Oriente c’era la Svizzera delle sigarette e del cioccolato, le montagne che si vedevano aprirsi a scatoletta dietro la casa dell’Aldo.
Dentro il portone c’era l’Aldo.
L’Aldo era un operaio piccolo che sua moglie lo baciava, vicino al portone.
Ogni mattina l’Aldo andava a lavorare con il motorino usciva io dormivo perché avevo due mesi tre mesi quelli erano la vita e l’amore infinito.
La Svizzera pendeva sugli stati sociali variegati di Viggiù, con il contrabbando la riempiva di villette recintate e soldi che servivano per comperare carezze e mobili e scatolette Simmenthal e altre cose del mondo che si vedevano dentro la televisione erano gli anni migliori che ci sono mai stati in quel periodo.
E i bagliori del Sessantotto?