E’ un esordio folgorante e, proprio per questo, sorprendente: Mario Desiati esce in questi giorni in libreria con Neppure quando è notte (peQuod, 10,50 euro). Torneremo a occuparci di questo autore e del suo primo romanzo. Per ora, vi proponiamo l’incipit del libro: una striscia fosforescente e magnetica che graffia la notte civile dell’Italia di oggi. [giuseppe genna]
Intro & Carità romane
Un giorno potrebbero derubarci del nostro cervello, del nostro pensiero. Potranno far sparire dai libri di letteratura Pasolini, Moravia, Parise, Fortini, Penna, Tondelli e Bellezza con qualche scusa del cazzo: tipo che sono stati comunisti oppure froci. Potrebbe succedere che qualcuno dice che il mondo con tutti i suoi pupazzi fatti di acqua, fango e sale è fatto per i vincitori: quelli che stanno dentro Forbes, quelli che hanno la copertina di Cosmopolitan e 6 canali televisivi. Oppure ti potrebbero dire che c’è un prezzo ai tuoi sabato in disco, i tuoi maledetti surgelati e le tue scarpe da jogging, ma soprattutto c’è un prezzo alla tua libertà di pensiero e questo prezzo è che non ti ascolta nessuno.
Ti diranno che questa generazione sa solo fottersi con le sue stesse mani, che è quella che si schianta a 180 contro un guard-rail dell’Autosole, che si appassiona solo degli effetti speciali del dolby sorround, della programmazione dei pomeriggi di Italia 1. Ti diranno che non fanno più politica, che indossano magliette con stelle rosse e croci celtiche senza capirci niente, che leggono Topolino e vanno ai meeting di Cl. Ti diranno che sono fatti così, come Mtv gli ha fatti, tutti in serie come un McKitchen con Coca. Ti diranno che sono liberi, ma c’è un prezzo per questo e questo prezzo è che non ti ascolta nessuno.
CARITA’ ROMANE
Negli ultimi quattro anni la povertà nel nostro paese non è aumentata significativamente, ma ha cambiato volto e ha spesso gli occhi di un ragazzo. Giovani sono i clochard: 17 mila persone, ma la stima è approssimativa. Più del 70% di chi vive in strada ha meno di 50 anni. (Corriere della Sera 15 novembre 2001)
Da dove cominciare una storia, da dove cominciare a raccontare l’inizio dell’anno santo, profanato e volgarizzato da tutto: dalla chiesa e dalla politica, dalla miseria e i pomeriggi televisivi. Da dove cominciare un racconto sull’inizio del 2000 e tutte le menate sul millennio che finisce e quello che comincia ? Dove raccogliere i resti di paure e spauracchi antidiluviani, ideali cesti di memoria per collezionare perle di santoni che acclamano la fine ? Allo scoccare di una qualunque mezzanotte della nostra vita, oppure in quella mezzanotte millenaria pingue di polvere da sparo e alcool ? Dove cominciare queste commoventi prediche sui bachi che avrebbero paralizzato il mondo delle banche e degli istituti di credito, delle televisioni satellitari, dei vostri amati sistemi operativi ?
Di tutto questo ho solo desiderato una cosa, una cupa e nera parola fine. Fine. Fine. Anzi The End. Tanti The End. Come quelli che escono su sfondo bianco nei vecchi film degli anni trenta di Charlie Chaplin. The End, parola che ti sbatte addosso un quintale di sensazioni, parola che ti arriva come un secchio di birra ghiacciata, come olio bollente sulle tue mille cicatrici, bada bene in un solo attimo.
The End. E’ finito il film. Posso tornare alla mia vita normale. Non è cambiata di un acca: dalle fottute sanzioni della polizia metropolitana, ai calci in culo dei maniaci dell’ordine e della pulizia; dagli “smamma sei sprovvisto di biglietto” fino alle sbronze di primo mattino.
Ed allora da dove la cominciamo?
Dalle genealogie. Perdio ! Lo faceva Heny Miller come lo faceva il salmista della bibbia, lo faceva Omero, lo fanno i vecchi saggi del mio mortale paese in Puglia. Lo fanno le prefiche per ricordare chiunque abbia un naso per respirare, i preti operai da Pietro Paolo Parzanese in giù e chiunque abbia una lapide dove spirare in aeternam. Ed allora facciamole queste genealogie che possono essere in verticale o in orizzontale. Me ne fotto dei legami iure sanguinis e delle deprimenti carte anagrafiche. Me ne fotto degli affanni in un seminterrato di tre metri quadrati senza finestre, senza un verso di Shakespeare. Non hanno poesia nelle vene i fottuti burocrati. Quelli che dietro una scrivania vedono sempre il mondo dal busto in su e non sanno cosa c’è sotto, ma nemmeno dietro. Burocrati del posto fisso, del “Non sa chi sono io”, affamati di niente. Senza poesia. E nel sangue hanno solo la paga netta mensile; allarmante diaria della routine, elemosina da dividere con una famiglia di figli scemi e moglie frigida. Tutto è burocrazia, un inutile conteggio di giorni lavorativi, legami inesistenti e finti registri di paternità, miracolati e atei, gay in livrea e puttane ai bordi dell’Appia antica. Tutto è burocrazia, è un semplice elenco di convenzioni. Il catalogo del 2000 è una scala sociale di paria e principi, sfigati e fortunelli, famosi e pezzenti, morti di fame e dignitosi intellettuali. Quello che conta è un maleodorante stipendio, fatto di soldi, compromessi e tanti inchini a dottori e dottoresse.
Forse sono ribelle e dico questo con nelle orecchie David Bowie e tutto il punk italiano. Lo sono perché non scriverò mai un libro e se lo facessi non lo sarei più. Sono un esule perché chi si ribella finisce esule in un mondo fatto di ghetti. Questi ghetti sono subdoli, si chiamano centri sociali, rassegne musicali alternative, terze pagine e stazioni FS.
Ergo. Tutto questo sono io il crepante Franz Maria, ultra ventenne che sta morendo. Chi decide di suicidarsi lo fa una sola volta. Io ho deciso di declinare lentamente a vent’anni quando ho cominciato e lasciarmi vivere addosso, vedermi scivolarmi tutto come quella enorme statua della “divina indifferenza”: poesia di Montale che piace spararmi quando sono sbronzo da non distinguere un palo della luce da un essere umano. Così si comincia dalla genealogia di chi ha preso le sembianze di un uomo crepante. Sono figlio di Franz Kafka.
Perdio ho scelto un padre e questo è già un privilegio che nessuno può vantare. Perché cazzo devo scegliermi un padre che si mette di nome Francesco, Antonio, Giuseppe, Vito, Giorgio, Roberto, Remo. Mio padre è Kafka e basta questo.
Mia madre è Imma ed ora fa compagnia a mio padre Franz Kafka lassù in un cielo etilico di china. Imma è crepata di cancro al fegato o cirrosi o non si sa di che cosa. Ma adesso non importa. Un tizio disse “l’alcool è l’escatologia delle nostre intenzioni sepolte” e non chiedetemi che cazzo significa. Era un medico mingherlino e meschinello con l’aria da strozzino, occhialini tondi e barbetta caprina e stava al capezzale di Imma con gli occhi appena sbarrati da nostra signora morte.
Non dimenticherò mai quella carcassa bianchiccia come un quarto di luna che respirava con il ritmo mortifero dell’ossigeno in scatola. Mia madre è morta incarognendo e questo mi ha accorciato la vita più di ogni bevuta e fumata, più di ogni delusione d’amore, più dello scioglimento dei Nirvana. Affanculo. Mia madre fu massacrata da un matrimonio di cui non so nulla, che non so se è esistito, che fu distrutto da un tipo che si chiama Remo, ed adesso chissà dov’è.
Arrivai a Roma per fuggire, per essere lontano dai rumori domestici di preti e parenti pronti a tendermi la mano, mortis causa, solo in estremo. Lontano da tutto, andare in banca, parlare col notaio, e poi con gli avvocati, e poi in congrega per il sepolcro dell’amata Imma, e poi fare la faccia afflitta, mendicare, sbavare, “sono solo non so da dove cominciare”. Lontano anni luce da Taranto ex Italsider, Belleli, Eni e la morte certa dentro un forno, schiacciato da una gru, bruciato nel combustibile liquido, consumato da un puntualissimo tumore all’apparato respiratorio.
Ma ecco l’eureka, l’incredibile tesoro, arrivata come neve rossa in settembre, chincaglieria in un vasetto di miele, roba da matti, ma è arrivata da una destinazione sconosciuta. Vivere giorno per giorno, senza pensare a domani, come se ogni ora fosse l’ultima ora divorata dalla tua vita.
Sopravvivere a Roma con un zainetto pieno di libri: da Kafka a Hrabal da Hasek a Jan Neruda, Musil, Holan e fino a Pasolini. Sopravvivere a Roma, con una bottiglia, una sola bottiglia di Aglianico del Vulture. Sopravvivere a Roma, con una cassetta con audio cattivo dei Led Zeppelin. Sopravvivere a Roma senza Chiara. Sopravvivere a Roma.
Mi sistemai come un cane sotto il primo capezzale di pietra. Era una casa addobbata a morte sociale, stamberga a piano terra sulla tangenziale: tra il tiburtino desolante e l’american parioli. Ho costruito la tana; sembra riuscita bene. Da fuori, a dire il vero, si vede solo un gran buco, ma quel buco non porta da nessuna parte, si è chiaro dott. Kafka, alias mio padre. Ma il mio disperato pellegrinare non fotteva nessuno, ma solo il padrone di casa, alias lo Stato Italiano. Rigoroso usuraio che non aveva altro da chiedere, alla sua vita da ultracentenario, che il mio sgombero. Conseguenza: una vita vissuta sotto una spada di Damocle fatta di carte bollate e timbri. Il posto era un rustico su cui in teoria pendeva un sequestro penale. Espropriato perché a 2 cm dalla strada a quattro corsie. Era lì. Dimenticato. Ovviamente a causa della presenza di un tetto si erano rifugiati i personaggi più disparati. Magnaccia, tossici, clandestini, puttanoni, transessuali ed ovviamente io. Col tempo divenni il padrone di casa trasformandolo, con l’amato shopping nelle pattumiere, in una stalla vivibile. Non c’è niente, non c’è corrente, manca la TV, manca tutto. Ho fatto il simpatico, dietro la porta di compensato ho scritto con la bomboletta: CASA OCCUPATA DAL 1977. Non so perché. Ma mi piace. Mi fa sentire importante. Mi piace essere quello che non sono.
Alcuni dicono. “Cazzo fai” senza congelatore, apparecchi elettrici per mantenere il tono muscolare, friggitrice e videoregistratore. Altri mi fanno “cazzo fai” senza radio e tivvù. Mi basta pensare a Pier Paolo Pasolini che arringa l’Italia a processare i responsabili del disastro paesaggistico. Oddio per la tv di stato non basterebbe la fucilazione per aver ridotto questo paradiso in un buco di merda mediocri leccapiedi, baldracche che leggono oroscopi, giocatori di Enalotto, patiti di soap, edonisti da quattro soldi, berlusconi, cialtroni delle televendite.
Un giorno presi un amaro a Piazza Bologna. Respiravo aria di smog e pneumatici come tutti i senzatetto di Roma. Il fernet poteva darmi ossigeno. Una signora sulla quarantina con un collo enorme mi versava l’amaro. In televisione c’era un uomo vestito da topo. Aveva una coda grigia, una tuta aderente. Faceva boccacce, saltellava come una palla matta, fingeva di squittire. Ballerine strafighe, scosciate a puntino ridevano, il pubblico applaudiva. La signora del fernet scuoteva la testa per l’ammirazione. Ad un certo punto sussurrò fra sé e sé. “Però è bravo”.
Di Roma mi piace tutto. Certo non rimpiangevo minimamente le pistole grigie dell’Italsider con la canna rivolta verso l’alto; la nebbia nera, densa come inchiostro dove s’inzuppava l’orizzonte dietro Taranto. Una nebbia di morte, che ogni giorno uccide con il cancro una città ed una terra. Quando avevo 15 anni andavo sull’Orimini per vedere l’Italsider; ci andavamo con Bert e Dani sulle biciclette e facevamo un sacco di pensieri su quelle nuvolette scure, immaginavamo che dietro ci fosse la vita, il paradiso in terra, che superata Taranto c’erano 8 ore per Roma dove avremmo studiato e l’avremmo conquistata. Mi bastava solo evocare per un attimo questo episodio che immediatamente quella tangenziale sfigata dove abitavo, il parcheggio dell’Atac, i rumori notturni incessanti, le disinfestazioni e la stessa spazzatura che si cumulava dietro i piloni dei cavalcavia, diventava il miraggio romano che nutrivo da adolescente.
Roma è questa! La storia di Franz Maria comincia qui, nell’odore marcio della Tiburtina stazione di smistamento di una capitale d’Europa. Comincia qui, nella puzza di umido e vino in cartone, odore di corpi umani lacerati dalle pustole della povertà e dell’accattonaggio. Anche i libri della libreria di Tiburtina sanno delle dita di chi vive questuando. Come un dannato come in un infernale girone dantesco tutto puzza di mendicità, muffa e alcool. I bagni sono pieni degli stracci dei barboni, le panchine di ferro consumate dal sonno di chi non ha dove dormire. Qui si danno appuntamento migliaia di diseredati. Qui si dà appuntamento chi ne ha piene le scatole di vivere per guadagnare il pezzo di pane. Un pezzo di pane duro, avaramente offerto da un mostro sociale che schiaccia ed irride la retorica di chi ne parla. La retorica sia benedetta!! Lo diceva Aldo Fabrizi. Perché anche un comico ricco ed affermato, con l’opulento simbolo della sua pancia, poteva permettersi di dirlo.
Roma è la capitale della retorica, ma è stata punita dal destino: gli hanno dato lo Stato Pontificio, Mussolini, Andreotti, Ciarrapico, il Ministero dei Beni Culturali e la curva nord.
Il fischio urlante della metro richiama all’ordine ogni giorno la nostra allegra combriccola fatta di suonatori e cazzeggiatori. Un concertino fatto di chitarre, bongo, tamburi di latta, voci affilate dalla birra. Di qui ne sono passati di tutti i tipi anche per un solo istante: danzatrici di ventre, trasformisti, uomini serpente, mangia spade, sputa fuoco, contaballe, seminaristi pentiti, sgualdrine da quattro soldi, studenti fuoricorso, poeti della domenica, gente che fuggiva di casa e trampolieri. E’ passato di tutto in questo corridoio di plastica e gomma, impregnato dell’odore del vagabondaggio di Franz Maria, ma proprietà anche di mille altri accattoni.
Ne ho tanti accanto. Ho Tarcy, che dovrebbe stare per Tarcisio, sotto metadone da una vita. Boris ex nuotatore russo che sostiene, senza nessuna prova, di aver fatto le olimpiadi a Seul nel 1988 con Popov ed ora è ufficialmente morto. C’è Mary, sdentata, smunta e consumata dall’eroina e con un sesso dilatato, nero e grosso come un’arancia spaccata, torvo ricettacolo di malattie, ma unico conforto di tanti disperati che non hanno conosciuto altro che il suo abbraccio scheletrico. E poi ci sono tanti altri; Jerry barbetta, scollettatore professionista che andava in giro con una valigia di carta legata al polso con una corda e piena di calendari di padre Pio. Spesso se ne veniva con un interrogativo inquietante. Corrugava lo sguardo e ghignando faceva “La vuoi la caramella ?”. Mauri Mauri si professava al mondo intero “strimpellatore” tamburellando sul bongo; e infine c’era Damiano.
Damiano fu il mio vero amico dei primi mesi a Roma; la musica gli scorreva nelle vene come e quanto la Sambuca Molinari. Era come se il sangue, le ore della giornata, la fisarmonica dei suoi pensieri e lo stesso spazio vitale fosse una strada stretta e profumata, disseminata di petali nivei di sambuco. E come tralasciare un tipo come Oblomov. Tutti lo chiamano Schumacher perché vive in una 127 rossa, ma io lo chiamo così perché ha scelto nella vita la filosofia oblomoviana di assistere soltanto. Senza questua. Assistere e basta, da dietro i vetri della sua 127 guardare il mondo passare davanti come sequenze di un film con sonoro cattivo. Chi ci ha messo piede in quella 127, ha narrato di chicchere e ninnoli vecchi, cianfrusaglie e ciarpame grattato dalla spazzatura. Quella 127 pullulava di piccole ricchezze, minuscoli valori degni di un antiquario col gusto dell’orrido. Questa carrellata di figuri aveva il suo vertice in Nonna Speranza, che era una signora dall’età indefinita. C’è chi le dava cinquanta, chi sessanta, chi ottanta anni. Leggende la davano per trentenne, altre storie la descrivevano come ultracentenaria. E’ incredibile come l’accattonaggio appiana gli anni, smussa i corpi, le stesse espressioni facciali, fino a renderle tutte uguali, in una gamma monotona da miseria a miseria. Il volto di Nonna Speranza faceva eccezione solo sotto un aspetto. Quella espressione immobile e fissa, con lo sguardo di una che non sai se è tonta oppure saggia; cambiava quando qualcuno passava indifferente davanti alla sua mano tesa, allora il suo sguardo si inaspriva corrugando la fronte, senza mai fiatare o imprecare. La sua mano sosteneva un contenitore di plastica, di solito un sotto vaso verdone, ed ogni sera raccoglieva tanto poco da avere la carità degli altri barboni. Nonna Speranza aveva un seno enorme e penzolante, cosparso da macchie marroni. Lo vedemmo una volta perché aveva chiesto la carità ad uno scrittore famoso che stava per presentare un libro alla libreria della Tiburtina. Questo tipo era uno che parlava di amore, di comprensione, faceva molto sociale assieme ad una biondina aggrinzita, alias la moglie. Si chiamava Albertone, Albertini, Abetone, occazzo non mi ricordo. Durante la presentazione andammo tutti per dare fastidio al tirchio. Mauri ruttò, Nonna Speranza fece scivolare la spallina dello straccio, che aveva indosso, ed uscì questa tetta pustolosa; infilò la mano sotto l’ascella e con il movimento sussultorio del braccio cominciò a spernacchiare.
E dunque sono qui. Me ne venni un anno fa quando si temeva ancora la guerra del Kosovo, l’immigrazione in massa di albanesi, curdi e cinesi con i loro cenci, la bolgia del giubileo, la tristezza della sinistra di governo. Oggi sono passati diversi mesi, con in mezzo il capodanno del duemila ed il fatto che Roma stia morendo soffocata in questa melma di pentiti turisti, sudati e preganti, che da un momento all’altro, dopo pochi attimi di compassato pentimento, torneranno ad uccidere, violentare e distruggere, votare Berlusconi, annullare e rubare tutto ciò che non hanno mai osato pensare, ma solo fare come conigli.
Fuggo dal sud e anche da Chiara.
Io amavo Chiara e Chiara amava me.
A detta di tutti avevo tutto. Io estremo elettrone dell’atomo provinciale avevo conquistato la mela più rossa ed appetita. Con l’idealismo si scalano grandi vette, ma non si rimane sopra a lungo. Con Chiara finì perché lei troppo tutto ed io troppo niente. Lei con la vita scritta sul palmo della mano ed ogni virgola corretta e bianchettata con cura ed attenzione. Io uno strafalcione di Dio in persona che voleva farne un filantropo borghese rotariano. Invece ne ha fatto un mostro alcolista, ultra idealista pieno di nevrosi. Addio Chiara sarai sempre come fu Felice Bauer per Franz Kafka. Sarai una ninfa irraggiungibile, e noi i due amanti che vissero una vita senza coito, senza contatto fisico, ma solo quel lembo di carte pieno delle professioni di fede al passato che non tornerà più, non ci sarà mai più, bruciato, consumato, esploso, disintegrato.
A Chiara, ho preferito un bicchiere di cartone con la scritta globale coke da riempire con l’elemosina. Ed ho preferito amare un pezzo di carta tintinnante di monete. Ti amo molle bicchiere di cartone. Ti amo quando ti gonfi come un otre di iuta. Ti amo quando sento le tue pareti aprirsi nelle mie mani. Ti amo.
Art. 670 Codice Penale. Mendicità:chiunque mendica in luogo pubblico o aperto al pubblico è punito con l’arresto fino a tre mesi. La pena è dell’arresto da uno a sei mesi se il fatto è commesso in modo ripugnante o vessatorio, ovvero simulando deformità o malattie, o adoperare altri mezzi fraudolenti per destare l’altrui pietà.
Io sono di carità. Vivo di miseria e me ne fotto se un giorno da questa stazione passerà Kafka, il buon soldato Sveik, Ninetto Davoli che fa capriole, Lara Croft, Chiara, o il papa in persona. Sarò accucciato come uno sbronzo qualunque, acquattato nel letamaio del sottopasso direzione Laurentina, sfangare l’aria per chiedere “aiuto”, solo una lira, per essere sempre più fatto, sempre più sbronzo.
“Vengo dall’Italia” disse il mendicante, ma non come risposta, bensì come confessare una colpa.” *
* Tratto da un quaderno di Kafka
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