La questione della scrittura massimalista non è una questione. Si posso fare i nomi degli autori e rievocare i titoli di ciò che appare o apparve, ad alcuni sguardi (precisamente quello di Franco Fortini), un definitivo slittamento della letteratura italiana contemporanea dai suoi alvei tradizionali e dalle sue storiche configurazioni organizzative e divulgative: Evangelisti, Moresco, Wu Ming, Pincio, Riccardi, Benedetti. In questo gorgo che apre a un tempo diverso eppure attualmente presente e immediatamente futuro, i nodi stanno sfuggendo ai pettini e tendono a ricomporre una nuova capigliatura: diritti intellettuali, intelligenza connessa, no-copyright, dinamismo fisico del testo, superamento della dittatura stilistica, eversione dal concetto di genere – ecco alcune catene molecolari che strutturano una piattaforma rivoluzionaria. Dal caso Q di Luther Blissett (e, più generalmente, dal caso dell’intero Progetto Luther Blissett) fino all’improvviso successo editoriale della saggistica sulla narrativa (un dato che non si presentava dagli anni Sessanta, in Italia), elementi si decompongono per comporsi nuovamente in sequenze inedite, alternative. La “scrittura massimalista” non è che una semplice ed effimera etichetta di comodo per indicare una vastissima questione tutta da affrontare.
La scrittura massimalista è altamente ambigua. La sua lettura non comunica un piacere semplice. Essa non si accontenta di agire a un livello soltanto o soltanto su due piani. La trasformazione che opera – quella della storia in natura – necessita di un accorgimento che ne diviene un elemento distintivo : bisogna che il divenire venga rappresentato e che perciò sia data rappresentazione a una simultaneità di contrari. Così il moderno (il tecnologico, l’industriale, il sociale per come lo conosciamo) è storia che diviene natura e le sue immense costruzioni (percepite come rovine) sono messe a confronto con un grado primario di natura (animali, piante, minerali) che, al giorno d’oggi, scivola sullo sfondo.
E’ soprattutto la prosa a farsi carico di un lavoro troppo grossolano perché la poesia non lo ignori e lo superi immediatamente. Si tratta dell’uscita da quella che si può chiamare “sindrome dell’ironico”. La narrativa massimalista attua questo superamento trasformando ciò che è ironico in ciò che è grottesco, tentando così di recuperare quella carica cognitiva che l’ironia, inflazionata dall’utilizzo che ne hanno fatto tutte le avanguardie moderne, aveva perduto.
L’uso novecentesco dell’ironia deriva da una duplice interpretazione della letteratura da parte della modernità. Da un lato “equiparando ogni operare letterario all’azione (dottrine dell’impegno)” ; dall’altro, “riducendo ogni fatto artistico e letterario a comunicazione e informazione”. Ecco, nelle parole di Fortini, una definizione soddisfacente di avanguardia novecentesca. La “negazione radicale”, il “Gran Rifiuto” opposto dalle avanguardie storiche, si rovescia in un accomodamento con la situazione reale, in un blandire il Potere che sagacemente apprende l’utilizzo della retorica avanguardista e lo tramuta immediatamente in un anticorpo efficace. Scrive Fortini : “Ogni troppo rapido assenso alla negazione, alla svalutazione e al disprezzo del mondo-così-com’è – soprattutto da parte di intellettuali e di giovani nei paesi come il nostro – cela entro di sé, incontrollato, un accordo con quella realtà, una dipendenza filiale ; (…) occorre essere coscienti dell’unicità della vita, del valore del mondo e della positività che s’accompagna anche alla peggiore decadenza e oppressione e corruzione, se si vuole di queste negare autenticamente la figura presente”. Così, accomunati in negativo da questo atteggiamento, ecco due atteggiamenti estetici specificamente distantissimi dalla letteratura massimalista : “quello aristocratico-orfico e spiritualistico e quello eversivo-tecnocratico e scientistico”.
Quando Franco Fortini accenna in positivo ai compiti di una letteratura contemporanea che si distingua dagli esiti attuali (l’attualità di allora, a quanto pare, è rimasta identica all’attualità di oggi) ecco a quale formula allude (il discorso, condotto sulla critica, appare valido anche per la letteratura in genere) : “Il nostro compito non è quello di correre dietro alle oscillazioni periodiche del gusto ma di trasferirne le curve entro un discorso la cui tendenza non sia settoriale ma globale, non specialistica ma universalizzante. Rischiando perciò ideologismo e superficialità”. Il che sembra delineare una perfetta definizione di massimalismo letterario.
Come si può essere ironici nel momento in cui non esiste alcuna sostanziale differenza tra cultura di massa e cultura di élite ? Si celano davvero significative strategie dietro una letteratura che si esprime, indifferentemente quanto sentimentalmente, attraverso il collage di puro spasso, il racconto di logica paradossale, quello di amplificazione barocca, la poesia neorfica o elettronica et similia ? “Le forme fondamentali dell’avanguardia storica sono diventate, oggi, semplici strumenti espressivi, meri moduli al servizio dell’espressione e della comunicazione odierna”. E’ sempre Fortini a rilevare il punto centrale della questione : “La dimensione ‘tragica’ dell’avanguardia (il suo aspetto catastrofico-agonico) ha perduto e perde rilevanza a favore del momento ‘ironico’ (parodia, scherno, dissacrazione)”. Poiché l’armamentario, su cui fa leva questo flusso così poco consapevole del proprio agire letterario, è costituito da metacitazioni, microcitazioni, citazioni a pieno titolo, canzonettistica polemica, trasgressione verbale a fine satirico, umorismo più o meno surreale, ecco strutturarsi i poli più coerenti che stringono a tenaglia la koinè neoavanguardista : da un lato, la letteratura postmoderna, ormai giunta a fase epigonica e, quindi, agonica ; dall’altro, la letteratura comica di massa, che riesce con più efficacia e più profitto laddove l’avanguardia desidererebbe (e per questo, effettivamente, ne viene invidiata e ripugnata).
Non si tratta di analisi fuori tempo massimo. David Foster Wallace nota : “Nell’àmbito dell’arte contemporanea, possiamo credere che il disprezzo televisivo per valori considerati ipocriti e retro come l’originalità, la profondità e l’onestà, non abbia niente a che fare con quegli stili artistici e architettonici ‘contaminati’ e citazionisti in cui ‘il passato diventa pastiche’, o con i solfeggi ossessivi di un Philip Glass o di uno Steve Reich, o con lo stato di consapevole catatonia di un esercito di aspiranti Raymond Carver ?”. E, ancora e soprattutto : “Che cosa dice seriamente l’ironia, in quanto modello culturale ? (…) Chiunque abbia l’eretica sfacciataggine di chiedere a un ironista che cosa sostiene veramente finisce per sembrare una persona isterica e pedante”. Stiamo parlando della nuova giunta militare, che usa gli stessi strumenti che sono serviti a smascherare il suo nemico per proteggere se stessa.
Soluzioni ? Per un americano ben distante dalla tradizione dell’emblematica italiana, l’ipotesi di una soluzione fornisce un’interessante fenomenologia : “Questi antiribelli sarebbero fuori moda, sarebbero sorpassati, chiaramente, ancor prima dell’inizio. Morti in partenza”. E’, più o meno, quanto citato da Benjamin : “Mortificazione delle opere : non, quindi, risveglio della coscienza nelle opere viventi, bensì insediamento del sapere in esse, nelle opere morte”.
All’ironico si sostituisce il grottesco (si sta parlando della narrativa). Il grottesco è coessenziale all’allegorico, poiché in sé cela qualcosa di nascosto e al tempo stesso significativo. Ciò che l’ironia non mobilita più è ciò che nel grottesco è espressivo.
Ciò che accade con l’ironico accade anche con la lingua letteraria, in sé considerata, nei suoi corallari essenziali di installazione di modelli del sapere e di costituzione dell’intersoggettività. Storicizzata e antistoricizzata, insieme all’ironia la lingua letteraria è il fulcro dell’operazione delle avanguardie storiche. E ciò che oggi constatiamo è come, in effetti, lo stato di cose presente – uno stato per niente letterario – si è impadronito delle strategie e delle funzioni della lingua letteraria. L’uomo espropriato dal suo linguaggio : ecco uno dei capitoli più significativi dell’espropriazione definitiva dell’uomo da se stesso. Oggi che, come osserva Debord, “a ogni angolo di strada si scorge un artista”, l’arte del linguaggio è inerme di fronte all’offensiva scatenata dallo stato di cose presente. Da questo punto di vista, nel momento in cui si recepisce la letteratura come una costituzione di sapere afferente a un’unica e parziale verità – una verità linguistica -, davvero si può dire che il romanzo è morto, che la poesia è morta. Poiché, oggi, è impossibile che la letteratura sopravanzi lo stato di cose presente nell’istallare nuovi linguaggi che costituiscano l’essenza di un’universale intersoggettività. Quanto a efficacia, la pubblicità, il delirio televisivo, infine gli stessi strumenti di educazione di massa sono estremamente più potenti della letteratura. E l’impoverimento formale dei donchisciotteschi tentativi di riequilibrare lo scontro appare significativo. Poiché dove termina la lingua, incomincia il mondo del sentimentale puro o, quel che peggio, dell’intellettuale puro : le patetiche caricature del sentimento e dell’intelletto.
Ecco dove l’intellighentsia – almeno quella italiana – si rifugia per non parlare il verbo di una banale sociologia : discute della contaminazione tra generi letterari come di una strategia per la riappropriazione di una funzione specifica della letteratura stessa : quella sacerdotale di “creare” la lingua dell’uomo, di “parlare” la lingua adamitica, scalzando la parola volgare dello stato di cose presente.
A questo siamo giunti. Si tratta di un’analisi superficiale, che scambia gli effetti per le cause. E’ vero che accade che i generi si contaminino (il giallo con la fantascienza con il saggio con la fiction pura per la narrativa ; l’epica con la lirica con l’elegia per la poesia : si tratta soltanto di alcuni esempi, ovviamente) ; tuttavia ciò non accade, come postulano gli ingenui, per reazione mimetica (alla realtà complessa opponiamo una letteratura complessa, alla società frammentata nelle classi opponiamo una letteratura contaminata nei generi), bensì perché viene parzialmente decentrata la grammatica della letteratura. Una letteratura allegorica “tende naturalmente all’immagine”, e non a costituire immediatamente, cioè ingenuamente, la lingua del tempo presente. Per questo motivo, i generi letterari saltano a favore di una politica allegorica tutta interna, che lega la lingua alla struttura dell’opera : poematica o lungo-narrativa. Annota Debord : “L’innovazione nella cultura non è portata da nient’altro che dal movimento storico totale che, prendendo coscienza della sua totalità, tende al superamento dei propri presupposti culturali, e va verso la soppressione di ogni separazione” : di cui interessa principalmente il finale. Qui si situa lo snodo fondamentale tra teoria e pratica della letteratura, politica ed etica : ogni parzialità viene bandita ; si aspira a una riunione delle separazioni, in attesa della prossima storicizzazione. E’ il senso profondo di quanto afferma Zanzotto quando scrive che scriviamo in una lingua che passa. Non è un caso se, spesso, nella poesia e nella prosa degli scrittori che si prendono qui in esame, esiste una ricerca non unilaterale della prosodia e del ritmo, ma anche un’attenzione che sembrava perduta all’elemento lessicale e semantico, poiché la grammatica delle immagini, a cui la letteratura allegorica è inscindibilmente legata, lo esige. Così, accade che una voce si personalizzi non soltanto in base alle ricorrenze metriche (che sono già di per sé indicative), ma anche alle ricorrenze lessicali, spesso dando vita a un refrain martellante. E, sia in poesia sia in narrativa, si spiega in questo modo l’esplicita ricerca sui nomi propri, indicativi di caratteri che superano la psicologia del personaggio o la metafisica dell’ambientazione, e ineriscono a un grado zero della lingua che, a differenza di quanto accadeva qualche anno fa, è portatore di significato e non solo del fascino che sprigiona una materia verbale primitiva o prelinguistica. Non è, cioè, “un ‘grado zero’ della scrittura, ma il suo rovesciamento. Non è una negazione dello stile, ma lo stile della negazione”.
Debord : “L’insieme barocco, che per la creazione artistica è esso stesso un’unità perduta da molto tempo, si ritrova in qualche modo nell’attuale consumo della totalità del passato artistico”. E’ un passo fondamentale : laddove l’estetica neoavanguardista e postmoderna si ritrovano (nel migliore dei casi) sul versante del consumo, la letteratura degli scrittori di cui qui si tratta aspira a recuperare la posizione sul versante della creazione. Lo fa tenendo presente quella perdita di unità a cui si riferisce Debord.
Quest’arte, questa letteratura “è forzatamente d’avanguardia e, al tempo stesso, non lo è”. Essa viene percepita, quindi, ugualmente come reazionaria e futurista, post-post e ante-ante, poiché le categorie con cui si cerca di classificarla vengono prodotte da un tempo che si illude di essere un presente eterno, mentre la letteratura in questione vive nella consapevolezza che non è così. E’ vero che essa ricerca un eterno presente, come ogni letteratura ha nobilmente fatto in ogni tempo : ma il presente eterno che ricerca è di ben altra natura rispetto allo stato di cose presente e alla ideologia che da esso promana. L’effetto devastante di questa ideologia appare come una descrizione inappuntabile della letteratura contemporanea e dell’ambiente che ruota intorno alla produzione di questa stessa : “La distruzione estrema del linguaggio può trovarvisi piattamente riconosciuta come un valore positivo ufficiale, poiché si tratta di ostentare una riconciliazione con lo stato dominante delle cose, nel quale ogni comunicazione è gioiosamente proclamata assente”.
Precisate le valenze di “natura”, “tempo”, “morte” e “figura” che accomunano l’opera degli scrittori in questione, non rimane che accennare all’ultima figurazione, l’estrema : l’ “io”.
“Io” è l’ultimo personaggio. Indistinguibile e inidentificabile, esso è non soltanto il nocciolo che effonde l’alta temperatura in cui finzione e verità si coagulano, ma è esso stesso una materia del dire fondamentale, non rifuggita e spesso ricercata dagli scrittori di cui si parla. Le avvertenze sulla sua falsità e sulla falsità di ogni sua promessa, le precauzioni intorno alla sostanza di cui esso è composto, non penalizzano l’ “io” e non imbarazzano fino a radiarlo dalla poesia e dalla narrativa. Soltanto con un’operazione così avanzata e consapevole, quindi, la forma poema, che costituisce un epos progrediente, non esclude una propria vocazione lirica, ugualmente determinante. Soltanto giunti a questa estrema consapevolezza la narrativa si permette di allegorizzare persino i dialoghi e trasforma il saggio-confessione in allegoria muta e parlante al tempo stesso.
Per questi motivi, gli scrittori in questione si possono definire laici in un’accezione più potente di quella utilizzata dalla lingua comune, e la loro arte è un’arte realista secondo la valenza assunta da un realismo che è salito di grado e tiene in sé, formalmente e strutturalmente, la fantasticheria e l’ologramma che sono divenuti l’espressione comune della realtà di ogni giorno.
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