Mi figuro i rapporti del nostro paese con gli Stati uniti non come quelli fra due nazioni, due popoli, due stati, ma come quelli tra due amici di vecchia data. Stessa università, stessi film, stessa squadra, per qualche mese filavamo con due sorelle. Poi, ci hanno diviso tante storie, ma siamo rimasti sempre in contatto, rimpatriate, telefonate a scambiare problemi e consigli, cene, un abbraccio stretto nel rivedersi, cose così.
Lui, il nostro amico, che è più robusto, più ricco, più industrioso, ci ha dato una mano in diversi momenti: ora era un prestito in un periodo in cui eravamo a secco, ora si trattava di trovare lavoro a dei nostri parenti che erano proprio a pezzi, ora era il caso di sistemare una volta per tutte certe questioni. Certe volte m’è pure venuto il sospetto che non sempre sia stato un aiuto disinteressato, ma non ti metti tanto a sottilizzare quando stai in difficoltà, e forse è naturale che ognuno ci abbia il suo guadagno. Su tante cose la pensiamo allo stesso modo e quasi su altrettante no, e in fondo non c’è neanche bisogno di dirsele tutte, le cose. Le amicizie prescindono pure dai ragionamenti. Mi casa es tu casa.
L’11 settembre gli Stati uniti sono stato feriti profondamente, a morte.
E’ come un amico caro colpito da un lutto terribile e inspiegabile: qualcuno la cui moglie è stata travolta in un incidente stradale perché un pazzo ubriaco ha sorpassato dove non doveva o a cui in una rapina hanno ucciso la figlia che stava facendo la fila per pagare un bollettino postale. Qualcosa si è irrimediabilmente spezzato. Per sempre. Forever.
Gli stiamo vicini, come potremmo fare altrimenti? Gli stiamo vicini con sentimento, non in maniera formale, non per riconoscenza, anche se sappiamo che non potremmo sottrarci. Per senso del dovere, per il valore che abbiamo sempre dato all’amicizia, per noi anche. Vorremmo alleviargli quella pena, che lo divora dentro, lo trasfigura, lo rende irriconoscibile a noi stessi. Lo accompagniamo nei bar, lo ascoltiamo parlare a ruota libera, sfogarsi, poi d’improvviso lo vediamo fissare una crepa in un muro o un punto nel buio, tutto preso dai propri fantasmi. La sua casa in certi giorni è in completo disordine, tutto sottosopra, poi tutto assume un ordine maniacale, surreale. Ci strazia dentro. Sotto i nostri occhi non si dà pace, diventa violento, è rissoso, sgarbato, attaccabrighe, ci mettiamo sempre di mezzo, gli altri non capiscono, quelli che non sanno, non capiscono. Prendiamo le sue parti, facciamo anche a botte con lui, per lui. Lui dice che prima o poi capiterà anche a noi, noi gli facciamo di sì con la testa, ma sappiamo che non è vero, non più vero del fatto che a ciascuno toccano le proprie disgrazie. Adesso gli è capitata quest’altra botta, lo shuttle che si disintegra al rientro – quelle, le disgrazie, vengono un dietro l’altra, misteriosamente, si ammonticchiano tutte in un posto, con accanimento -, si incupirà di più, sarà ancora più intrattabile.
Quanto può durare lui così? E quanto può durare per noi così? Ci chiama nel cuore della notte, piomba in casa quando meno te lo aspetti, è convinto di aver individuato chi è il responsabile dei suoi lutti, da una stazione dei carabinieri un giorno ci telefonano al lavoro per venire a prendercelo e riportarlo a casa – ha dato in escandescenze per strada aggredendo gli automobilisti di passaggio. Se lo abbandoniamo a se stesso, se allentiamo la nostra amicizia, lui si lascerà andare anche peggio, crediamo. Se non allentiamo il rapporto, i primi a andarci di mezzo saremo noi però, la sua ossessione ci farà a pezzi. Nella testa, nei comportamenti, nelle parole. Potremmo diventare come lui senza avere i suoi stessi motivi, le sue stesse ragioni, la sua stessa follia, la sua stessa ossessione. Così, per coscienza, gli restiamo a fianco, mentre intanto altri amici diradano i rapporti, si defilano, cercano di farsi i fatti propri, di tirare avanti la propria vita. Ci consigliano di portarlo da un medico – e chi glielo dice? -, o in uno di quei circoli dove si riuniscono le persone che hanno lo stesso problema e fanno gruppo alleviandosi un po’ a vicenda. Cercano insomma di sopravvivergli, come dargli torto? Ogni pena dovrebbe avere in se stessa un limite. Non possiamo augurarci che anche loro vengano colpiti dal suo stesso lutto per capire finalmente. Non possiamo augurarci che anche noi si sia colpiti dal suo stesso lutto, per diventare come lui. Nessuno al mondo vuole diventare come lui.
Ça iraq
La ferita apportata l’11 settembre è una ferita rimarginabile? Ci appagheranno l’occupazione d’un suolo, la testa d’un brigante, la distruzione d’un luogo, il sale sparso sulle rovine fumanti? È reversibile questo stato di guerra o il suo carattere “enduring”, duraturo, permanente, indefinito è il segno di una compiuta irreversibilità? Quel dolore, con il suo carattere assolutamente sorprendente, fondamentale, fuori dalla temporalità, dal mondo, un dolore assoluto e non relativo, che scuote nel profondo i nostri sentimenti – e non solo le nostre condizioni -, ha risarcimento? C’è un risarcimento per l’11 settembre?C’è una riparazione? [i debiti di guerra, le imposizioni al nemico vinto]
C’è una vendetta sufficiente?
C’è un nuovo ordine delle cose che può restituirci quello che abbiamo perduto?
Riavremo mai quello che abbiamo perduto?
Temo di no.
Qui non è in discussione l’Afghanistan, l’Iraq o Saddam o bin Laden o il Sudan o la Corea del Nord. Qui in discussione siamo noi. Quest’ossessione travolge noi stessi. Si trattasse solo di avere la testa di Saddam o di qualche altro pazzo
furioso nel pianeta, a conti fatti potrei pure starci. Quattro soldati, un po’ d’ammuina, tre bombe, due sacchi neri, e è fatta. Effetti collaterali compresi.
Ma qui lo scontro non è tra civiltà. Magari. Sarebbe tutto in discesa. Non c’è partita.
Qui lo scontro è tutto dentro la nostra, di civiltà, di casa. Qui si piega fino in fondo la nostra civiltà, all’interno, la nostra storia, le nostre istituzioni, le nostre relazioni sociali, le nostre parole: qui quanto è contingente nella storia nostra, l’uso della guerra, la mobilitazione di massa, l’eccitazione sociale, l’irrigidimento delle regole di convivenza e di comunicazione, corre il rischio di diventare permanente, di diventare assoluto, ossessivo, di lasciarci senza parole adeguate per capire o per opporci. Non sappiamo come frenare tutto questo e neppure come parteciparvi, una parte di noi dice “ehi, amico, sono qui con te” – a volte sembra non accorgersi neppure della nostra presenza. Una parte non ci dorme la notte, smania e si preoccupa. Lui va avanti. Senza tregua, divorando se stesso, mentre divora nemici uno dietro l’altro. E amici. Senza scampo.
Ça iraq.
Roma, 1 febbraio 2003