di Giuseppe Genna
Questo articolo è stato censurato da L’Indice dei libri – oppure, finora, non è mai stato pubblicato, il che è una forma di censura non meno aspra. Era stato scritto su richiesta della redazione medesima che edita la rivista letteraria. Se lo si legge, si capisce perché tale articola non abbia mai visto la tipografia de L’Indice.
Giovanni Raboni, sul Corriere della Sera in edicola il 6 gennaio (2002, ndr), ha steso una celebrazione mitologica di Victor Hugo: zeppa di errori, di valutazioni discutibili, di imbarazzanti omissioni. Il signor Giovanni Raboni è, in questo caso, il Potere che parla (lo è anche in altri casi, ma mi interessa questo in particolare).
Già intellettuale marxista, da tempo il signor Raboni ha abbandonato la zattera, demandando alla paraconsorte poetica la responsabilità di attaccare in exergo Berlusconi (si vedano le seconde quartine che Valduga ha pubblicato in Einaudi). Il signor Raboni ha occupato con incredibili recensioni teatrali le pagine del prestigioso quotidiano di via Solferino, ridicolizzando professionisti capaci e intensi, come (per fare soltanto un esempio) Renzo Giovampietro. Il signor Raboni detta legge sul piano editoriale, dicendo la sua a proposito di inutili premi i cui lucori attraggono gli inermi scrittori italiani, bisbigliando controvoglia mentre si accarezza la barba, esprimendo giudizi, manifesti, elenchi di uomini da salvare e da abbattere, celebrando soltanto Paolo Volponi e Iolanda Insana, pensando di essere un grande per il fatto di opporsi al monolinguismo montaliano che ha dominato lo scorso secolo. Figurazione prettamente allegorica (del sé, del Leviatano, dell’indifferenza e della crisi), il signor Raboni esemplifica in emblema la ristrettezza cognitiva ed emotiva di una classe dominante che appartiene alla nostra memoria come le cere a certi musei. L’inadeguatezza di Raboni et similes nel valutare le feritoie da cui scaturisce il nuovo, la ritenzione affettiva che impedisce loro di concedere la patente a menti che evadono dalla ristrettezza anagrafica di una fascia precisa del mercato editoriale intellettuale e civile: questi sono per me segnali geologici che devono essere violentemente scalpellati e abrasi, se non altro perché questi signori, ai tempi giovanotti per bene, hanno monopolizzato il discorso culturale italiano nello scorso trentennio, facendo un uso improprio della psicoanalisi, che dovrebbe spingerli oggi ad accettare che le loro carni vengano spolpate da figli più o meno legittimi. Ieri erano gli anziani a urlare “O tempora! O mores!”; oggi, quando non esistono anziani saggi, sono io a gridarlo. Il tappo fossile che la classe dominante dell’industria culturale ha imposto alle generazioni successive equivale all’atteggiamento idiota con cui ha sbeffeggiato i propri coetanei che la pensavano diversamente. Fatto sta che oggi il maggior scrittore italiano, che è Antonio Moresco, ancora deve dialettizzare con argomentazioni vili e indecenti. Il massimo poeta che abbiamo in Italia dopo Zanzotto, Mario Benedetti, uscirà da Mondadori nel 2003, in qualità di “giovane”: ha 46 anni. Una delle voci critiche più innovative e autorevoli del nostro Paese, Tiziano Scarpa, lo si ricorda per i lustrini con cui lo Spettacolo imperante l’ha addobbato ai tempi dei “Cannibali”, un’etichetta che ha fatto comodo ai soliti perpetuatori di sé come Balestrini & co. Le collane di poesia, in Italia, sono allo stremo: cinque titoli all’anno per Lo Specchio mondadoriano, con primizie assolute quale il nuovo libro di Maria Luisa Spaziani; esordio nella Bianca di Einaudi per il non-poeta Erri De Luca, dopo che lo Struzzo si è fregiato di avere dato alle stampe i versi del non-nulla Gene Gnocchi.
La verità? E’ scomoda e fa male, e soprattutto non è il caso di enunciarla da quando quattro pneumatici ci hanno tolto di torno Pasolini e un cancro ci ha fatto il favore di corrodere una volta per tutte la carcassa acidula di Fortini. Però va detta, questa verità, quindi la dico. Si articola in alcuni punti. Abbiate pazienza.
La società culturale di questo Paese, che sbraita contro il Cavaliere, è antiquata, ignorante, cieca o sottoposta a gravissime sindromi di neglect (studiarsi un po’ di neuroscienza se non si sa che cos’è il neglect), ed è identica al Cavaliere che vuole disarcionare;
La società culturale di questo Paese è un elemento indispensabile, più di quanto lo fu un tempo, nell’espressione della cultura di questo Paese, e lo è in forma negativa, che è una sordida, silenziosa e implicita censura delle menti meno allineate e provocanti attriti;
La società culturale di questo Paese promuove esordi e casi del tutto omogenei a logiche di mercato e di sentimento del mondo tecnocratico, artificiale e derivato;
La società culturale di questo Paese tende a ignorare i destini della letteratura, poiché non crede più alla letteratura e la feticizza con categorie improprie, come “contaminazione”, “letteratura bassa”, “letteratura alta”, “innalzamento della cultura bassa a quella alta”;
La società culturale di questo Paese non è differente dalla letteratura di questo Paese;
La società culturale di questo Paese non riconosce l’ovvio, cioè la retorica e l’allegoria che la faranno deflagrare;
La società culturale di questo Paese pensa alla traduzione (e al traduttore) come se fosse un orpello della cultura, quando ne è uno dei motori fondamentali;
La società culturale di questo Paese psicologizza e feticizza le esistenze alternative, creando un alone estetico intorno ad autori drop out, in forza di un presupposto marxista tuttora vigente, che sostiene quanto sia bello che uno sia criminale e scriva, poiché egli si oppone in maniera duplice allo stato delle cose – non rendendosi conto che lo stato delle cose è tout court la società culturale medesima.
Per un Paese che non è stato in grado di applaudire o di contestare con violenza l’assegnazione del Nobel letterario a un guitto che non ha alcun merito letterario, non c’è da scandalizzarsi se simili truismi cadano nel vuoto o vengano in futuro scoperti in qualità di casi felicissimi di serendipità. Tuttavia non posso negare il mio personale assenso a un tempo nuovo che esiste da tempo tra le maglie e gli interstizi del mio trentennale presente: chi non riconosce l’esistenza di un simile tempo vive al di fuori del cerchio dell’intelligenza prestabilita, ma entra in maniera inquietante in quello della violenza prestabilita.
PS. Detto questo, un’aggiunta circa Giovanni Raboni. Giovanni Raboni resta comunque uno dei migliori intellettuali italiani. Per me, Nel grave sogno e A tanto caro sangue, due libri di versi pubblicati nello Specchio di Mondadori, hanno costituito una colonna portante della formazione cognitiva ed emotiva. La sua traduzione da Proust resta l’evento culturale più importante degli ultimi 30 anni in Italia. Cosa significa questo? Sto leccando il culo a Raboni? Lo temo? Non mi fanno la recensione sul Corriere? Non è questo il punto e vedo che faccio MOLTA fatica a rendere comprensibile la mia posizione. Io attacco un ruolo e un’icona. Esiste una critica allegorica? Sì ed è più potente di quella personale. La critica allegorica sembra personale, ma non lo è: anzi, ne sta agli antipodi. Richiede un’unica pregiudiziale per essere compresa: l’intelligenza e l’assenza di narcisismo che, appunto, sono un’unica facoltà.
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