di Valerio Evangelisti

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La fantascienza francese è di gran lunga la più vitale e variegata dell’Europa continentale, e può gareggiare ad armi quasi pari con quella inglese. Sarà che ha una storia ormai secolare: non solo Jules Verne, ma anche scrittori popolari come Albert Robida, Gaston Leroux, Gustave Le Rouge trattarono, tra fine ‘800 e inizi del ‘900, temi modernamente scientifici: dai viaggi spaziali alle società future, dalle civiltà extraterrestri ai robot. Ciò educò i lettori a un genere di narrativa che solo in Inghilterra aveva già preso piede.
Una supremazia statunitense della fantascienza, dovuta a scrittura smaliziata e a produzione letteraria di stampo industriale, si affermò, come nel resto d’Europa, a partire dagli anni Cinquanta; tuttavia non cancellò affatto la fs francese, che ebbe un eccezionale rigoglio attraverso la collana Anticipation delle edizioni Fleuve Noir. Gli autori che vi si segnalarono (Francis Carsac, Maurice Limat, Jimmy Guieu, Peter Randa, Richard-Bessière ecc.) prediligevano il genere avventuroso, e a un’immaginazione fertile univano uno stile in genere fiacco, costellato di ingenuità e di luoghi comuni. Tuttavia seppero creare un mercato e coltivare intere generazioni di appassionati, spesso indifferenti nei confronti della fantascienza anglosassone. Furono anche capaci di varcare le frontiere: le riviste italiane degli anni Sessanta ospitarono moltissimi romanzi francesi, spesso senza badare troppo alla qualità.


La maggior parte di questi scrittori non solo aveva mezzi stilistici dubbi, ma, salvo rare eccezioni, professava idee politiche razziste, militariste e reazionarie, e non faceva nulla per nasconderle. Le cose cambiarono subito dopo il ’68, che ebbe sulla fantascienza lo stesso effetto dirompente prodotto nella società francese. Fu una rivista, Fiction, a segnare la svolta. Sulle sue pagine, ricche di studi approfonditi e di dibattiti avvincenti, apparvero scrittori come Philippe Curval, Jean-Pierre Andrevon e altri ancora che, influenzati dalla fantascienza “sociologica” americana ma anche dal clima politico di quegli anni, presero a comporre storie contenenti, in forma metaforica, precisi spunti di polemica sociale.
Non si può dire che il pubblico accogliesse troppo bene l’esperimento, dopo la curiosità iniziale. I lettori di fantascienza francofona erano stati abituati al conservatorismo sia dello stile che dei contenuti. Giudicarono i nuovi testi che venivano loro proposti incomprensibili e pretenziosi, talora anche a ragione. Tra gli autori stessi ve ne furono alcuni che si ribellarono a un’ideologizzazione troppo pesante, condotta a scapito dei valori narrativi. Non lo fecero in nome delle idee retrograde o addirittura fasciste tipiche di Anticipation: il ’68 era stato anche per loro un momento di svolta senza ritorno. Piuttosto, intendevano conferire alla fantascienza dignità formale e nobiltà letteraria.
La disputa tra “contenutisti” e “formalisti” si protrasse a lungo, senza evitare il rischio di ingenerare noia. Quando gli anni Settanta cedettero il posto agli anni Ottanta, e il quadro politico della Francia e dell’Europa si modificò, si spensero le contese, ma anche il numero dei lettori di fantascienza francofona toccò uno dei suoi minimi storici — sebbene una collana dell’editore Denoël, Présence du Futur, avesse soppiantato Anticipation in prestigio, qualità e diffusione.
La crisi si protrasse fino alla fine del decennio, poi si produsse un risveglio inatteso, dalle conseguenze durature. Il merito fu di un gruppo di nuovi autori, dallo stile forte e dalle idee altrettanto forti: Ayerdhal, Serge Lehman, Jean-Marc Ligny, Pierre Bordage, Roland Wagner, per non citare che i più significativi (ma bisogna menzionare anche Jean-Claude Dunyach, attivo già da anni). A questi giovani riuscì il miracolo fallito dai loro predecessori: coniugare felicità narrativa e critica socio-politica, restituendo la fantascienza alla sua vocazione naturale di letteratura popolare capace di cogliere le linee evolutive del presente.
Ayerdhal, forse per primo in ordine di tempo, diede vita ad appassionanti saghe avventurose ispirate a un ecologismo radicale e militante. Bordage, Ligny e Wagner fecero proprio lo stile caleidoscopico dell’americano Jack Vance, descrivendo mondi futuri in cui erano trasferiti, in chiave ora drammatica, ora umoristica, tutti i problemi del nostro tempo, dalle migrazioni, alle guerre più o meno “umanitarie”, alla discriminazione razziale e sessuale. Lehman non solo tratteggiò, col ciclo F.A.U.S.T., il quadro di un futuro governato dalle multinazionali e regno di ogni disuguaglianza, ma si fece storico e ideologo della nuova fantascienza francese. La sua prefazione all’antologia Escales sur l’Horizon (Fleuve Noir 1998) disegna la vicenda della fs transalpina con profondità e rigore, e al tempo stesso traccia una sorta di manifesto che invita a esplorare tutte le potenzialità di quel genere letterario. Idem per gli articoli dedicati al tema sulle colonne di Le Monde Diplomatique e de l’Humanité.
Il risultato della svolta fu il ritorno del pubblico — o, forse, l’accostarsi di un nuovo pubblico — a una narrativa prima marginale e negletta. Escales sur l’Horizon fu un vero bestseller; i romanzi di Pierre Bordage toccarono tirature di decine di migliaia di copie, tutti gli autori citati godono di enorme popolarità nel mondo francofono (che non è tanto piccolo) e sono tradotti in Italia o in procinto di esserlo. Il loro successo, ormai decennale, è anche legato a una caratteristica dei loro romanzi: attraverso essi il lettore ha accesso a temi di grande complessità, che difficilmente, nel clima di regresso politico e intellettuale europeo, potrebbe trovare altrove espressi con tanta forza.
Ma è tempo di abbandonare la cronologia e di venire a qualche esempio significativo. Accantoniamo F.A.U.S.T. di Lehman. Prendiamo invece quella che è forse l’opera più convincente della fantascienza europea degli ultimi anni: Jihad di Jean-Marc Ligny (Guerra santa, Fanucci 2001). E’ la storia di un giovane algerino sulle tracce dell’assassino della sorella, apparentemente uccisa dagli integralisti islamici. Per scovarlo, e per scoprire una realtà ben diversa, dovrà introdursi in una Francia in cui il Fronte Nazionale ha vinto le elezioni, e passare attraverso le angherie, le violenze, le discriminazioni che vivono i suoi compatrioti. Una vera discesa all’inferno, però analoga alle traversie di un immigrato in un paese straniero, solo un po’ più autoritario e militarizzato della norma.
Si pensa immediatamente ai risultati del primo turno delle presidenziali francesi. Solo che il romanzo è del 1998. In quell’anno il premio Goncourt in Francia, lo Strega o il Campiello in Italia andavano a libri che nessuno ricorda più, se non con un serio sforzo di memoria. Invece quello stesso anno uno scrittore di fantascienza ignorato dall’accademia descriveva, con antropologica precisione, minacce possibili e niente affatto remote. Non solo: finiva anche col controbattere in anticipo i loschi teorici dello “scontro di civiltà”, dipingendo un Islam credibile e un mondo arabo niente affatto barbarico, fornendo persino al lettore un glossario, pubblicato in appendice al romanzo, che oggi risulta addirittura prezioso.
Ciò non in virtù di capacità profetiche, che né Ligny né nessun altro possiede, bensì grazie a un uso ragionato delle possibilità intrinseche della fantascienza: sguardo attento a cogliere gli snodi delle trasformazioni del presente (chi pensa che la fs abbia per oggetto il futuro non ha capito nulla); vocazione massimalistica, con l’occhio rivolto a interi sistemi; conflitto tra forze e tendenze quale premessa all’interpretazione del reale. Caratteristiche ignote, lo si ammetta, a buona parte della narrativa corrente.
Mi si consenta un secondo esempio, riguardante un romanzo non ancora tradotto in italiano: Pollen di Joëlle Wintrebert (Au Diable Vauvert, 2002). La fantascienza francese odierna non è solo maschile, e Joëlle Wintrebert non è seconda a nessuno, per qualità e complessità. Nel suo libro ipotizza una società matriarcale, che ha raggiunto la pace sul pianeta che la ospita isolando i propri guerrieri su una luna adiacente. Ma una completa separazione dei sessi non è possibile, e tra i due mondi si intrecciano complesse relazioni, fatte di dominio, nostalgia, desiderio. Finché il muro non si rompe, e il gioco sottile non diventa manifesto e diretto, fino a culminare in scontro. Con esiti niente affatto scontati.
Qui non sono in scena tanto i rapporti sociali (anche), quanto gli archetipi maschile e femminile, con le loro ricadute culturali. Lo spessore è quello dei saggi di Eric Neumann, ma proposto con mano leggera e con stile impeccabile. Così ci si trova conquistati da riflessioni che nulla hanno di scontato o di banale, e che toccano profondità totalmente sconosciute alla letteratura mid-cult. Perché la fantascienza, quando è grande, pone più interrogativi di quanti ne risolva, e si alimenta di ambiguità. Non a caso è la narrativa che più spesso rifiuta il lieto fine. Suo scopo non è consolare: piuttosto inquietare, e all’occorrenza suscitare disagio.
Di motivi di disagio, la Francia odierna ne ha parecchi. Per fortuna la fantascienza, così come il noir, le ha fornito scrittori che non temono di guardare in faccia il presente, e attraverso esso il futuro.