di Giuseppe Genna
Il libro in questione è uscito nel 2001 e sembrerebbe strano parlarne adesso. E’ che, in realtà, pur uscito due anni fa, il manuale geopolitico steso dai colonnelli cinesi Qiao Liang e Wang Xiangsui risale al 1996. E ancora se ne parla. Perché? Perché è il testo in cui si rivela la piena potenza del concetto politico più à la page degli ultimi vent’anni: l’idea di “guerra asimmetrica”. Però, forse, vale la pena di ragionarci non soltanto in termini geopolitici. C’è un arco voltaico che scatta, sempre e meccanicamente, tra retorica del Potere e retorica letteraria. Guerra senza limiti comprova l’effettività questo legame che, tra l’altro, non è per niente inindagato (anzi…) né costituisce una tesi personale. E’ possibile che questo testo, che ha fatto tremare le sezioni continentali della Cia negli ultimi anni, sia un manuale di geopolitica e un manuale di letteratura?
Secondo la profezia, alla fine del tempo tutto compenetra tutto. Siamo alla fine del tempo poiché, in effetti, la fine del tempo è sempre e la mente riesce a fermare il flusso (non ci riesce stabilmente, ma sa come interromperlo). E’ possibile dunque interpretare il nostro presente con le categorie dell’apocalisse? E, se lo si fa, in che modo e con quali risultati? Vorrei provare a mettere a fuoco quest’occasione che sempiternamente si presenta agli scrittori, agli artisti, agli intellettuali; non ai critici, purtroppo per loro, il che li relega, secondo la prospettiva che vorrei indicare, in un ruolo di secondo piano – tenendo presente che il secondo piano non è neanche lo sfondo.
Per quanto l’avvio possa sembrare abborracciato, esso nasce da una lunga frequentazione con àmbiti extraletterari, che ho notato avere un effetto bizzarro su colleghi scrittori e su intellettuali ormai reclusi in minimi steccati: tutti arricciano il naso. La riflessione sulla cultura apocalittica del presente (che è riflessione sull’apocalisse della cultura presente) nasce da una lettura folgorante, perlomeno esotica, del tutto eversiva rispetto al panorama in cui si muove la nostra intelligenza nazionale. Il libro in questione è Guerra senza limiti – L’arte della guerra asimmetrica fra terrorimo e globalizzazione, edito da Goriziana, a cura del generale Fabio Mini. Lo hanno scritto due militari cinesi (l’esotismo finisce qui), Qiao Liang e Wang Xiangsui. Non sono alti gradi dell’esercito di Pechino, e tuttavia la storia quasi evangelica della traduzione di questo testo dà conto di come questi due grassocci e azzimati membri dell’esercito abbiano letteralmente terrorizzato gli Stati Uniti: quattro versioni del libro, di cui due interne (una d’ambasciata, l’altra della Cia) hanno alimentato una leggenda che rientra nei canoni poetici dell’occidente e che afferisce al paradigma del manoscritto disperso. I due laicissimi taoisti di regime hanno messo in nero su bianco le loro formidabili riflessioni nel lontano 1996: cinque anni, oggidì, sembrano equivalere a un’era geologica – e non soltanto grazie ai ritmi dell’economia globale. Ebbene, nel 1996 gli impronunciabili autori vergavano una sorta di profezia, che serviva loro a modello di spiegazione della teoria, ormai acclarata, della guerra non convenzionale. Nulla meglio di quest’affermazione autografa spiega che cosa sia il concetto di guerra non convenzionale: “Siamo persuasi che alcune persone si sveglieranno di buon’ora scoprendo con stupore che diverse cose apparentemente innocue e comuni hanno iniziato ad assumere caratteristiche offensive e letali”. Non interessa qui discutere di che cosa sia la guerra senza limiti, bensì che cosa comporti. Chi voglia conoscere l’effettività delle profezie multistrategiche e geopolitiche dei colonnelli cinesi può acquistare e leggere il libro, sorprendendosi dell’acutezza delle analisi e della forza penetrante delle visioni, culminanti in un passo decisamente inquietante: “Con il nuovo secolo i soldati devono chiedersi: che cosa siamo? Se Bin Laden e Soros sono soldati, allora chi non lo è? Se Powell, Schwarzkopf, Dayan sono politici, allora chi è un politico? Questo è il quesito fondamentale del globalismo e della guerra nell’era della globalizzazione”. Una chicca? A pagina 126, tenendo presente che gli autori scrivono nel ’96: “Che si tratti dell’intrusione degli hackers, di una grave esplosione al World Trade Center o di un attentato dinamitardo di Bin Laden, tutti questi eventi eccedono di gran lunga le bande di frequenza comprese dall’esercito statunitense”. Se si rammenta l’hackeraggio temporaneo dell’aeroporto Kennedy l’11 settembre, la profezia sembra essersi realizzata con scientifica precisione.
E tuttavia non è con uno sguardo simile che vorrei rileggere il manuale ultrapolitico di Liang e Xiangsui. Al contrario, desidero mettere in rilievo come due colonnelli cinesi, discettando di guerra non convenzionale, arrivano a delineare nitidamente i tratti di un nuovo umanesimo. Mentre scrivono di guerra, formulano straordinarie ipotesi letterarie. La constatazione è ovvia: perfino Debord aveva utilizzato Von Clausewitz ai fini di una critica che risultava indifferentemente estetica e politica. Se la guerra è la continuazione della politica, la politica è l’anticipazione della guerra. Poiché esistono strategie e politiche letterarie, incominciamo a intuire la pesantezza di alcune scelte che, con la guerra, sembrerebbero non avere nulla a che fare. Invece, hanno a che fare eccome: ci muoviamo – sembrano suggerire i colonnelli cinesi – in un campo di battaglia molto vasto e atmosferico, che include la creazione artistica tanto quanto la lotta tra generazioni. Non soltanto i due kapo di Pechino sottotitolano inerendo all’”arte della guerra asimmetrica”, ma si rifanno allo stupore, alla sorpresa, al risveglio del mondo dal sogno della sicurezza. Conosciamo da tempo gli effetti meno borghesemente rassicuranti della letteratura: sono i medesimi evocati dai colonnelli cinesi. E’ paradossale, ma non inatteso, che si rovesci lo stile della guerra in stile letterario: era già accaduto l’opposto, in passato, e tra realtà e finzione avevamo assistito a un’osmosi pressoché identica. Non è tanto impressionante il fatto che nelle prime due pagine del loro libro gli autori citino Byron, Spengler e Heidegger; è piuttosto impressionante che non lo facciano da tempo, con tanta veridicità, gli scrittori e gli intellettuali. Un inveramento sospetto della cultura viene effettuato dalla geopolitica e dalle discipline che concernono l’intelligence. Potevamo aspettarcelo? Sì: basterebbe attutire il proprio olfatto e non percepire puzza intorno alle scelte di massa, per rendersi conto che la letteratura ad ampio target (un termine mutuato dal gergo bellico) ruota da tempo intorno alla suspence, all’intelligence, alla spy story, alla scoperta tecnologica aggressiva. Simili allegorie sono tanto istruttive quanto pericolose, e in modi tutt’altro che allegorici.
Siamo purtroppo immunizzati da tempo al rumore di fondo sollevato dai media e, più in generale dal mondo. C’è una risposta a questo rumore che gli scrittori e gli intellettuali italiani tardano a formulare: bisogna riconoscere che questo rumore ha dei ritmi e una retorica che non nascono dal nulla – sono ritmi e retorica mutuati dalla letteratura. Il passo successivo è già una categoria dell’apocalisse: se ritmi e retorica costituiscono la membrana osmotica tra letteratura e mondo (il che significa anche geopolitica e intelligence, non soltanto televisione e pubblicità), allora diviene possibile praticare un autentico assalto al mondo facendo perno sulla letteratura. E’ abbastanza curioso che David Foster Wallace, in quel capolavoro che è Infinite Jest, accenni all’elezione di George Bush III prima ancora che George Bush Jr. venisse eletto: curioso, certo, ma anche esemplificativo di quanto l’arte è in grado di intervenire concretamente nel discorso monologico del mondo.
A conferma di questa lettura obliqua del libro di Liang e Xiangsui, vorrei convocare gli autori stessi. Essi infatti evocano differenti opzioni di grammatica dell’arte della guerra asimmetrica. Danno per dimostrato il deficit di gap: più ristretto è il gap tecnologico dei contendenti, più clamoroso sarà il successo del contendente più tecnologizzato; se il gap è ampio, invece, si rischia la patta. I conflitti in Vietnam, ma soprattutto l’incredibile strascico decennale della guerra all’Iraq depongono a favore dell’ipotesi. Lo sanno bene i medi giocatori di scacchi: se l’avversario non sa giocare, salta la grammatica, diventa più difficile vincere in poche mosse. A quale arma supplettiva ricorrono le realtà meno attrezzate a un conflitto? La risposta dei colonnelli cinesi è: la combinatoria. Chi è sfavorito, chi non dispone di grandi mezzi, chi si sente aggredito dal più forte rimedia con quella che Baudelaire (sulla scorta di Aristotele) avrebbe chiamato fantasia: un’arte combinatoria che affida ai legami proiettivi da istituirsi la vocazione alla creatività che sfugge a ogni tecnologia. Gli elementi sono dati, l’intuizione non ha prezzo: letteralmente l’intuizione non ha mercato. La cinematografia americana soccorre in questo punto. Basterà ricordare l’incredibile parabola a cui è sottoposto il Robert Redford de I tre giorni del Condor: lavora per un ufficio coperto della Cia, scrutando libri per estrarre idee e segreti dell’intelligence e viene catapultato in una vicenda romanzesca che lo costringe a simulare il comportamento di un agente segreto. Questo rovesciamento conforta: la tradizione italiana è maestra della combinatoria, così come dell’emblematica – ed è un insospettabile straniero a insegnarcelo, il Walter Benjamin del Dramma barocco tedesco. Emblematica e combinatoria divengono chiavi di interpretazione della guerra di nuova specie, così come divengono prospettive fondanti della letteratura di nuova specie. Una delle conferme più virtuose per la letteratura non pertiene a ciò che finora abbiamo considerato letteratura. Se un colonnello cinese mi venisse a domandare chi è il massimo scrittore italiano, gli risponderei che è Gilberto Squizzato. La problematicità implicita nella risposta consiste nel fatto che Gilberto Squizzato è un regista, non uno scrittore. Autore del recente e seguitissimo miniserial Il tunnel, trasmesso da RaiTre e incensato addirittura da Godard, Squizzato è autore dei dialoghi più vertiginosi che l’Italia abbia prodotto dai tempi di Pasolini; è creatore di storie sacre ricche di una metafisica orizzontale, artificiale, intensamente meditatrice sull’assenza di realtà nel contemporaneo; è imbastitore di allegorie che ricordano la tradizione più gloriosamente barocca passata attraverso le fauci di William Vollmann; è un eversivo terrorista che tritura il meccanismo di rappresentazione televisiva, facendo fuoriuscire la tv dalla tv, esattamente come la letteratura è uscita dalla letteratura e la guerra dalla guerra.
Per ora è molto agevole mettere il silenziatore a gente come Squizzato, così come è assai semplice per Bush Jr. occupare l’Afghanistan; il problema, tuttavia, è che Bush Jr non si rende conto che la Jihad non è questione di Stati, bensì d’interstizi, di atmosfere, di potenze in crogiolo. Incatenare la volontà di un terrorista non è semplice quanto incatenarne i polsi. Il monito dei colonnelli cinesi all’Occidente coincide perfettamente col monito che lancio io agli intellettuali del mio Paese.
Sembra un racconto minore di Kafka o una tautologia di Walser: due colonnelli cinesi ribaltano l’occidente. Invece è vero: è uno dei segnali che il rivolgimento in atto deriva molta parte della sua natura da un’esplosione estetica. “I confini tra soldati e non soldati sono ora abbattuti”: è una premessa spaventosa e necessaria, che suona quale campana a morto per una comunità intellettuale sorda alla vita, insensibile alla creatività e, ciò che più conta, alla creazione. A questa comunità intellettuale, che crede che la lingua sia stile, che la struttura sia bisturizzabile, che il ritmo non esista se non in quanto prosodia, che il mondo sta tutto dentro la letteratura e la letteratura non sta nel mondo, è possibile consigliare la fondazione del nuovo umanesimo (che coincide, una volta ancora, con l’antico umanesimo) insegnato da due colonnelli cinesi che sembrano usciti da un racconto di Cortázar.