da Forget domani (peQuod, 2002)
Percorro con un elicottero, a volo radente, le dune che separano Las Vegas dal muro del Pacifico. Il deserto annichila i sogni. Apprezzo l’archeologia della Terra scoperchiata nel suo stato pre-umano e disumano, mentre giungo nell’Atlantide riaffiorata e clonata, nell’anti-Metropolis, nella realtà perfezionata. Il deserto roccioso che circonda la città dell’Azzardo. Qui si vive nel mezzo di un’atmosfera rarefatta, che evidentemente circonfonde la melodia sincopata dei crooners, la battuta in levare dello swing, la sonorità cupa e amorosa delle torch songs. Las vegas: i luoghi intimi dove non ho vissuto, dove non ho ancora vissuto.
Dove ho specchiato la mia estasi. Il deserto mobile, il luogo possibile ed effettivo di una esplosione nucleare, apre il countdown del mio avvicinamento alla Città di Dio.
Molti anni fa ascoltavo i ritmi scanditi delle musiche di Cole Porter, Rodgers and Hart, Irving Berlin. Li ascoltavo la domenica mattina. Mio padre, che usava un giradischi debolmente amplificato, metteva sempre gli stessi dischi: una selezione di brani di Sinatra tratti dal periodo storico detto Capitol Years. Si trattava di esecuzioni nitide, fulgide, perfettamente movimentate. L’onda dello swing montava, discendeva, risaliva senza tregua. Non conoscevo altra musica, o quasi; a parte le popsongs per l’infanzia…. Ma odiavo lo Zecchino d’Oro, odiavo la disciplina che i minuscoli soldatini del coro dell’Antoniano eseguiva senza autenticità. Non ammiravo le nenie su Johnny Bassotto. Non apprezzavo quelle strofe ecolaliche e truffaldine sui ladri di marmellata. Sinatra era la musica per adulti, dove i dritti facevano fortuna sbancando i casinò, dove potevi incontrare un informatore nell’amnio narcolettico di un american bar, dove si faceva l’amore con l’aria condizionata. Insomma si trattava di un sound scintillante, che suggeriva una vita violenta e negligé, fatta di pupe e pallottole.
Passati i vagiti della prima infanzia svanì quell’allucinazione dorata e gaudente. Entrai in una specie di periodo di latenza auditiva. la musica non m’interessava; a parte i dischi di Fausto Papetti ( per via delle copertine invase da curiosi topless esotici). Non ascoltavo nulla. A volte mi soffermavo presso i juke box, nelle stazioni balneari dell’Adriatico, durante la villeggiatura estiva. C’erano nugoli di fanciulle in chiara metamorfosi ormonale, che ancheggiavano e dinoccolavano il loro busto pelvico facendo mostra di sé quasi fossero bamboline stregate. Le ragazze ammiravano Miguel Bosè. Devo confessare che Candido l’Ispanico mi sembrava solo un’invertito di successo, non avevo nessuna pietà per il senso estetico della mia giovane generazione. I miei coetanei non avevano capito nulla. Pensavano di modellare la propria biografia futura sul fraseggi al fruttosio di Pupo: pensavano forse che l’ acme di un flirt fosse consumare un gelato assieme sulla spiaggia? Non m’interessava affatto di dividere un cuore di panna con una rossa lentigginosa. Nello stesso tempo mi pareva che le canzoni servissero solo a favorire questo genere di situazioni. Ci voleva qualcos’altro.
La saga delle performance avvenute presso il club Dunes di Las Vegas grazie al sodalizio artistico del Rat Pack corrispondono all’avvento di un nuovo impianto storico, tecnologico e spettacolare che si innesta nell’evoluzione della specie. Fu l’emergenza di un nuovo tipo di evento. Nel quale lo spettacolo dei performer non era più la rappresentazione del mondo, ma l’avvento di una nuova e terribile politica mondiale. Kennedy fu tra i frequentatori del club. E’stato così: ci sono le prove. Ci sono molte foto e documenti filmati. Inoltre- in un video- si vede: la figura stellare di JFK, con la zazzera inconfondibile della pettinatura che ondeggia sulla fronte ampia e positiva, che emerge dalla semioscurità artificiosa dei tavolini e viene inondata dalla luce gloriosa di una faro, mentre l’orchestra, con gioia galvanica e furore da pugile combattente, suona l’inno in forma di swing, e tutto il pubblico freme e si spazientisce, sbattendo i piedi e agitando le mani e urlando da ubriaco, mentre il corpo latteo, che parrebbe vivere disossato, integralmente plastico, di John Fitzgerald Kennedy saluta Blue Eyes e Dino, e il popolo del night e tutta l’America dominatrice del pianeta. Ecco quel video dimostra l’impressionante potenza di questa nuova forma di spettacolo, che impone il proprio sigillo anarchico alla Terra. La Canzone del Globo sorge ovunque, plurale e ubiqua, squassando le casse stereofoniche degli apparecchi fonografici e piombando irreversibilmente nelle trombe di Eustachio.
Le canzonette non servivano dunque solo a fare meglio l’amore con le ninfette. Bensì erano la forma congenita di una sconosciuta realizzazione della volontà di potenza. L’epoca del 78 giri e, in seguito, del microsolco favorirono la nascita di una nuova espressione della voce umana. Gli americani lo capirono subito. L’amplificazione del canto e la brevità dell’esecuzione. Una condensazione di sonorità inaudite, che venivano dall’interno, dalla cavità viscerale del corpo.
Il disco consentiva solo la pubblicazione di brani dalla durati di pochi minuti. Le registrazioni erano il frutto del genio dell’improvvisazione. Una seduta di registrazione pop è un evento irripetibile, che si replicherà per sempre nei timpani di una umanità destinata in breve a realizzare i propri sogni metafisici. Tutti sapevano che l’eternità tra poco non sarebbe stata più un problema. Il motto era: lascia l’evento così com’è.
Sono disteso su una sedia a sdraio. Naturalmente all’ombra. Sono refrattario alle fatiche metodiche della tintarella. Mentre le amiche di mia madre chiacchierano sull’avvenire estetico ed erotico delle loro frugolette, io mi dedico a decifrare i vaticini del Calciomercato. Ho 15 anni non ancora compiuti. Siamo nel millenovecentottantadue. Ho avuto la fortuna di far parte di una generazione che ha avuto l’opportunità di vedere l’Italia aggiudicarsi la Coppa del mondo di calcio. Questo avvenimento è potuto succedere solo in virtù di fatti prodigiosi e congiunture improbabili. La vittoria fu incredibile. Dopo anni di batoste economiche, sogni rivoluzionari sanguinosi e incoscienti, golpismo e scandali politico-finanziari, finalmente il Belpaese usciva dagli anni di piombo. Facevo il liceo e stavo diventando adulto. tutte queste storie ormai avrebbero riguardato il passato. Infatti, già odiavo i ragazzi più grandi, capelloni e con la barba lunga e lanuginosa che stornellavano canti di battaglia, civilmente impegnati e pedagogicamente corretti. Avrei sputato- forse ingiustamente- sulle cantilene intorno ai falò sui versi del cantautorato settantasettino, sugli zingari di Claudio Lolli e sugli spinelli di Stefano Rosso. A stento mi sarei ricordato del genio di Rino Gaetano. La musica folk era per me una espressione cacofonica adatta alle genti cafone del primo novecento. Ci voleva una musica nuova per un nuovo inizio. Non mi sentivo ancora mio agio nel popolo dei lettori di Capital. Mi affascinavano però i lunghi servizi fotografici che illustravano come scegliere adeguatamente il proprio mouchoire da taschino. Mi piacevano le immagini ingrandite dei sigari. Una merce rara, ancora non distribuita nelle tabaccherie. La gente conosceva solo il puzzo contadino dei vecchi toscani. Io credevo ciecamente nelle sostanza aromatica diffusa dagli havana che andavano in fumo.
Mettiamo il caso mi trovassi sprofondato in una antica bérgere, con un calice di porto vintage tra le mani e un sigaro Davidoff tra i denti, che razza di sound di sottofondo potrei stare ascoltando? Non lo sapevo ancora.
Durante l’inverno avevo visto, assieme ai miei amici del ginnasio, una serie di filmetti sulla vita amorosa dei nostri coetanei. In realtà, ero molto più propenso ai paradisi oceanici delle lagune blu che alla rappresentazione realistica del tempo delle mele. Le feste al pomeriggio, dove si bevevano chinotto e aranciata e si mangiavano arancini di riso e panini imburrati al prosciutto cotto, erano imbarazzanti. Ogni tanto qualche ragazza provava a mettere dei dischi. All’inizio le ragazze ballavano da sole. I duri non ballavano. E io, mio malgrado, ne facevo parte. Qualche ragazzino più molle e, visibilmente turbato dagli abbracci con le fanciulle, già discretamente pettorute si abbandonava ai ritmi lenti di Hard to say I’m sorry dei Chicago oppure alla demenzialità profetica di Da da da I don’t love you… dei Trio. Questo comportamento goffo, degno dei tacchini, non mi piaceva. Volevo sedurre le ragazze usando il class touch. Le avrei portate sul bordo della piscina, dopo averle tirate giù dal materassino, e le avrei baciate, sentendo ancora la presenza impalpabile e asettica del cloro. Non avevo l’età per amare così. Ma ci sarei arrivato. Prima o poi. Per il momento sognavo di viaggiare su delle navi da crociera auratiche. Camminavo per ore sul ponte dell’imbarcazione. Indossavo degli occhiali da sole a specchio e un cappello ampio stile pescatore. Ero vestito con una t-shirt color militare e dei pantaloni scuri di tela. Non amavo prendere il sole. Avevo un colorito pallido, mi aggiravo con aria tenebrosa tra la gente che si rosolava. Le ragazze in bikini, dal ventre piatto e dai seni piccoli, si tuffavano nella piscina. Ero scontroso e annoiato. I miei genitori non c’erano mai. Forse mio padre stava giocando a poker con la comitiva di amici appena conosciuti durante la navigazione. Faceva molto caldo. Eravamo al sud dell’equatore, nell’Oceano pacifico. Tra il Sudamerica e la Polinesia.
Un oggetto volante non identificato apparve una sera verso il tramonto irreale di quelle zone abissali. Roteava nel cielo emettendo un fischio fastidioso. Il rollio della nave era diventato fastidiosa. Una signora sessantenne, vestita con un abito da sera lungo e con le spalline si mise a vomitare. Non era il solito mal di mare. L’afa era irrespirabile. Il clima era diventato alieno. Non capivamo se si trattava di un curioso fenomeno sub-equatoriale o di un condizionamento artificiale. Le crisi di vomito si moltiplicarono. Sugli sgabelli del bar le persone si accasciavano e morivano in fretta. Il fischio dell’UFO era diventato assordante. La gente urlava, ma non si sentiva più un accidenti. Camminavo in mezzo a schiere di cadaveri. L’oggetto volante era sparito, ma si avvertiva la sua presenza evidentemente nefasta. Era in atto una catastrofe nautica, l’importante era non farsi prendere dal panico. se tutti morivano, io non morivo. Avanzavo lentamente verso la piscina, dove c’era una luce fortissima. Il calore fondeva la pelle, avevo delle leggere ustioni sulle braccia. Improvvisamente ci fu un silenzio pauroso. Si sentiva solo il suono metallico e fioco come proveniente da una autoradio. Stavano trasmettendo in una lingua sconosciuta. Poi cominciò la musica. Erano le note iniziali di Private Investigations dei Dire Straits. La luce era come un velo scintillante, che copriva forse una piccola astronave. Ma non accecava affatto. Mentre avanzavo sempre più lentamente verso il bordo della piscina, quasi fossi deciso a suicidarmi, avvertii una mano che delicatamente mi sfiorava la spalla: “Non Lo fare”- disse Lei. Non mi voltai, neanche per un attimo. Al contrario, in modo del tutto automatico e imprevisto, mi calai in mare. Non sapevo cosa stavo facendo, ma tutto accadeva in modo assolutamente sequenziale. Stavo eseguendo qualcosa, delle istruzioni che parlavano direttamente al moto ondoso della mia attività cerebrale. Nuotai per un paio d’ore. Era buio. Potevo morire o non morire. Non potevo sapere più nulla. Mi misi a fare il morto, sapendo di non essere morto. Passò un periodo lunghissimo. A un tratto venni urtato dal vetro di una bottiglia, che mi fece prendere consapevolezza che dovevo rimettermi improvvisamente a nuotare. Nuotavo a più non posso, quasi fino a soffocare, facendo delle bracciate lunghissime senza prendere il respiro e senza capire la mia direzione. Non sapevo niente. Non avrei saputo più niente. Finché mi accorsi che si toccava. Smisi di nuotare e cominciai a camminare. A 500 metri di distanza c’era un’isola. Camminavo nell’acqua dell’oceano trasparente. Il sole e il vento mi accompagnavano. C’era una spiaggia bianca e in fondo alla mia visione c’era una ragazza dalla pelle bruna. Mi aspettava lì, per offrirmi la prima scopata della mia vita. Fu un rapporto sessuale lunghissimo. Estatico ed esotico. Alla fine mi offrì da bere il latte di una noce di cocco. Poi mi addormentai. Dormivo per anni. Cominciai a sognare la mia vita a Catania. Il sogno ricapitolava tutta la mia vita precedente il disastro della crociera. Avrei dovuto dunque attendere la fine del sogno per tornare daccapo sull’isola e incontrare la ragazza dalla pelle bruna.
Sinatra fu sempre considerato “connected”, godendo di relazioni intime e personali con Presidenti e Principi, e, naturalmente, di amicizie pericolose nell’ambiente della Mafia. Anche se quest’ultimo fatto fu sempre negato dal diretto interessato.Il singer italoamericano di Hoboken favorì il successo della campagnia presidenziale di John F. Kennedy del 1960s, e la cover di Sinatra High Hopes fu la theme song della propaganda della Nuova frontiera. Alcuni rumours sostengono che Sinatra fu nelle grazie dei Kennedy perché introdusse nel giro dei Kennedy una Signora che divenne simultaneamente la Mistress di JFK e del boss mafioso Sam Giancana. Queste voci non furono mai confermate. Le cose si sapevano. Bastava questo.
La critica musicale sostiene che Sinatra fu il primo cantante a preoccuparsi delle parole che stava cantando. Leggeva le parole con una dizione esemplare, con un accentuazione esemplare, facendo in modo di lasciar sgorgare le emozioni verso per verso. Ci fu un giorno particolare.
Era il 106° giorno dell’anno, il 21 giugno 1973, ed era il giorno più caldo di giugno. E il più lungo dell’anno. Gordon Jenkins chiese: “Dov’è il Baritono?” E il Baritono andò verso il microfono. Durante la registrazione era concentrato, gli occhi saltellavano dalla sgabello al tavolo d’acciaio, ma non incontravano nessuno sguardo. Il Baritono stava soltanto ascoltando. Stavano suonando la Musica, la sua musica. Prese tra le mani, tenendole bene in alto, l’asta del microfono. E cantò. Stava in piedi, ed era un uomo solo, che doveva restare solo per sempre: Know I said that I was leaving/ but I just couldn?t say goodbye,/ It was only self-deceiving/to walk away from someone who means everything in life to you.
Sinatra cantava. Aveva detto che avrebbe smesso. Si era ritirato ufficialmente dalle scena. La Voce sarebbe rimasta muta per sempre.
“ Sinatra is keeping it low key”- dicevano gli orchestrali. Il suo approccio performativo è lento e ineffabilmente metodico; poiché discendeva da una saggezza remota. L’amarezza e la serenità del suo genio vocale convivevano nella confidenzialità distaccata dell’esecuzione improvvisa e già perfetta. Trentamila lettere lo supplicavano: Prima di lasciarci, fai almeno per l’ultima volta, un altro album. Ol’ blue eyes is back. La sua voce era diventata profonda. Il suono delle sue frasi era ampio e potente come appartenesse alla famiglia musicale degli ottoni. Sinatra scavava nei testi delle canzoni, fino ad estrarne l’uranio grezzo. La pronuncia era forte, scandita, drammatica. In quel momento, alcuni uomini eleganti e dai capelli bianchi, che sedevano nello studio, durante la registrazione, pensarono che Sinatra fosse…..Lincoln. Era vero. Era il Fondatore di un nuovo patto sociale tra gli esseri umani fondato sull’apoteosi libera e popolare della voce. Servirono delle tartine al salmone e del patè d’anatra. Alcuni camerieri, in uniforme impeccabile, entrarono con dei vassoi. Versarono champagne millesimato. Gli uomini in giacca e cravatta si passarono le mani sulle loro chiome rade e argentate, infilarono le mani nella tasca interno dei loro abiti, estrassero dei sigari dall’anello gigantesco. Fumarono e si sbronzarono. Erano responsabilmente felici. Sinatra si avvicinò loro e rise con loro. Erano uomini introversi, pragmatici, ma di buon spirito. Avevano vissuto lavorando sodo, frequentano gli uffici agli ultimi piani dei grattacieli più alti della Terra. Erano sposati. Alcuni lo avevano fatto più volte, e benché avessero divorziato, avevano voluto continuare a celebrare il matrimonio. E avevano molti figli e avevano una oscura e incomprensibile Fede. I mariti che sarebbero tornati a casa quella sera sulle loro macchine, avrebbero guidato piano e avrebbero pensato come raccontare e spiegare alle loro mogli già addormentate che cosa era accaduto durante quelle tre ore di scintillante playback.
Le canzoni erano terminate, gli amici erano satolli. Sinatra voltò le spalle alla compagnia. Si diresse verso il centro della sala e disse: “ Penso che oggi abbiamo fatto un nuovo disco!” L’album era pronto. I componenti dell’orchestra applaudirono. Il direttore e arrangiatore Gordon Jenkins era raggiante. L’avevano fatto. E in fretta. Tra poco, in tutti i negozi del mondo, i fans avrebbero ritrovato la merce più preziosa che potessero acquistare. Milioni di persone non potevano aver sbagliato. La voce di Sinatra si sarebbe diffusa nelle stanze di tutta la Nazione. La solitudine era sconfitta. Nel riparo dei salotti e delle camere ammobiliate, dappertutto e ovunque, la chiara sentenza sul fato degli uomini pronunciata dal canto del crooner sarebbe risuonata e avrebbe rischiarato i destini sensuali e inetti di milioni di creature senza alcuna fama.
Ho superato i trent’anni. Anzi ho trentacinque anni. Sono sposato con prole. Siamo nel duemilaedue. Sinatra è già morto. Nel 1998. Un giorno dopo l’altro la vita se ne va, e la speranza ormai è un’abitudine. Mi annoio profondamente. Abito a Milano da quindici anni. Lavoro in una azienda della New economy. Gli esperti di una nota società di consulenza esprimo il loro parere sulla situazione congiunturale del setore in cui mi trovo ad operare: “ Da un punto di vista più generale, occorre comunque concludere che se da un lato le enormi disponibilità finanziarie che si sono create col boom di Borsa nel periodo 1999-2000 sono state per la quasi totalità (80 %) consumate nella maniera sopra indicata, dall’altro lato uno dei pochi motivi comuni di spesa sembra essere costituito dai buy back”. Il buy back, ovvero le aziende che comprano le proprie azioni per sostenere il loro andamento borsistico. E perdono un mucchio di quattrini. In pratica, il pescecane che si mangia la coda. Mi chiedevo: “ Ma qualcuno si porrà il problema di che cosa succederà quando le risorse si saranno assottigliate, i mercati non consentiranno facili aumenti di capitale e le società avranno un patrimonio netto implicitamente diminuito dal buy back?” Evidentemente nessuno se lo chiedeva. Ero solo io a restare con simili spine piantate dritte nel cuore. La vita professionale mi appaga poco. Soprattutto ho preso l’abitudine di incontrare gente verso l’ora dell’aperitivo. In realtà non posso soffrire gli happy hour. L’offerta fantasmatica di junk food che invade i banconi e la calca di ragazzotti che sgomita per ingozzarsi di patate fredde e maionese industriale, mi sembra contrastare con la filosofia lounge che dovrebbe essere alla base dell’atto dell’aperitivo. Il mio collega Fausto Brambilla mi spiega così, attraverso elementi tratti dalla sua diretta esperienza alcuni concetti teorici del lounge:
“In quest’ultimo periodo ho scoperto la musica lounge. L’ascolto sempre. A casa e in ufficio. Mi aiuta vedere con sguardo finalmente distaccato le peripezie atroci del mondo. Mentre indosso le cuffie, mi rilasso e ascolto i suoni siderali e algoritmici degli Air o di Claude Challe, mi sento finalmente me stesso. Mi piace lo stile minimale, essenziale, cool.
Il minimalismo: è il concetto che libera tutto dai fronzoli, dall’inutilità delle cose; minimale può essere un design spoglio e pulito. Oppure può essere anche un brano musicale, composto da suoni ricercati. E’ la filosofia del “poco, ma buono”.
Ma naturalmente non finisce qui: proprio quando la virata lounge verso l’eleganza e il relax sembra decisa, ecco che salta fuori il lato oscuro, la natura “robotica” che prende a tradurre tutto in numeri, in suono digitale frantumando la melodia in costellazioni sonore lunari. E’ una miscela altamente esplosiva di elettronica e retrò style. Le atmosfere sono regolate secondo un manierismo ed una raffinatezza calibrata alla perfezione. Direi che ci sono mille riferimenti da fare per capire la natura dell’ondata lounge. Dai Pink Floyd e tutta la scena progressiva inglese, passando per Gainsbourg e Miles Davis, oppure per Eno, i Kraftwerk e Jean Michel Jarre. Mi intendo parecchio di musica. Passo molte ore libere girando per il nuovo megastore della FNAC. Una autentica novità nel panorama della grande distribuzione discografica italiana. Soprattutto mi fermo nella sezione dedicata ai “Nuovi suoni”. Ultimamente ho acquistato un cd di Gak Sato ( una intrigante versione dell’acid jazz) e l’ultimo dei Gotan Project. Un esempio di come fare dance senza per questo far rumore. Mi fa impazzire la cover elettronica, in chiave etno-chic, del soundtrack di Last tango in Paris….
In tempi di paura e diffidenza, i club diventano luoghi per incontrarsi e riconoscersi con ambienti e arredamenti sempre più caldi. Preferisco le atmosfere appartate, più calde e più soft. Dove ci sia un contatto umano e si possa anche parlare.
Dopo l’undici settembre, dopo il terribile attentato terroristico contro le Twin Towers, è cresciuto il bisogno di vincoli più saldi. Lo avverto tra la gente che conosco e che frequento. La nightlife sta mutando rapidamente. I locali si rinnovano: musica a volume più basso, tinte chiare e più calde alle pareti, ambienti accoglienti, rilassanti. Me ne sono accorto subito.
Recentemente ho visitato parecchi posti. Facendo del vero e proprio cruising tra un posto e l’altro. L’ho fatto per motivi professionali. In quanto responsabile marketing della divisione e-business solution della mia internet company volevo organizzare un evento per presentare il nostro brand alla clientela più importante. Ho pensato subito di evitare di organizzare una manifestazione troppo chiassosa e pacchiana. Cercavo dei piccoli club, degli Hot Spot molto intriganti e avveniristici. Mi sarebbe piaciuto un luogo invaso dall’arredo in plastica e dalla moquette. Sul genere space age. Intanto ho visto parecchie location. Ho parlato con molta gente del mondo della notte. Ho capito perciò che sono privilegiati gli spazi in cui ci si può fermare per scambiare due chiacchiere senza l’ossessione della musica esagerata. Mi immagino: zone di decompressione, privè riservati, salette orientali.
Pare che un tipo abbia pensato che il club migliore dovesse avere la forma di una moschea. Hanno rinunciato soltanto perché pensavano che questa scenografia potesse offendere la sensibilità religiosa musulmana!”
La scoperta del cosmo lounge da parte mia è stata progressiva. Ad esempio credo sia utile riferire questo episodio. Nelle sale opulente e fantasmagoriche della trendy-disco Atlantique si annuncia un evento. Hugh Hefner, ovvero il leggendario fondatore di Playboy, vi festeggerà il settantacinquesimo compleanno. Fiorucci è il grande anfitrione, è lo sponsor che elargisce i quattrini per il party dedicato al più grande puttaniere del secolo. Hefner, infatti, se la passa male da tempo e non ha più il becco di un dollaro. Per ragioni professionali sono costretto a mobilitarmi, andando al di là dei miei evidenti limiti di indolenza congenita e, penetrando le trincee inverosimili di schiere nerborute e multietniche di buttafuori, sono costretto a presenziare e indagare sull’happening meneghino. Vi racconto, con l’occhio un po’ da outsider e un po’ da spione, la vera tragica storia del compleanno del Canuto Pornocrate e delle sue conigliette al silicone. L’apogeo e il crollo del più grande magnate del sesso, dell’artefice assoluto dell’immaginario sessuale del Novecento, del profeta del consumismo erotomane: Un giovedì notte a Milano. Piovoso, quasi burrascoso. Arrivo puntuale all’inizio delle danze alla discoteca chic Atlantique per assistere ai festeggiamenti del settantacinquesimo compleanno di Hugh Hefner. Lo sponsor è Elio Fiorucci, che vuole utilizzare il marchio di Playboy per lanciare delle magliette. La folla fa ressa davanti agli ingressi angusti del Tempio. Una promessa di mondanità è al di là dei cancelli ancora chiusi della discoteca. All’interno un nugolo di vip privilegiati stanno gozzovigliando in attesa dell’arrivo del Pornocrate e delle sue sette fidanzate improbabili. La massa è imbestialita, tutta la Milano Nottambula vuole partecipare all’apparizione del Demiurgo del Sesso. Tutti vogliono strabuzzare le pupille davanti alle nuove Playmate al silicone. Tra la gente scorgo Maurizio Pistocchi sbraitante al telefonino. Poi ancora una ex-Velina stagionata. Finalmente riusciamo a imbucarci, benché provvisti di regolare accredito. Ma la corsa a ostacoli verso il paradiso della Celebrità non è finita. Anzi. Pochi metri e un nuovo cordone sanitario è eretto in difesa dell’Abbuffata. Tra gli astanti della cena noto Daniele Vimercati, il conduttore della trasmissione politica Iceberg ( tristemente scomparso l’anno seguente) e il musicista attempato Mario Lavezzi. Nel frattempo una marea umana di modelle strafighe, affannati viveur, presunti buoni partiti, e villani granosi si accalca sulla pista del locale. Sopra i Vip, sotto una massa bestiale e infoiata di appartenere alla Razza Padrona della società dello Spettacolo. Ci sarà Berlusconi jr? Ci sarà il Valentino di Striscia? Ci sarà Flavia Vento? Boh. Qui non si vede nessuno. E fa un caldo bestiale. A un certo punto mi viene incontro Leone di Lernia che digrigna il suo sorriso famelico. Mi chiedo: qui è il Paradiso o l’Inferno?
Dopo Mezzanotte arriva il fatidico momento. Si illumina il palcoscenico. Arrivano le Conigliette. E il lupo mannaro incartapecorito, ovvero il cereo e mortuario Hugh Hefner. Si scatenano i paparazzi. In mezzo a calci e spintoni cerchiamo di immortalare il non-evento. Il pingue Fiorucci cerca di rubare la scena a Hefner. In tutto venti minuti di flash e torte chilometriche. Poi il Pornocrate scompare. la folla rimane attonita. Cominciano le danze. Ma nessuno ne ha voglia. Delle vestigia erotiche di Playboy non rimane alcuna traccia. Hugh Hefner è stato il fondatore del principale mito pansessuale moderno. Nel 1948 inventa Playboy. Ma non è solo la creazione di una rivista di enorme successo. Hefner è stato l’artefice tra gli anni cinquanta e settanta di un universo parallelo, popolato di Veneri generose e materne. Hefner intuì che la spinta consumistica americana non si arrestava a frigoriferi e automobili, ma anche al Sesso. La società puritana U.S.A. si trasformava in un gigantesco paradiso artificiale edonistico. L’immortale logo della Coniglietta di Playboy divenne il simbolo del sesso vissuto come relax e intrattenimento, privo di mistero e di prurigini peccaminose. Hefner bandisce la perversione, esalta il momento ludico. L’ideale femminino della società affluente americana è cremoso e nutriente, e le donne di Hefner sono innocenti, giulive, inebetite.
Il sesso diviene un’operazione di brand. Il marchio Playboy una garanzia di affidabiltà e di entertainment. Nascono i favolosi club Playboy dove i petrolieri texani e gli intellettuali del Greenwich Village pranzano voluttuosamente, coccolati affettuosamente, senza lascivie, da burrose cameriere agghindate da Conigliette. E’ il Wonderland dell’immaginario erotico, l’erosfera infantile realizzata.
Questo mondo, nello stesso tempo ingenuo e sofisticato, resiste fino all’avvento dell’Hardcore. Il mercato selvaggio della videocassetta e delle cable-tv penetra capillarmente nei desideri americani. La perversione torna dominare la libido insoddisfatta del popolo yankee. Le riviste patinante finiscono nella pattumiera. Hefner abbandonerà la guida del suo impero. Prenderà le redini dell’impresa la figlia. Ma la pargoletta del pornocrate è priva della fantasia delirante del papà. Cominciano i guai. La Playboy Mansion, ossia il Castello del sesso edificato in base alle follie dell’imperatore, deve essere venduta. Le feste orgiastiche con playmates e divi del cinema finiscono. Hefner rischia di diventare povero in canna. Finirà col chiedere i soldi della festa di compleanno allo stilista Fiorucci.
Dopo un paio di mesi ero in Sardegna. Su un isola. L’isola di S.Pietro. Era buio. Eravamo nel cuore del mediteraneo. Faceva molto caldo. Avevo cenato: antipasto di musciame e ventresca, dentice arrosto con insalatina mista, gamberoni alla griglia. Non prendo mai il dolce. Avevo bevuto parecchio. Mi trovavo in compagnia di gente che conoscevo poco. Molti romani. A Milano non ci sono romani. Parlavano di argomenti il cui filo conduttore mi sfuggiva. Non erano benestanti. Stavano investendo i loro magri quattrini nella villeggiatura in quest’isola situata agli antipodi della Costa Smeralda. Si vantavano di fare scelte controcorrente. Non facevano parte della legione chiassosa e bruta dei turisti che sognavano di forzare l’entrata dello Smaila’s o del Billionaire. Amavano le gite al faro e le immersioni in apnea, il mirto del contadino e il contatto primigenio della pelle con la roccia preistorica. Un mattino si erano cosparsi tutto il corpo d’argilla. Erano nudi, ma rivestiti del prezioso impiastro. Erano vulnerabili, ma orgogliosi di far parte di un luogo paradisiaco. Non erano innocenti. Lo sapevano.
Dopo la cena, decisero che era venuto il momento. Volevano farmi conoscere il lato notturno dell’isola. Mi proposero di seguirli. Lo feci. Svogliatamente. C’era una profonda insenatura, che scavava una specie di piccolo fiordo. Una flora marina mostruosa viveva sotto il pelo dell’acqua. Non c’era luce. Camminavo cieco, mentre una leggera brezza saliva da est. Ero stordito appena dal vino bianco: Vermentino secco, non di gran qualità. I romani si fecero sempre più baldanzosi. Usavano espressioni incaute, condite dal loro gergo. Non facevano troppo caso alla mia presenza. Per il momento.
Un locale improvvisato, che si apriva come un misterioso e bizzarro fiore selvaggio, stava aprendo i battenti. Era ancora deserto. Per un attimo, il luogo illuminato mi era apparso come un riparo ai fastidi incombenti della nottata. Non potevo far ritorno indietro. Non sapevo a che ora avrei fatto ritorno alla villa dove mi aspettava la mia consorte dormiente e la famiglia che ci ospitava. Ci venne incontro un uomo sulla quarantina. Era alto e barbuto. Indossava un copricapo indio. Raccontava di essere reduce da un soggiorno di parecchi mesi a Bahia. In una tanica di benzina custodiva un’ingente quantità di cachaca artigianale. Quel nettare esclusivo sarebbe bruciato nelle viscere di uomini e donne. Per tutta la notte. Mi accorsi che stava per cominciare una tragica sessione. I legami che univano apparentemente la comitiva romana stavano per essere scissi. Eravamo tutti soli. Perduti nel cuore cattivo che batteva sordamente nel mezzo del Paradiso Perduto dell’Isola. Il suono degli altoparlanti stereofonici assomigliava al playback di una paurosa e incontrollata tachicardia. Avevo paura e sudavo, benché non fosse ancora accaduto nulla. Il barman preparava file di caipirinha. Anch’io cominciai a sorseggiarne una. Cominciarono le danze. Giovani della popolazione autoctona sarda accorrevano a quel triste capezzale di anime ferite e barbare. Una donna della nostra comitiva si mosse verso la pista. Aveva più di quarantanni. Il corpo era pesante. Appariva ancora florida, ma era sull’orlo estremo, appena declinante, della fioritura. Come se il mattino dopo, col sorgere del sole, il suo Sesso poteva morire senza una ragione. Era sguaiata. Attirava le attenzioni moleste della gioventù locale. Adesso erano in molti sulla pista. Mentre ero distratto dall’osservare i traffici dello Pseudo-Indio, venni afferrato per una mano. Un’altra matrona della comitiva romana mi costringeva a partecipare al meeting danzante. Ballavo con lei,mentre accanto a me si stringeva un cerchio di sguardi predatori, che la desideravano senza tregua. Ero al colmo dell’imbarazzo. Volevo fuggire e lasciare che gli stupri invocati potessero far il loro corso, sotto lo sguardo inebetito e partecipe dei mariti bolsi e sadici che avevano deciso la kermesse. Feci in tempo a svanire dai giochi che si svolgevano in quell’arena. Mi rimisi a bere caipirinha.
Fui interrotto dal mio torpore. Una donna più giovane del gruppo di avventori coi quali avevo condiviso le sorti di quell’incursione notturna mi chiese di assaggiare una sconosciuta pozione che stringeva tra le mani. Un bicchiere enorme, colmato da una dose di innocente coca-cola, ma che nascondeva al fondo invisibile dei segreti narcotici. Feci un sorso. Il cocktail era dolcissimo, privo delle punte acide del limone. “L’Indio ha appreso questa ricetta ad Acapulco. Nessuno sa come viene preparata. E’una bevanda sacra. La religione che fondava i propri riti su questa miscela è sprofondata nell’oblio. I discendenti di quella misteriosa etnia hanno perduto il loro senno nell’alcool. Alcuni sono sopravvissuti. Hanno lavorato come camerieri nei resort esclusivi della baia messicana di Acapulco. Negli anni cinquanta mentre un idolo delle folle americane, il celebre tuffatore, che per conto di un ristorante, s’immergeva dopo un volo perpendicolare e rischiosissimo di 90 metri, nelle acque del mare, sfruttando l’innalzamento momentaneo del livello dell’oceano, grazie a un’onda anomala, i camerieri indigeni preparavano cocktails narcotici per gli astanti. Gli spettatori precipitavano momentaneamente in uno stato incosciente. Potevano riprendere il controllo dei propri pensieri solo dopo che il tuffo era stato eseguito. In questo modo il tuffatore non era disturbato nella propria concentrazione.
Il nostro Indio ha carpito il segreto di questa oscura tradizione. Lo ha fatto una sera ad Acapulco, mentre si prestava alla fornicazione con un’amante attempata. Avrebbe dovuto sfilarle un pacchetto di dollari, contenuto nell’elegante borsetta depositata sul comodino, ma fu distratto dal racconto post-coitum del’anziana signora. Lei stava per morire di un male incurabile. Voleva che la tradizione continuasse. Nell’oscurità. Decise di affidare la ricetta all’amico che si trova tra noi stasera. L’indio adesso vuole conoscerti. Vieni….” Persi conoscenza. Non ho mai saputo se parlai effettivamente con l’Indio. Mi ricordo che a un certo punto avevo freddo. Ero immerso per metà nell’acqua bassa e trasparente di una caletta. Erano le cinque del mattino. Ero nudo. La comitiva romana gioiva della visione luminescente del plancton che brillava sul fondo ospitale del mare. Me la svignai in fretta da quel gelido bagno e cercai i miei vestiti. Ero indispettito. Avevo un sonno profondissimo. Dopo un’ora ero a casa. Tutti dormivano. Rimasi a letto per tutto il pomeriggio seguente.
L’autunno comincia. Parlai con Brambilla. Parlai della Sardegna. Parlammo dei party. Ero profondamente deluso delle mie vacanze. Fu durante un aperitivo, dopo aver bevuto due eloquenti Horse’s neck, un drink classico degli anni trenta, che cominciammo a progettare un viaggio a Las Vegas. Ne discutemmo per un mese circa. Il ponte dei Morti era l’occasione propizia. Convinsi mia moglie a lasciarmi partire da solo. Le spiegai che avrei frequentato i casinò e visto un paio di spettacoli: un vecchio interminabile sogno che si stava per realizzare.
Sono due giorni che siamo a Las Vegas. Siamo nella sala Lounge dell’hotel The Venetians. Passiamo il tempo. Camminiamo per ore, lungo la Strip. Entriamo e usciamo dai casinò. Dormiamo poco. Alloggiamo in un ranch a due passi dalla città. Pranziamo in Steak House demodé, beviamo Tequila Sunrise già a mezzogiorno. Fa freddo. Il buio arriva presto in posti strani come questi. Visitiamo gli Hotel. Vaghiamo al loro interno. Sento di trovarmi in un antro comodo e ospitale. Le ragazze sorridono spesso e ti invitano nelle loro camere. Un blowjob costa 50 dollari. Io e Fausto non siamo interessati. Non siamo qui per questo.
Mentre cammino, penso a Sammy Davis Jr. Era un negro satanista e fu amico di Sinatra. L’ultima esibizione di Sinatra con Dino e Sammy fu tristissima. Dean Martin era depresso. Frank non voleva ammetterlo e lo costringeva a fare sempre le solite battute. Ma non c’erano ragazze ad aspettarli nelle loro penthouse quando lo spettacolo era terminato. Erano soli.
Il Rat Pack aveva dominato la scena di Las Vegas. Sam Giancana era loro amico e ammirava quello che sapevano fare. Sinatra fu processato per mafia. Dean Martin era sempre in forma perché si manteneva sotto spirito. Per esempio: Dino fu costretto a disintossicarsi dall’alcool. Non poteva bere. Mise allora il bourboun in piccoli sacchetti di plastica trasparente. Mise i sacchetti nel freezer. Aspettò una notte intera. Al mattino aprì il frigo, estrasse i piccoli contenitori di whisky. Cominciò a sorbirli. Erano diventati ghiaccioli. La sera i ghiccioli erano terminati. Dino aveva il fegato fradicio di bourbon. Dino esultava, mentre Sinatra era compiaciuto. Ricordava come, durante i primi show in coppia con Jerry Lewis, scendesse giù dal palco. Si avvicinasse ai tavoli e tracannasse direttamente dagli highballs- colmi di ghiaccio e rye whisky- che i clienti avrebbero pagato al termine della splendida serata.
Sono seduto in cima a uno sgabello alto 70 cm. Sto bevendo un Planter’s Punch. Il rum è di ottima qualità. In questo albergo sono presenti alcuni capolavori decisivi dello sviluppo artistico del Novecento. Molti sono invisibili. Sono appesi alle pareti di stanze destinate al pubblico più facoltoso. Il quadro più caro della terra si trova qui. Si tratta di un’opera di Cézanne. Poco fa ho visto dei corsi d’acqua artificiali. Alcuni chicos tarchiati e muscolosi remavano su gondole. Sono stato su una gondola una sola volta. Per attraversare un canale. Il tragitto è durato pochi secondi.
I paesaggi veneziani ricostruiti in questo luogo mi ricordano le ambientazioni di Otello: la versione di Orson Welles. Venezia sembrava possedere un’architettura moresca e spiritata. Il paesaggio urbano era schiacciato. Lo sguardo costeggiava costantemente degli angoli. La visuale era ingombra. Come se gli edifici precipitassero direttamente nell’occhio. Rivedevo la laguna, stagnare tra i casinò dell’albergo. Vedevo il traffico delle imbarcazioni che scivolavano tra le insenature del monumento commerciale alla civiltà veneziana. L’atmosfera era liquida, ma deumidificata. L’incoscienza regnava negli spazi esterni.
La presenza di Fausto mi era estranea. Non mi ricordava nulla della mia vita precedente. Era un conoscente. Non amo le amicizie. Apprezzo, al contrario, la mancanza di intimità che caratterizza i rapporti umani superficiali. Fausto era diventato molto serio. Nel corso di quei due giorni la conversazione si era progressivamente rarefatta. Non avevamo più bisogno di parlare. Capivamo tutto: l’uno dell’altro. Almeno lo credevo.
Eravamo immersi in silenzio assoluto. La scena intera del Lounge-bar era priva di elementi sonori. Il background acustico: una elaborazione orchestrale di Walter Wanderley di una bossanova. La voce solista era di Astrud Gilberto. Cantava lo standard Beach Samba. Nessun rumore era percepibile, solo il suono della musica. Il sottofondo emerge. L’ambiente invade il sistema. La natura ricrea il proprio spazio nel cuore della mente. Smisi di pensare. Avevo perso il contatto con Fausto. Era sparito. Ruoto su me stesso, giro in fretta e senza fine sull’asse del mio sgabello. E’ un vortice profondissimo.
Fausto salta per aria. Nascondeva nelle tasche interne della giacca e del cappotto un certo quantitativo di tritolo. Il suo corpo balza in cielo per 20 metri, finisce steso spiaccicato. Alcuni dicono avesse pregato prima di morire. Poche parole in latino. Furono dette con rabbia. Era venuto per dividerci. Per spaccarci il cuore. Ci furono quindici feriti. Un morto francese.
Era fatta. Fausto era morto come un kamikaze. Lo aveva fatto per dei motivi incomprensibili. Ma era tutto inspiegabilmente chiaro. Sono passati sei mesi. Sono tornato nella sala Lounge dell’Hotel The Venetians. L’albergo è deserto. I clienti hanno paura. Adesso sono solo. Sto cantando a bassa voce. Canto: Bim, Bom/Bim Bom…. la musica è finita, gli amici sono tutti morti. E io canto. E’ primavera e canto. Voglio cantare.