di Franco Pezzini

Un po’ più di duecentocinquanta anni fa, la vigilia di Natale, una tipografia privata dà alle stampe quasi alla chetichella un piccolo libro destinato però a recare nella narrativa l’effetto di un terremoto. O piuttosto di una valanga, visto che – sia pure in modo in gran parte indiretto – muterà il modo di leggere e di scrivere, e influenzerà a livello profondo attraverso la filiazione di un intero ventaglio di generi il modo di sognare della modernità.

A vedere una delle cinquecento copie di quella prima edizione, di primo acchito non si direbbe un testo tanto esplosivo. Sfogliandolo, troviamo anzitutto un frontespizio in carta giallina che annuncia sornione:

 

THE

CASTLE of OTRANTO,

A STORY.

Translated by

WILLIAM MARSHAL, Gent.

From the Original ITALIAN of

ONUPHRIO MURALTO,

Canon of the Church of St. NICHOLAS

at OTRANTO.

LONDON:

Printed for THO.[mas] LOWNDS in Fleet-Street.

MDCCLXV

 

In realtà 1764, ma essendo la vigilia di Natale lo stampatore può portarsi avanti; quanto a Thomas Lownds è effettivamente un attivissimo bookseller d’epoca, con sede presso Salisbury Court, appunto in Fleet Street che già allora è la via della carta stampata. Notiamo poi l’etichetta – l’ambiguo “a story”, a suggerire genericamente una narrazione – e gli altri due nomi citati, del gentiluomo William Marshal presentato come traduttore, e del canonico Onuphrio Muralto della chiesa di San Nicola a Otranto che risulta l’autore della storia.

Procedendo nell’esame, troviamo una prefazione di alcune pagine: priva di firma, è vero, ma il tenore la attribuisce in modo univoco al gentiluomo Marshal. L’opera è stata rinvenuta, ci informa,

 

nella biblioteca di un’antica famiglia cattolica, nel nord dell’Inghilterra. Venne stampata a Napoli, in caratteri gotici, nell’anno 1529. Quanto tempo prima fosse stata scritta, non è specificato. I principali avvenimenti sono quelli in cui si poteva credere nei tempi più bui della cristianità, ma il linguaggio e la redazione non hanno nulla che sappia di barbarico. Lo stile è l’italiano più puro.

 

Si tratta insomma un avvio erudito che rende conto del luogo di ritrovamento, della data di stampa – a Napoli e nel 1529 –, del problema della data di redazione e di quello della datazione dei fatti, evidentemente assai più antichi di quanto il raffinato tenore letterario possa denunciare. E in queste poche righe già emergono due dimensioni fondamentali dello sguardo rivolto da Marshal al documento. Da un lato c’è l’approccio colto, pacato e ragionevole del filologo, che sottolinea l’interesse culturale di un testo in termini adulti e intrigantemente problematici, al di là di ogni ingenuità ravvisatavi. Ma dall’altro, più implicitamente, troviamo la fascinazione di una distanza culturale (l’antica famiglia cattolica, l’esotico set italiano) declinata attraverso un sistema di cornici che sfuggono sempre più indietro nel tempo: all’elemento concreto dell’edizione seguono infatti quello discutibile di epoca e contesto di stesura, e l’altro misterioso di una collocazione storica almeno virtuale degli eventi narrati. Cornici che finiscono col determinare una sostanziale incontrollabilità, e patteggiano col lettore una qualche sospensione dell’incredulità – uno stare al gioco che apre al visionario e all’improbabile.

Non procediamo oltre – almeno in questa sede, la lettura meriterebbe – nell’esame della prefazione: anche perché nella seconda edizione (11 aprile 1765), sempre stampata dalla Strawberry Hill Press con la dicitura “Printed for William Bathoe in the Strand and Thomas Lownds in Fleet Street”, le cose appaiono molto diverse. Il frontespizio sottotitola ora infatti “A Gothic Story” e soprattutto fa sparire i nomi dell’ottimo Marshal e di Onuphrio Muralto. Non è uno sgarbo: il fatto è che il traduttore gentiluomo non è mai esistito, non è mai esistito neppure il presunto canonico e il testo non costituisce una filologica traduzione da un originale cinquecentesco italiano, ma un romanzo gotico – il primo etichettato per tale, anche se l’aggettivo non ha ancora il senso che oggi gli attribuiamo e si riferisce al contesto medievaleggiante. A vararlo con approccio da brillante semiologo è, scopriamo, un esponente del bel mondo inglese, Horatio o Horace (come è più noto) Walpole, uomo di lettere e storico dell’arte, antiquario e politico del partito Whig, e in seguito quarto conte di Orford; un signore nato il 24 settembre 1717 – secondo almeno l’old style del calendario britannico, all’epoca quello giuliano, volto poi dal 1752 con l’aggiunta di undici giorni al calendario gregoriano – e che morirà alla fine del secolo, il 2 marzo 1797, dopo aver assistito ad almeno una parte del drammatico travaglio tra due epoche.

Figlio dell’importante politico Sir Robert Walpole – il primo a incassare il titolo di Prime Minister of Great Britain – Horace si era trovato compagno a Eton di tutta una squadra di ingegni vivaci, organizzando anzi due gruppi di interlocutori per coltivare i comuni interessi in arte e letteratura, la Quadruple Alliance e il Triumvirate. Tra questi amici spicca fin d’ora il futuro poeta e storico Thomas Gray, che Walpole ritrova nei successivi studi a Cambridge e con cui negli anni 1739-1741 vive l’esperienza classica dei rampolli del bel mondo, il Grand Tour: i due a un certo punto litigano malamente – Walpole biasimerà in seguito con umile saggezza la propria responsabilità giovanile nell’accaduto – e solo nel 1745 riprenderanno i contatti. Citare il Grand Tour in questo contesto, come vedremo, non rappresenta solo un dato biografico o di costume, per quanto culturalmente significativo: è legittimo pensare che quel viaggio di tanti anni prima lasci precisi strascichi nella fantasie papiste di The Castle of Otranto.

Rientrato comunque in patria, con l’appoggio del padre Horace è eletto in Parlamento, e vive con una rendita; ma al ritiro dalla scena politica dell’augusto genitore, 1742, deve seguirlo a Houghton, nel Norfolk, dove combatte la noia scrivendo lettere – l’ha sempre fatto e lo farà sempre, producendo una massa epistolare imponente e di piacevolissima lettura – e catalogando i quadri di famiglia. Dove l’attenzione ai quadri è certo quella del cultore d’arte, assetato di una bellezza che inseguirà tutta la vita; ma insieme, in termini assai più liberi e visionari, quella di chi forse ha coltivato fin da piccolo, con febbrile fantasia, la suggestione per gli spettri in cornice che tutto paiono occhieggiare, poi vaganti nella sua opera più celebre.

Tre anni dopo, 1745, Sir Robert Walpole muore lasciandogli il conforto economico di varie patenti regie e sinecure; e Horace, che l’anno dopo affitta una piccola casa a Windsor, nel ’47 decide di trasferirsi a Twickenham – ai nostri giorni un rione del quartiere londinese di Richmond upon Thames nella Greater London, all’epoca un’area di campagna – affittando il cottage cui attribuisce il nome di Strawberry Hill. In quell’anno pubblica anche come prima opera proprio il catalogo dei beni artistici di famiglia, con il titolo Aedes Walpoliana; l’anno seguente fa apparire tre sue liriche in una raccolta, ma soprattutto avvia la pratica di acquisto di Strawberry Hill – che nel 1749 inizia a restaurare trasformandola in un incredibile castelletto gotico. Visitarlo oggi, con restauri letteralmente ricostruttivi in corso, e che restituiscono (si perdoni il bisticcio) il genuino senso di fasullo dell’originale, è un’esperienza di straordinario fascino.

I ritratti di Walpole – numerosi – ci restituiscono un volto intelligente e arguto, meditabondo e a volte birichino. Da quello della pittrice veneziana Rosalba Carriera, circa 1741, che lo vede elegante ventiquattrenne in giacca di gala, un po’ sostenuto e ironico; al più famoso dei ventisei dedicatigli dall’artista anglotedesco da lui protetto John Giles Eccardt, circa 1755, che fotografa quei suoi grandi occhi pieni di curiosità, la bocca piccola, la mano sinistra posata su un libro come quella di un condottiero sulla spada, e l’aria più matura dei trentott’anni di anagrafe – con uno scorcio di Strawberry Hill alle spalle sulla destra. Fino al ritratto forse più frequentemente associato al suo nome, del 1756 per mano del grande Joshua Reynolds: di tre quarti in abito scuro, con gli amatissimi progetti davanti. La vivacità – ma non l’intelligenza – si appanna semmai nei ritratti più tardi, come il bozzetto di Thomas Lawrence, circa 1795, due anni prima della morte di Walpole: ma quei giorni sono, a questo punto della nostra storia, ancora lontani.

Mentre tra studi e arricchimenti (vetri lavorati, porcellane, quadri, armature) dirige i lavori per la villa dei suoi sogni, Horace non dismette comunque le passioni letterarie. Con lo stile frizzante che lo caratterizza contribuisce a una rivista londinese, ‘The World’ – raccontando per esempio la sua disavventura con l’highwayman John Maclean, che nel 1749 ad Hyde Park (zona all’epoca pericolosa) lo deruba e quasi l’ammazza. D’altra parte nel 1757 il Nostro impianta a Strawberry Hill, in un edificio separato dalla villa, anche una stamperia inventandosi editore (Officina Arbuteana, o The Mayflower Workshop), e pubblica per prima cosa due poemi dell’amico Gray. Per quelle presse appariranno negli anni, insieme a opere di altri, una serie di lavori a sua firma, a partire dal Catalogue of the Royal and Noble Authors of England, with Lists of their Works, 1758. E sempre lì appunto, la vigilia di Natale 1764, è stampato The Castle of Otranto, scritto in meno di due mesi: però Walpole, preoccupato dei giudizi critici che in fondo traducono le opinioni di un pubblico ristretto in grado di sborsare tre scellini per un libro, lo fa passare come detto per una traduzione dall’italiano.

In seguito, in una lettera all’amico reverendo William Cole (9 marzo 1765), il Nostro ricorderà che a monte di tutto vi era stato un sogno: inaugurando così una tradizione che attraverso Mary Shelley, Bram Stoker (almeno si favoleggerà) e naturalmente Lovecraft associa la genesi di opere orrifiche all’eruzione di fantasie oniriche – stimolate, ovviamente, da letture e passioni. Certo in The Castle si possono intravedere, fin dalla prefazione, alcune connessioni con fatti e rapporti della vita di Walpole: Napoli, presentata come luogo di stampa dell’opera e destinata a diventare in prosieguo una delle più celebrate location del gotico, era stata la tappa estrema del suo Grand Tour; la “ancient Catholic family” presentata nella prefazione quale detentrice dell’ipotetico originale italiano può essere la famiglia Percy, quella di Sir Hugh primo duca di Northumberland che Walpole dovrebbe conoscere; e così via. Anche se più intriganti sono in fondo le connessioni con la vita interiore, quelle appunto che il sogno trasfigura e suggella.

Ma in queste primissime pagine del testo che abbiamo davanti sedimentano anche altre provocazioni. Anzitutto il fatto che il primo romanzo gotico nasca nel segno dell’apocrifo: un finto vero, insomma, che si presenta come gioco erudito e che figlierà una lunga serie di epigoni, compreso l’Anonimo manzoniano – e idealmente fino al finto vero di età postmoderna. Dove il divertimento colto, complice il teatro – particolarmente quello elisabettiano coi suoi spettri e le tinte forti – gioca però con la messa in scena di emozioni anche molto facili, diremmo popolari: e in effetti l’opera di Walpole, con l’Otranto/Disneyland di un medioevo farlocco pieno di servi fifoni e tunnel degli orrori, fantasmi e prodigi, rappresenta l’antenato ideale dei generi popolari moderni, in prima fila horror e scritture di “sensazione”.

E ancora: il presunto autore, ricordiamo, si sarebbe chiamato Onuphrio Muralto, e sarebbe stato canonico della chiesa di san Nicola – la stessa chiesa che vedremo fin dall’inizio coinvolta nelle prodigiose vicende narrate, quasi un’estensione del castello che scopriremo contiguo. Ma a sua volta il cognome Muralto evoca visivamente la gran massa dell’arcicastello, le sue alte mura ripiegate sul cortile di eventi spaventosi, attraversate da passaggi segreti, labirintiche nell’alludere ai rovelli dell’eroe nero protagonista. È insomma un narratore-castello quello che confida i suoi tremendi segreti, con un occhio alla corte di Manfred e un altro alla chiesa vicina: dove l’edificio rappresenta una sorta di calamita dell’attenzione del lettore ben oltre le bizzarre, non sempre trascinanti vicende di trama, e in rapporto di compenetrazione ideale con il mattatore Manfred. Una sorta insomma di ossessione architettonica per quel Walpole che a sua volta si costruisce attorno il proprio castello d’Otranto nell’altrettanto fasullo medioevo di Strawberry Hill.

In seguito comunque al subitaneo successo del testo, sei mesi dopo Horace lo ripropone in seconda edizione con la propria firma: e nella nuova, ampia prefazione, Walpole si scusa con i lettori per l’inganno dell’apocrifo – motivato unicamente, chiarisce, da scarsa fiducia nelle proprie capacità e dal carattere sperimentale dell’approccio. E tuttavia, forte della buona accoglienza con cui il pubblico ha voluto premiarlo, spiega: “Il mio è stato un tentativo di fondere i due tipi di romanzo: l’antico e il moderno”, il primo (gli ormai illeggibili romanzi fantastici seicenteschi di origine francese) all’insegna dell’immaginazione, il secondo (la fortunata linea di Defoe, Fielding, Richardson) di aderenza alla realtà e imitazione della natura. Conciliare i due generi, come lui ha inteso fare, ha comportato da un lato di lasciar libero corso all’immaginazione, e dall’altro il “dirigere i personaggi della sua storia secondo le regole del verosimile” facendoli “pensare, parlare e agire come avrebbero fatto uomini e donne comuni, messi in situazioni straordinarie”. Mentre negli scritti ispirati i beneficiati dei più straordinari fenomeni

 

non perdono mai di vista la loro natura umana, […] nelle storie fantastiche un evento improbabile è sempre accompagnato da un dialogo assurdo. Si direbbe che, al venir meno delle leggi della natura, i personaggi perdano la capacità di ragionare

 

– osservazioni che costituiranno in fondo un ammonimento perenne a chi intenda scrivere narrativa fantastica. Anche se, leggendo The Castle, ci accorgiamo che l’argomentazione portata da Walpole a manifesto della propria operazione va interpretata al di là della lettera. Da un lato infatti il polo del fantastico sembra interessargli assai più dell’altro di realtà & natura; ma, d’altro canto, proprio l’inabissamento nell’onirico gli permette di richiamare porzioni di una realtà diversa, interiore e disturbante, di cui i narratori del fantastico delle generazioni successive proseguiranno l’esplorazione. In effetti, prosegue il Nostro, considerato il successo ottenuto, la sua scelta non pare inadeguata: e può a quel punto considerarsi soddisfatto se altri la faranno propria con doti migliori delle sue. Infine dedica l’opera con un sonetto “alla molto onorevole Lady Mary Coke”, scrittrice aristocratica sua amica ch’egli definisce qui in grado di apprezzare il suo scritto fantastico contro “le aspre rampogne della ragione”. Peccato che in altre fonti stigmatizzi la presunzione e la mancanza di ironia della signora, arrivando a definire poco carinamente lei e le sorelle “le tre furie”.

Per questa storia folle le cui immagini oniriche e sovreccitate fanno pensare al surrealismo (l’elmo incongruamente enorme che casca dal cielo affettando l’erede del tiranno sembra prefigurare Une semaine de bonté) il punto di partenza è come detto un sogno: la visione di una gigantesca mano armata di ferro, a metà tra le visioni teatrali degli spettri del Macbeth e gli accumuli di anticaglie da rigattiere per il castello fintomedievale dell’autore. Dietro il sogno, dunque, passioni e letture. Ma un’altra fonte determinante d’ispirazione, come detto, era stato tanti anni prima il viaggio in Italia durante il Grand Tour: e una certa tappa potrebbe avere avuto assai più peso di quanto gli studiosi di Walpole abbiano finora rilevato. Cioè quella di Torino, dove Walpole, passate le Alpi, ha un primo assaggio dell’Italia papista.

Per la sua posizione peculiare, Torino coi suoi alberghi è una tappa fissa per qualunque viaggiatore attraversi questa porzione della cinta alpina, dalla Francia o verso essa. A parte il giovane Mozart, che però non mirava a varcare le Alpi (1771) si pensi ai grandi viaggiatori-avventurieri del Settecento come Casanova (più soggiorni, 1761-1763) e Sade (1775); o ai viaggiatori fittizi come Alvaro di Le diable amoureux di Jacques Cazotte (1772) che vede una scena-chiave con la bella diavoletta consumarsi in un albergo torinese. Non è strano che anche Walpole passi di qui.

Da Torino infatti scrive all’amico Richard West (11 novembre 1739), che la sera prima si è recato ad assistere a una

 

specie di tragedia eroica, dal titolo La rapprentatione dell’Anima Damnata. Entra una donna, una peccatrice, e rivolge una preghiera solenne alla Trinità: entrano Gesù Cristo e la Vergine: lui la rimprovera, ed esce: lei dice alla donna che suo figlio è molto arrabbiato, ma lei non sa, vedrà cosa può fare. Dopo la rappresentazione siamo stati presentati all’assemblea, che chiamano la conversazione [in italiano nel testo]: c’era molta gente che giocava a ombre, faraone, e ad un gioco chiamato Tarocchi [“taroc”], con carte così alte [e nell’originale lo scrive allungando le lettere], in numero di settantotto.

 

Il che significa che Walpole s’imbatte a Torino non solo nei cosiddetti Arcani minori, cinquantasei carte nelle quattro serie di semi tradizionali (denari, coppe, spade e bastoni), ma nel mazzo completo coi ventidue Arcani maggiori. E, tra questi, in quella torre colpita dal fulmine che attraverso archetipi biblici e arturiani lui stesso riproporrà nel crollo finale del castello d’Otranto, consacrando la scena a topos gotico (da opere di Poe come Metzengerstein, 1832 e The Fall of the House of Usher, 1839, alle prime previsioni del Dracula che vedevano il crollo finale del castello).

Si noti poi che di quella “sort of an heroic tragedy” ci parla un altro degli inglesi presenti a Torino negli stessi giorni, il Reverendo Joseph Spence, in una lettera alla madre:

 

A dispetto dell’eccellenza degli attori, la maggior parte dello spettacolo era rappresentata per me dalle espressioni della gente nella platea e nei palchi. Quando i diavoli facevano per portar via l’Anima Dannata, tutti precipitavano in un’estrema costernazione; mentre quando san Giovanni si è rivolto a lei in modo tanto affabile erano lì lì per gridare di gioia. Allorché la Vergine è apparsa in palcoscenico, tutti hanno mostrato rispetto; e a diverse battute dagli attori si sono tolti i cappelli facendo segni di croce. Cosa puoi pensare di un popolo presso il quale persino le farse sono religiose, e vengono così religiosamente accolte? Fu da una rappresentazione come questa (intitolata Adamo ed Eva) che Milton, trovandosi in Italia, pare prendesse il primo suggerimento per il suo divino poema sul Paradiso perduto. Quali modeste origini ci sono talvolta per le più grandi cose!

 

A differenza però di Spence, interessato all’atteggiamento del pubblico, le (poche) battute di Walpole riguardano ciò che avviene sul palcoscenico; e il riferimento dell’amico al valore seminale di una simile rappresentazione per l’opera di Milton introduce un’intrigante questione. Visto che questo passo con anime, santi e vicende sovrannaturali si colloca all’inizio dell’epistolario di Walpole, è almeno lecito domandarsi se proprio tale passaggio a Torino non possa aver avuto un peso significativo per il gotico grottescamente iperdevoto e ipercattolico del Castello d’Otranto: qualcosa insomma come la prima scaturigine e il pulsante d’accensione – certo seguito da tutto ciò che il Nostro incontrerà in Italia, e da infinite letture e visioni successive – verso le fantasie sovrannaturalistiche del romanzo di un quarto di secolo dopo. Parafrasando l’ottimo Spence: “Fu da una rappresentazione come questa (intitolata La rapprentatione dell’Anima Damnata) che Walpole, trovandosi in Italia, pare prendesse il primo suggerimento” eccetera eccetera.

Questa torinese connection può non stupire. Certo altre città italiane verranno considerate set più pittoreschi per narrazioni gotiche: si pensi solo a Venezia o a Napoli, o appunto a quell’Otranto che Walpole sceglie per suono esotico del nome (per anni ignora persino che vi sorga un vero castello, lo scoprirà con sorpresa). Ma per esempio in The Orphan of the Rhine di Eleanor Sleath (1798), citata da Jane Austen tra le sette “horrid novels” nel suo ironico Northanger Abbey, parte della vicenda si svolge proprio a Torino, che nel Settecento mostra dunque un certo appeal gotico. Una tradizione che non sparirà nel secolo successivo, anche se messa in ombra da altre dimensioni simboliche. Fino a riapparire – sappiamo che il gotico è il linguaggio del rimosso che emerge, del simulato/dissimulato, di un teatro dai fondali illusionistici su ciò che siamo come individui e come società, sberleffi compresi – inaspettatamente negli anni Settanta del Novecento. E cioè con il mito affabulatorio, goticissimo della Torino magica: in fondo l’ennesima maschera, tra passati reinventati e brividi costruiti su incubi autentici, di un gioco iniziato una vigilia di Natale di duecento anni prima.

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