di Sandro Moiso
Liberare tutti i dannati della terra, prima edizione Lotta Continua 1972, ristampa 2015 reperibile presso le librerie di movimento, pp. 256, € 5,00
C’è stata una stagione fortunata in cui, parafrasando un romanzo americano di qualche anno fa, “ogni cosa era illuminata”.1 La coscienza di classe formatasi direttamente nell’esperienza delle lotte rendeva tutto più chiaro e non vi potevano essere fraintendimenti. Oggi, a quarant’anni di distanza, ricordarlo non è un’operazione di carattere nostalgico, ma un dovere. Un dovere militante, per ricordare alle generazioni più giovani che il diritto al sogno è strettamente intrecciato con le lotte che intendono abolire l’orrendo stato presente delle cose.
Questo libro, ristampato nel formato originale e con l’aggiunta di pochissime e brevi note introduttive da un gruppo di compagni che ancora si occupano di questioni carcerarie, è un frutto importante di quegli anni. Non per la sigla politica che allora lo accompagnò, ma perché costituiva il frutto di un lavoro diretto e politico sul carcere e nel carcere. Una raccolta di testimonianze dirette dall’interno dell’istituzione concentrazionaria per eccellenza. Come affermano i curatori: “non «un’inchiesta sul carcere» ma un rendiconto di un lavoro politico iniziatosi in modo sistematico nella primavera del ‘71”.
Nelle carceri italiane, tra la fine degli anni ’60 e l’inizio dei ’70, si erano andati incontrando i figli del proletariato e del sottoproletariato con i giovani studenti politicizzati che la repressione statale aveva accomunato. Molti dei secondi appartenevano alle file di Lotta Continua e, sotto un altro punto di vista, non importa se molti di loro, da lì a qualche anno, avrebbero radicalmente modificato la propria traiettoria politica. In quelle carceri erano però entrati nel frattempo lo spirito di rivolta e gli scioperi (inimmaginabili prima)che agitavano già le piazze, le fabbriche e le scuole.
Quell’esperienza contribuì a dar vita ad una Commissione carceri che, soprattutto a Napoli, avrebbe visto intersecarsi l’azione politica sul territorio e nei quartieri con quella sulle problematiche inerenti alla carcerazione e alle condizioni di vita dei detenuti. Spesso i soggetti coinvolti (proletari disoccupati, contrabbandieri di piccolo cabotaggio, sottoproletari che si mantenevano con i mille artifici che andavano dal mercato nero alla spaccata) transitavano con facilità da una condizione di libertà relativa a quella di detenuti.
In particolare, a partire dall’esperienza della mensa per i bambini proletari di Forcella, lì si sarebbe formato un nucleo di militanti che avrebbero poi dato vita, quando la leadership di Lotta Continua temendo di bruciarsi troppo le dita con gli zolfanelli della lotta di classe iniziò ad abbandonare le posizioni più intransigenti, alla prima esperienza di formazione armata destinata ad unire militanti provenienti dalla sinistra extraparlamentare con militanti di origine sottoproletaria formatisi nell’esperienza carceraria: i NAP, Nuclei Armati Proletari.2
Questa è una storia che, naturalmente, esula dalla recensione del testo in questione ma che, allo stesso tempo, sottolinea come produzione culturale, azione politica militante e riflessione teorica fossero all’epoca strettamente intrecciate e, spesso, a partire dal basso. Cosicché Marx non fu più soltanto un’icona da esporre sui tavolini da notte degli “intellettuali di sinistra” o da sbandierare per giustificare la propria estremistica inanità politica, ma un teorico attivo e vivente le cui parole, a più di un secolo di distanza animavano ancora le scelte di chi aveva provato sulla propria pelle la qualità dell’ordine e della legge borghese. Marx tornava così ad essere un’arma proprio nelle mani degli ultimi tra i reietti: i proletari detenuti.
“Un filosofo produce idee, un poeta poesie, un prete prediche, un professore manuali. Un delinquente produce delitti. Se si esamina più da vicino la connessione che esiste tra quest’ultima branca di produzione e l’insieme di questa società, ci si ravvede di tanti pregiudizi. Il delinquente non produce soltanto delitti, ma anche il diritto criminale e con ciò produce anche il professore che tiene lezioni sul diritto criminale e inoltre l’inevitabile manuale in cui questo stesso professore getta i suoi discorsi in quanto «merce» sul mercato generale. Con ciò si verifica un aumento della ricchezza nazionale […] Il delinquente produce inoltre tutta la polizia e la giustizia criminale, gli sbirri, i giudici, i boia, i giurati ecc. e tutte queste differenti branche di attività che formano altrettante categorie della divisione sociale del lavoro, sviluppano differenti facoltà dello spirito umano, creano bisogni nuovi e nuovi modi di soddisfarli. La sola tortura ha dato occasione alle più ingegnose invenzioni meccaniche, e ha impiegato, nella produzione dei suoi strumenti, una massa di onesti artefici. Il delinquente produce un’impressione, sia morale, sia tragica, a seconda dei casi e rende così un «servizio» al moto dei sentimenti morali ed estetici del pubblico. Egli non produce soltanto manuali di diritto criminale, ma anche arte, bella letteratura, romanzi e persino tragedie […] Egli sprona così le forze produttive”. (Karl Marx, Teorie del plusvalore, cit . a pag 5)
Un Marx sarcastico, impietoso, anti-romantico e provocatorio che sembra anticipare la critica situazionista del reale. Un Marx che rileva come crimine e capitale siano indissolubilmente intrecciati. Un Marx che, poche righe più sotto (non citate nel testo) avrebbe aggiunto: ”E abbandoniamo la sfera del delitto privato: senza delitti nazionali sarebbe mai sorto il mercato mondiale?” Tema che viene ripreso nel testo, decisamente orientato a sostenere come la delinquenza sia una componente essenziale del capitalismo. “Più un paese capitalistico è sviluppato ( e per paesi capitalistici intendiamo anche paesi come l’Unione Sovietica o la Polonia, perché lì c’è lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo come da noi), più la criminalità aumenta e le galere si riempiono. Infatti, negli Stati Uniti, la «criminalità» almeno a giudicare da quanto sono piene le prigioni, è la più alta del mondo. Perché la «criminalità», quella per cui si finisce in galera, è il frutto della miseria, dello sfruttamento, dell’oppressione e cioè del capitalismo” (pag. 9)
“La criminalità per cui si finisce in galera” sì, perché il libro, che si definisce come “un libro scritto dal proletariato”, non dimentica di sottolineare come i crimini del capitalismo, degli imprenditori, dei faccendieri, dei politici corrotti e dei servi dello Stato non siano mai puniti. Tanto meno con il carcere. Ma “i padroni si servono della delinquenza: additando al disprezzo delle masse, servendosi dei loro giornali, i poveracci, i manovali del furto, quegli sbandati che con la loro dottrina hanno instradato al crimine. Si rifanno così una verginità e abituano la gente a pensare che le uniche rapine, furti, omicidi sono quelli fatti da questi disperati «pistola in pugno» e no quelli che ogni giorno commettono con lo sfruttamento. Preparano l’opinione pubblica alla polizia che spara e uccide, condannando a morte senza processo, dietro il comodo paravento della «difesa della tranquillità dei cittadini»” (pag. 9)
L’attualità del testo è impressionante, soprattutto in un’Europa in cui le politiche securitarie e il giustizialismo populista sembrano essere le caratteristiche comuni sia dei governi che dei cosiddetti movimenti politici d’opposizione, dai 5 Stelle alla Lega. Così come sono ancora d’attualità i testi scritti nel e dal carcere da decine di militanti (tra i quali vanno segnalati Sante Notarnicola, Adriano Rovoletto, Piero Cavallero e Martino Zichitella) che ne sottolineano la brutalità, le torture, il disprezzo dei diritti più elementari che avvengono tra le sue mura, anche là dove sono presenti direttori che si ritengono “illuminati”. Richiedendone così, più che una riforma sempre a sua volta rivedibile come ben dimostrano l’istituzione del carcere speciale e l’introduzione del 41 bis, l’abolizione definitiva insieme alla società che l’ha prodotto.3
Rendendo così possibile cogliere come il carcere possa costituire non solo un importante laboratorio per lo sviluppo di sempre più distruttivi metodi repressivi, ma anche uno straordinario e «privilegiato» osservatorio, una sorta di mondo rimesso sui piedi, da cui osservare la realtà ultima ed intima dei rapporti di classe. Proprio per questi motivi, in un paese in cui le forze del dis/ordine possono impunemente uccidere, sparare, torturare e picchiare e i suicidi tra i detenuti sono stati 32 dall’inizio dell’anno a fine agosto, la riproposizione di un testo come questo, senza bisogno di alcun aggiornamento, può avere ancora un effetto estremamente dirompente.
Jonathan Safran Foer, Ogni cosa è illuminata, Guanda 2004 ↩
E’ possibile ripercorrere la storia dei NAP attraverso i testi di Rossella Ferrigno, Nuclei Armati Proletari. Carceri, protesta, lotta armata, La città del sole, Napoli 2008 e di Valerio Lucarelli, Vorrei che il futuro fosse oggi. Ribellione, rivolta e lotta armata, l’ancora del mediterraneo, Napoli 2010 ↩
A questo proposito consiglierei la lettura di due importantissimi testi di storia dell’istituzione carceraria: Michael Ignatieff, Le origini del penitenziario, Mondadori 1982 e Dario Melossi e Massimo Pavarini, Carcere e fabbrica. Alle origini del sistema penitenziario (XVI –XIX secolo), Quaderni della rivista “La questione criminale”, Società editrice il Mulino 1977. Meno filosofici e meno conosciuti del più famoso Sorvegliare e punire di Michel Foucault. ↩