di Alberto Prunetti
AAVV, Nuova Rivista Letteraria, nuova serie, numero 1, maggio 2015
Nuova serie della rivista fondata da Stefano Tassinari. Il proposito è quello di seguire, mappare ed estendere i fenomeni sociali del presente, facendo della letteratura – declinata in chiave sociale, contro ogni proposito narcisistico – uno strumento per sgonfiare i racconti del potere e per allargare le faglie dei conflitti sociali. Scrivere insomma per alimentare le lotte sociali, in un’epoca in cui, come scrive Wolf Bukowski, parafrasando Brecht, anche parlare di alberi ha un valore politico. Il numero in libreria, monografico, è dedicato alle Grandi Opere Dannose Inutili e Imposte. Dalla Tav alle piccole e grandi opere inutili, spesso sconosciute, edificate per rovesciare cemento e sperperare soldi pubblici (facendoli guadagnare ai privati), mentre il dissesto idrogeologico del territorio non si combatte perché, come si dice, “non ci sono risorse”. Il numero è caratterizzato da un esemplare reportage narrativo di Wu Ming 1 che fa un paragone tra l’opera di Calatrava e la figura di Herzog. Alla fine, al lettore rimane l’impressione che Calatrava abbia il volto del Fitzcarraldo interpretato da Klaus Kinski (Herzog e Fitzcarraldo di grandi opere inutili se ne intendevano…). A oggi va segnalata l’ennesima opera estrattiva e”danniva”, come suol dirsi in Maremma: l’estensione degli impianti geotermici sul Monte Amiata, contro la quale i comitati ambientali si sono messi in moto, nella zona di Monticello (GR).
Serge Quadruppani, La politica della paura, sl, Lantana editore, 2013, pp. 146, euro 15, traduzione di Maruzza Loria
Un libro importante che torna attuale visto che le folate di emergenza securitaria riprendono a occupare le prime pagine dei giornali a ogni cambio di luna. Di recente c’è stato per esempio il “caso” dei rom assassini e prima, questioni di giorni, quello del “tunisino terrorista arrivato dai barconi”. Il libro di Quadruppani relativizza, mette in contesto, storicizza l’uso politico e mediatico della paura. Permette di capire chi sono gli imprenditori politici di questo gioco. Chi sono i capri espiatori e che gioco hanno nei meccanismi che producono pace sociale.
Al centro del saggio c’è la questione del controllo, diventata una forma di guerra preventiva contro la popolazione. I civili sono il nemico interno, soprattutto i poveri, gli abitanti delle periferie e dei ghetti, i migranti, i non assoggettati. Si tratta di un trend che è cominciato in passato: giustamente Quadruppani cita l’esperienza contro-insurrezionale degli squadroni della morte francesi in Algeria, che poi hanno fatto scuola nelle accademie di contro-insurgenza attive in America Latina, da Panama all’Argentina (e qui stupisce vedere che anche un film onestamente militante come La Battaglia di Algeri di Pontecorvo sia stato prelevato e digerito dal sistema autoritario che pretendeva combattere: in Argentina i dittatori lo usarono per spiegare come occupare militarmente le città, trasformate in orizzonti di guerra preventiva). Guerra che continua ancora oggi, se pensiamo che la polizia americana nei primi mesi del 2015 ha ucciso quasi 400 persone. Cifre da bollettino di guerra. Guerra contro la popolazione civile condotta da parte di chi dichiara, sugli sportelli delle automobili, di “proteggere e servire”. A ragione quindi Quadruppani, che è un attivista dell’ultragauche francese, sostiene che la teoria di Hobbes dello stato come garante dei cittadini è falsa fin nelle fondamenta: lo stato vive grazie al terrore che inocula nei cittadini. Aggiungerei: se li protegge, li protegge come un racket criminale. Esigendo l’obbedienza in cambio della protezione.
Un’ultima osservazione: il saggio di Quadruppani (che di mestiere fa lo scrittore di romanzi noir) è brillante e tagliente, nella migliore tradizione della critica radicale post-situazionista francese. Ha una visione della realtà conflittuale e critica. Domanda: quanti scrittori italiani di genere saprebbero scrivere con uno sguardo politico così acuminato?
Wu Ming 1, Cent’anni a nordest. Viaggio tra i fantasmi della “guera granda”, Milano, Rizzoli, pp. 272, euro 17
Un altro ibrido di Wu Ming 1 che estende un reportage narrativo scritto per Internazionale e soprattutto affina un ambito di ricerca coltivato a lungo su Giap, da lui e da un collettivo di ricercatori e lettori. Tanta carne al fuoco… eppure tout se tient. Eccome. Il nordest, la grande guerra, Trieste, i Balcani, la rimozione storica del colonialismo italiano. E poi il rossobrunismo e la fascinazione per Putin della nuova destra (ma è un virus che ha colpito anche a sinistra). Addirittura – e qui la cosa sorprende e fa sorridere – l’autore segnala un dibattito quasi patafisico sulle presunte origini trevigiane di Putin che è tutto da ridere. Un libro che conferma la grande capacità di Wu Ming 1 di fare debunking, di sgonfiare le retoriche tossiche che inquinano la sfera del discorso; di fare storia popolare, ovvero di rendere leggibile in maniera narrativa (e di rendere fruibile fuori dal dibattito specialistico) pagine di storia italiana scivolose, spesso trattate dalla storiografia accademica con una certa pesantezza. Direi di più: la forza di Wu Ming 1 come storico (di cui già avevamo avuto una dimostrazione in quel libro strano e affascinante che è Point Lenana) è di rendere la storia una questione problematica per il presente, di renderla palpitante, di evidenziare quanto lavoro politico (di rimozione, di introduzione di frame, di incapsulamento) venga fatto attorno alla memoria. L’autore di “Cent’anni a nordest” conduce il lettore sui sentieri proletari della storia, ti porta a scalare le montagne per demolire i revisionismi, per sottrarre il terreno sotto i piedi dei fasci e delle nuove destre, che da anni fanno della storia un terreno da riconquistare passo per passo. Di contro alla “memoria condivisa” ricostruita con operazioni quasi infami, quella di Wu Ming 1 è una memoria partigiana, faziosa e conflittuale. Ma è lettera viva e piena di compassione per gli ultimi del mondo, a cominciare da quei disertori e renitenti alla leva, da quei contadini trucidati sul Carso, che fuori da queste pagine di rado hanno trovato un riscatto.
Vanni Santoni, Muro di casse, Bari, Laterza, 2015, pp. 135, euro 14
Divertente e lisergico, scritto con un periodare che straborda flusso di coscienza alterata, questo ultimo lavoro di Vanni Santoni è un bel romanzo-inchiesta-memoriale sul mondo della musica techno e dei raver, che ha avuto un forte impatto in alcune subculture giovanili a cavallo del millennio. E’ servito anche a chi, influenzato più dal giro punk hardcore old school come me, faticava a capire come mai i Chumbawamba dal punk-folk fossero passati a musica da club; perché Penny Rimbaud dei magnifici Crass si interessasse alla techno; e perché i giovinastri rudeboys delle curve huligane di tutta l’Inghilterra, spinti fuori dagli spalti, cercassero felicità nelle campagne a colpi di cartoncini sotto la lingua; e infine perché gli svoltati di Edimburgo dei romanzi di Irvine Welsh siano finiti anche loro, nel mondo di carta del loro creatore, a ballare per notti insonni dietro ai ritmi di band dai nomi improbabili. Quanto a me, maremmione com’ero, il vino rimaneva la scelta migliore e l’unica chimica che maneggiavo era il rame nella vigna e il solfito (ma poco) in cantina, occasionalmente alternati con qualche infiorescenza di vedova bianca olandese, ma le cose che racconta Vanni aiutano a capire le scelte di amici che a un certo punto cominciarono ad appassionarsi a quella scena; anche quelle di una parte di movimento che, con riviste e occupazioni, ha seguito le zone autonome ed estemporanee dei rave. Bellissima prova di scrittura per Vanni Santoni, che inaugura una collana di Laterza dedicata agli ibridi narrativi, Solaris, di cui c’è un bisogno considerevole. Sono dell’idea che le opere di narrativa migliore negli anni a venire verranno proprio dalla commistione tra forme di esposizione narrativa che finora sono state tenute perlopiù separate.
Marino Magliani, Il canale bracco, Saluzzo, Fusta editore, pp. 127, euro 12
Ultimo titolo di una trilogia nordica che l’autore ligure, che da anni vive in Olanda, ha portato a termine negli ultimi anni, coniugando viandanza e curiosità da flâneur. Dopo i cortili nascosti di Amsterdam (Amsterdam è una farfalla) e il voyeurismo “galattico” di Soggiorno a Zeewijk (un quartiere popolare di IJmuiden, la cittadina dove Marino vive, in cui la toponomastica si ispira ai nomi delle stelle), questo volume segue un percorso fluviale che collega le enormi spiagge olandesi, battute dal vento, col porto di Amsterdam. Il risultato è impressionistico e avvincente. E non solo per chi, come me, ha avuto la fortuna di essersi trovato a camminare per una parte di quel canale con l’autore (che ha un passo formidabile). Pagina dopo pagina, il lettore si trova sulle spiagge, sopra le dune, nei rifugi bellici; segue la storia di pesci e uccelli ignoti e degli umani che lavorano nelle acciaierie o sviscerano pesce nelle aziende di trasformazione ittica a ridosso di un porto affacciato sul canale. Acqua che colma le pagine liquide di Marino Mariani, sentieri che tracciano geografie di un’erranza che tiene comunque sempre un piede, in un modo o nell’altro, nella natia Liguria. E il passo della penna non è meno incalzante di quello del camminatore.
Ricardo Piglia, L’invasione, Roma, Sur, pp. 187, euro 15, traduzione di Enrico Leon
Nell’ultima tornata di uscite di Sur il titolo più sorprendente è la raccolta di racconti di Ricardo Piglia. Si tratta di una riedizione (rivista e accresciuta) del titolo d’esordio dell’autore argentino. Un’opera che riesce a intersecare alla perfezione, racconto dopo racconto, sentimenti umani e grandi eventi storici. Esemplare in questo senso l’episodio in cui il bombardamento di Plaza de Mayo del ‘55, che provocherà la caduta di Perón, viene collegato alla gelosia maschile. Stupendo, per il suo tagliente colpo di scena finale, è il racconto “La fionda”, che posso solo definire come un monumento (per spregio) all’infamia. E poi c’è il primo racconto, aggiunto alla raccolta originaria, che narra l’amore paterno e maritale in una maniera inquietante, sul bordo di una violenza che non arriva mai ma che sembra di stare sul punto di esplodere.
L’uscita è accompagnata da altri titoli di pregio: Il pozzo di Onetti (Roma Sur, pp. 57, euro 7, traduzione di Ilide Carmignani) è la traduzione dell’esordio dello scrittore uruguaiano – che ben interpreta un genere che meriterebbe migliore attenzione, quello del romanzo breve – mentre Componibile 62 (Roma, Sur, pp. 316, euro 16, traduzione di Flaviarosa Nicoletti Rossini) è un classico di Cortázar. Infine si segnala la prossima uscita per lo stesso editore della collana dedicata alla narrativa angloamericana, intitolata – con riferimento beat – Big Sur.
Franco “Bifo” Berardi, Heroes. Suicidio e omicidio di massa, Milano, Baldini & Castoldi, pp. 243, euro 16
Un bel saggio che analizza la dimensione suicida della civiltà capitalista, dagli Stati Uniti del white trash ai paesi che subiscono processi di islamizzazione forzata. Nel mezzo c’è la fabbrica dell’infelicità del capitalismo globalizzato; i processi di territorializzazione identitaria che sorgono come corollario della globalizzazione astratta; le rigidità dei credi religiosi sorti dalla laicità americana imposta a colpi di drone; e poi la società della comunicazione virtuale che sposta i rapporti sociali nella dimensione dell’astrazione digitale, mentre non c’è più spazio per abbracci e contatti immediati. Un’opera piena di ottime intuizioni che racconta la dimensione letale del capitalismo, che vale per i banchieri di Wall Street come per i contadini indiani o gli operai cinesi che assemblano Ipad nella Foxxcon.