di Erminia (“Ermina”) Mattarelli. Testimonianza raccolta da Michela di Mieri

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Mi feci dare una macchina da cucire, io ero anche sarta, e gli confezionai dei vestiti nuovi con della stoffa; andai a batter cassa dai signoroni di Bologna, così gli comprai delle scarpe. Quando venne il momento, li lavai e li pettinai, indossarono gli abiti e le scarpe nuove, e li portai giù nella mensa del convalescenziario, per mostrarli a tutti. Fu una bella soddisfazione: erano bellissimi, sembravano tanti fiorellini! Non sembravano neanche più gli stessi di prima, e loro gongolavano dalla contentezza. La Francesca, di sua spontanea volontà, scrisse una lettera al suo parroco:” Appena torno, verrò a Messa, ma mi metterò sul pulpito di fianco a lei, e dirò che lei ha detto tante bugie: sì che ci hanno dato da mangiare, ma non erano avvelenate le tagliatelle; sì che ci hanno lavato, ma non ci hanno affogati; sì che ci hanno tagliato i ricci, ma erano pieni di pidocchi…” .

Ero lì già da sette mesi, era il 1947 ormai; non ero ancora rimessa completamente, ma chiesi lo stesso di essere dimessa: avevo anch’io tre figli che avevano bisogno di cure. Quando me ne andai, due tra le più piccole, che erano rimaste orfane, non volevano staccarsi da me, così dovemmo cercargli una famiglia. Maria, di quattro anni, andò dalla levatrice, e Carolina, di cinque, dalla maestra; rimanemmo legate, ed ancora adesso mi vengono a trovare. Questa è la ricompensa più preziosa per il mio lavoro.

A casa mia mancava tutto, bisognava che io tornassi al più presto in risaia per guadagnare qualche soldo. Facevo anche un altro “lavoro”; ero nel sindacato, che allora ce n’era uno solo[1], nella sezione femminile della Lega della terra, ma non avevo lo stipendio: mi sarei offesa, io lo facevo per coscienza, non per professione! Non ho mai voluto niente, non volevo essere pagata.

Così tornai in risaia, dove le condizioni di lavoro non erano cambiate molto da prima della guerra: i soliti dodici km a piedi per andare al lavoro e altrettanti per tornare, le bisce, l’acqua fino al ginocchio, l’umidità assassina, la schiena spaccata e la paga miserabile. Ma, come prima della guerra, noi mondine eravamo pronte a lottare con energia per i nostri diritti: la giornata di otto ore, la malattia pagata, il diritto di sciopero, gli aumenti salariali, contratti equi ecc…

Tutto ciò di cui godete oggi, non è caduto dal cielo, non è per grazia ricevuta o perché i padroni siano più buoni, ma è il frutto di dure lotte: nulla è stato regalato, ed è nostro dovere continuare a lottare per mantenere ciò che abbiamo conquistato. Le strade sono due: chi lavora e chi sfrutta; se chi lavora sta unito, se si è tutti insieme, si vince, se ci si lascia dividere da chi sfrutta, allora non si ottiene niente, perché i padroni potranno sempre contare su masse di affamati inconsapevoli.

Le donne erano la spina dorsale delle lotte nelle campagne. Le donne bolognesi, le contadine, le mondine della valle Padana hanno pagato, sono eroine tutte loro. Essere donne voleva dire essere tutto: madri, mogli, ma anche lavoratrici, partigiane, combattenti. Non era una cosa facile essere bravi mogli e brave madri e nello stesso tempo lavorare e lottare per una vita migliore per i nostri figli. Era la prima volta che le donne uscivano di casa, che si vedevano marciare in piazza, fare dei comizi e stare fuori magari anche tutta la notte, e molti erano ancora legati alle vecchie tradizioni, per cui noi dovevamo stare sempre in casa, zitte, sottomesse. Allora, giù con le malelingue, i pregiudizi. Era anche una battaglia più intima, privata, che non tutti capivano. A molti faceva comodo questo ruolo della donna sottomessa, perché è chiaro che se noi occupassimo più posti di responsabilità nelle alte sfere, le cose non andrebbero certo come vanno adesso.

Lì in risaia, avevo delle compagne al mio fianco che erano delle vere battagliere, con alcune delle quali avevo fatto il carcere nel ’45: la cara Orietta Bandiera, sua sorella Antonietta, la Dirce Calzoni, la Bianchi Lenina, l’Amadesi Anna, l’Iddillia e l’Antonia Melloni, la Pia e Carmela Buriani, e tante, quante altre…eravamo un gruppo, sempre in piedi e compatto. Con loro vissi quegli anni di lotta nelle campagne, gli anni che vanno dal ’47 al ’53, quelli della famigerata polizia di Scelba[2], degli operai e contadini uccisi dai suoi celerini durante gli scioperi.

Noi mondine non avevamo paura di nessuno, e trasformavamo l’inferno della risaia nel nostro miglior alleato. Ad uno sciopero per gli aumenti salariali, la celere cominciò a caricare dagli argini, mentre noi stavamo dentro l’acqua. Quando i poliziotti ci furono vicini, noi li tirammo giù; i celerotti mica lo sapevano come si doveva viaggiare in risaia, allora schizzavano via, fuggivano tutti bagnati, perché la risaia fa paura a chi non la conosce: è uno specchio d’acqua pieno di bisce che ti nuotano sui polpacci, viscido, immenso, inquietante.

I grandi industriali, i grandi latifondisti, avevano alzato la testa, avevano ancora la cattiveria dei tempi del fascio; si erano calmati per un anno o due, dal ‘45 al ’46, poi avevano cominciato a tirar fuori tutto il fiele che tenevano dentro, e facevano delle ingiustizie enormi. Così scioperi, manifestazioni, l’organizzazione degli uffici di collocamento per eliminare la pratica del caporalato ecc…

Il capitano dei carabinieri a Molinella, Lugli, era di una cattiveria unica, e mi dava spesso la caccia. Ad una manifestazione contro il Patto Atlantico, lui venne lì vicino a me mi disse :” Signora, vorrei stare qui vicino a lei, così la posso controllare e sono più tranquillo, sennò lei mi combina qualcosa e tutte le donne le vengono dietro…” Allora, la cosa era buffa, perché io ero chiamata “la capitana”, lui era il capitano, e andavamo vicini per le strade del paese. Ad un certo punto mi ricordai dei volantini che avevamo con già la carta adesiva dietro, e allungai una mano dietro verso le mie compagne, l’Idilia, la Sita e l’Orietta, e loro mi allungarono un manifestino contro il patto Atlantico; intanto che ringraziavo il capitano, gli appoggiai una mano sulla spalla, e gli incollai il manifestino sulla schiena. Allora, tutta la gente a ridere ed applaudire, e lui non capiva perché! Subito arrivarono i suoi carabinieri, lo chiamarono e glie lo staccarono. Alla fine, io fui denunciata per affissione di manifesti non autorizzati. Fu una bella beffa! Negli anni ’50, il capitano Lugli, lasciò l’arma e tornò a fare il notaio a Modena. Morì schiacciato sotto un armadio di ferro del suo ufficio; come si dice, quel che Dio vuole non è mai troppo!

Quella non fu l’unica volta che venni denunciata dopo la guerra, subii addirittura un processo per vilipendio al Papa. Quando ero a Roma, mi capitò di andare in Vaticano con l’Enilde, mia cognata, e avevo visto delle cose vergognose: oro, oro a palate, gioielli e marmi, uno sfarzo scintillante ovunque, che non me l’ero più dimenticato. Una volta, lo raccontai ai miei figli, ma loro non mi credevano, dicevano che esageravo. Un giorno dovetti partire per Roma per un convegno del Partito a cui partecipai come delegata, e mi portai dietro Paolo. Ne approfittai per portarlo in Vaticano e farlo ricredere sulle mie esagerazioni. Rimase scioccato e sbalordito; non ha detto una parola là dentro, solo quando siamo usciti ne ha detta una, che ha preso tutti i santi perché era il 1° di novembre, e l’ha detta per sfogarsi. Quando sono tornata a Molinella, ho scritto un articolo sul giornale murale della Lega, che veniva affisso in piazza. Diceva: “Tu, Papa, rappresenti male Cristo, perché lui è nato in una stalla ed è vissuto insieme ai poveri, tu invece vivi nell’oro e nello sfarzo e per vedere gli ori vaticani bisogna anche pagare! – si pagava 300 lire allora – mentre a cento metri dal Vaticano i tuoi “fratelli” vivono poveri!”. Fui così denunciata per vilipendio e il mio legale, avv.Casali, me la fece cavare al processo con quattro mesi di condizionale. Quando il pubblico ministero venne giù dal suo scranno, io gli dissi: “ Quel che ho detto però è la verità, perché non andate a vedere anche voi?”, e lui :“ Signora, non tutte le verità si possono dire!”. Gli risposi: “ Sarà anche vero, ma anche se mi avete condannata, non mi chiuderete la bocca: io sono una mondina, vivo ogni giorno in mezzo a molte persone e racconterò che mi avete processata per una verità che voi non volete sentire!”.

Nel ’47, ci fu il fatto della Maria Margotti, mondina uccisa dai carabinieri. C’era uno sciopero generale nazionale per i contratti di lavoro, ed eravamo nelle risaie di Saline, vicino a Marmorta. Ad un certo punto arrivarono un gruppo di mondine di Argenta, tra cui la Maria, e tentarono di unirsi a noi. D’un tratto, un carabiniere che stava su un argine, si mise in ginocchio e puntò il mitra, freddamente sparò e colpì la Margotti che morì sul colpo. La baraonda che successe dopo fu sedata nel sangue, ma successe di peggio. I carabinieri tentarono di depistare le indagini, e misero delle pallottole come quella che aveva ucciso la Maria in tasca a degli operai in sciopero, così vennero incriminati loro per l’omicidio. Ci fu il processo, e condannarono gli operai. Al processo d’appello di Bologna, nello stesso posto dove adesso stanno processando i fascisti della strage alla stazione dell’’80, i legali degli operai riuscirono a dimostrare che aveva sparato il carabiniere, e molte di noi mondine andarono a testimoniare, perché avevamo assistito in diretta al delitto. Il giudice fece scarcerare e prosciogliere da ogni accusa i nostri compagni, e condannò il carabiniere…finalmente gustammo un po’ di giustizia!

Dal ’48 in poi, le lotte divennero più difficili, perché, mentre fino a quel momento eravamo tutti uniti, dopo, lottavamo tra noi lavoratori, grazie alla scissione del sindacato voluta da lor signori della DC[3]. Nel ’49 poi, la divisione aumentò, perché dalla CGIL, si staccò l’ala socialdemocratica[4], quella che da noi si chiamò dei “saragattiani”. Io lo seppi una sera; era stato convocato uno sciopero ed eravamo alla camera del lavoro ad attendere il segretario della Lega perché ci desse disposizioni. Arrivò e, neppure il tempo di sedersi alla cattedra, ci annunciò che il suo partito aveva aderito ad un sindacato autonomo, per cui né lui né molti lavoratori aderivano allo sciopero unitario; aggiunse che avrebbero indetto uno sciopero separato. Si può immaginare lo sconcerto e la confusione che generò una notizia del genere, per di più la sera prima di uno sciopero generale nazionale…è come buttare una bomba su una casa che si sta ancora costruendo. Io lo conoscevo bene questo segretario, perché la sua famiglia era di Conselice, e sapevo che suo padre aveva fatto la marcia su Roma; allora, tutta arrabbiata, gli dissi:”Sei proprio il figlio di tuo padre!”, e lui:”E ne sono orgoglioso!”…gli suonai una sberla che penso che una così non l’abbia mai presa, e, disgustata, me ne andai.

Cominciarono, allora, le lotte tra noi lavoratori: noi indivamo uno sciopero, ma al nostro posto andavano a lavorare i krumiri; ricordo le lotte per impedire a questi di entrare e di far fallire lo sciopero, gli scontri con la celere che caricava a caso, senza guardare se manganellava un servo o uno scioperante, la battaglia intestina per il controllo degli uffici di collocamento e le liste dei convocati a lavorare piene di socialdemocratici che stavano più simpatici al padronato ecc…

Un giorno, fu indetto uno sciopero allo zuccherificio di Molinella, e, come al solito, i saragattiani non volevano aderire. Il problema era che loro erano molti di più dei nostri dentro lo zuccherificio, perché Martoni, il sindaco socialdemocratico di Molinella, aveva fatto in modo di metterci a lavorare quanti più possibile dei suoi, così non avevamo forza sufficiente e lo sciopero rischiava di fallire. Mi venne un’idea per farlo andare, ma volli fare tutto da sola, senza uomini con me. La mattina dopo, presi la bicicletta e andai a piazzarmi davanti all’entrata dello zuccherificio prima dell’arrivo degli operai. Poco alla volta, cominciarono ad arrivare, ed io mi misi a chiacchierare con loro del più e del meno, e, visto che molti erano più giovani di me, gli raccontavo le lotte che avevo fatto con i loro genitori durante il fascismo e via così. Quando suonò la sirena che annunciava l’entrata al lavoro, nessuno tentò di passarmi davanti per entrare, e rimasero tutti fuori, ad ascoltare gli episodi che riguardavano le loro famiglie. La direzione dello zuccherificio chiamò la celere che arrivò solerte, cominciò a caricare ed il gruppo si disperse, ma l’importante era che lo sciopero era riuscito. Una donna da sola era riuscita in un’impresa che sembrava impossibile, semplicemente parlando dritto al cuore delle persone: questi, sentendo ciò che avevano patito i loro, si erano ricreduti sullo sciopero, ed erano rimasti lì, fermi come cagnolini. La dice lunga sulle capacità delle donne.

Queste battaglie intestine, non intaccarono molto, infatti, il senso di sostegno e di solidarietà che c’era tra noi donne.

A questo proposito, voglio raccontare un avvenimento esemplare. Si è già detto di come la divisione genera debolezza, e, se delle conquiste già erano andate perse, le prime erano quelle ottenute dalle donne: gli agrari, infatti, non le volevano più ai posti di responsabilità, ad esempio nel ruolo di caporali, cioè quelle che hanno il compito di formare una squadra di lavoro e di dirigerla. Il nostro ufficio di collocamento, adesso, era diretto da un certo Zucchini, di Baricella, un socialdemocratico onesto. Un giorno, Zucchini mi chiama in ufficio e mi dice: “Mattarelli, abbiamo bisogno di lei. Non riusciamo a convincere Mavrèn, il fattore della tenuta del conte Del Pozzo a Marmorta, a mandargli una donna caporale per la squadra della raccolta delle barbabietole; non viene a nessun patto, non la vuole, solo che non abbiamo uomini da mandare…te la senti di andarci tu?”. Era settembre, e non si poteva stare ad aspettare, sennò marciva il raccolto. Mi piacevano quelle lotte, erano proprio le mie, quindi accettai. Quando feci i nominativi delle donne per la squadra, non avevo che da scegliere, però non scelsi solo le mie compagne, volevo anche   quelle del sindacato autonomo, perché noi donne, anche se si bisticciava, avevamo la qualità di saperci capire; in tutto eravamo ventisette, una buona squadra, tutte potevamo essere caposquadra.

Il mattino seguente, dopo dodici km a piedi per arrivare a Marmorta, cominciammo a fare il nostro lavoro: il bracciante maschio estirpava le barbabietole dalla terra con un rampone fatto a posta, e le lasciava sparse nei campi, noi dovevamo raccoglierle e farne un mucchio e poi pulirle per bene, perché dovevano andare allo zuccherificio per la raffinatura. Dopo un po’, vedemmo arrivare Mavrèn: sembrava un bisonte che veniva contro a testa china come per assalire, e, dato che era conosciuto da tutti per la sua villaneria, non ci stupì affatto il suo modo di presentarsi.“Ferme tutte! Non si lavora finché non c’è il caporale!”, abbaiò. Con calma, gli risposi di calmarsi perchè il caporale c’era, e gli feci vedere la lista fatta dall’Ufficio di collocamento. Al che, lui fece una sfuriata con offese, bestemmie, insulti, e finì che se ne andò buttando per aria e addosso a noi le barbabietole. Noi, come se non esistesse, abbiamo continuato il nostro lavoro.

Di regola, si metteva una donna della squadra a fare la vivandiera: andava tra un gruppo e un altro con un fiasco di vino ed uno di acqua per dissetare; tra il caldo e la polvere che c’era, era una gioia poter bere; così, facemmo fare la vivandiera alla Medea. Vedemmo di nuovo arrivare il bisonte in bicicletta. Si scaraventò sulla Medea strappandogli i fiaschi dalle mani e urlando fuori di sé. Intervenni io, dicendogli ciò che si meritava: “Non vuoi la vivandiera? Noi ti diamo retta, però sappi che sei un animale. Medea, vieni qui a lavorare e ringrazia il tuo compagno- erano socialdemocratici entrambi-che sembra abbia avuto soddisfazione. Adesso, metto i fiaschi un po’ all’ombra, e quando avete sete, ragazze, là c’è il bar: una alla volta andate a bere”. Così, quando una andava l’altra veniva, ed era un continuo via vai di donne. Non si può spiegare il ritorno in scena di Mavrèn. Tutti gli uomini avevano gli occhi su di noi perché temevano il peggio. Urlò: ” Ma dove credete di essere, in Via Indipendenza, che andate al bar a bere? Vi caccio fuori tutte, puttane!”… e poi non ripeto, solo tutte le più brutte offese, lui ce le disse. Noi lo guardavamo compatendolo; non sapeva più che dire, le aveva già dette tutte, ci minacciò: “Vado a denunciarvi!”. Lo vedemmo partire in calesse e per giorni non si fece vedere più. Arrivò il sabato, giorno in cui arrivavano i camion per caricare le barbabietole e portarle allo zuccherificio. Quello era un lavoro di facchinaggio, e di solito lo facevano gli uomini, ma quel giorno erano tutti impegnati nei campi e non potevano venire. Siccome i camionisti avevano fretta, non si poteva aspettare fino al lunedì, pensammo di fare noi il lavoro dei facchini. Subito arrivò Mavrèn, sembrava più calmo, e chiamò le donne del suo sindacato: otto, quattro per camion. Allora, io intervenni e dissi alle donne di non muoversi, che solo io potevo dire cosa fare o non fare. Lui sobbalzò, verde dalla bile; gli ricordai che ero io la caporale, e che se voleva mandarci a fare le facchine andava bene, ma “qui abbiamo una tariffa, se le mandi a fare le facchine cambia musica signore, e gli dai la paga dovuta, con gli aumenti…”. Per calmarlo intervennero tutti gli uomini. Alla fine, le donne vennero assunte come facchine, con la tariffa che gli spettava. Finì così la settimana con Mavrèn.

Alla domenica mattina, Mavrèn mi doveva portare i soldi per pagare le donne e il foglio con i conti delle ore per l’Ufficio di collocamento. Si presentò a casa mia, che tanto era del conte Dal Pozzo anche quella, mi diede il foglio, e vidi c’erano segnate due donne in più; invece che per ventisette, c’erano i soldi per ventinove. Dissi: ”Mavrèn, qui ci sono due paghe che non c’entrano, i conti non tornano; debbo consegnare il foglio all’Ufficio di collocamento, cosa debbo dire?” Mi rispose che i conti lui li sapeva fare e che non aveva bisogno d’insegnamento.

Portai all’Ufficio il foglio, comprensivo dei soldi in più. Feci una proposta: “ Con questi soldi, compriamo del grano e diamolo a chi ha bisogno”. E così fu fatto.

Ne potrei raccontare di episodi come questi, ma l’importante è capire che la battaglia fu vinta perché noi donne eravamo rimaste unite, alla faccia di chi ci aveva separate.

Ricordo quando tornò Massarenti. Dopo il Ventennio, durante il quale era stato rinchiuso in un manicomio, rimase a Roma a farsi curare in una clinica, ed io più volte andai a trovarlo in quegli anni. Il rapporto tra me ed il mio maestro non s’interruppe fino alla sua morte; conservo ancora tutte le fotografie e le lettere frutto della nostra corrispondenza, che gli storici mi volevano prendere. In una di queste, mi chiedeva dei consigli, diceva: ” Mi fido della tua coscienza politica, quando tornerò al mio paese, ti vorrò vicina…”. Quando arrivò il momento del suo ritorno, lo andai a prendere a Roma. Mi diceva che aveva paura, che era sicuro che, una volta a casa, avrebbe provato tante delusioni, e non era più così sicuro di voler tornare. Arrivati alla stazione di Bologna, c’era ad accoglierlo il Comitato pro Massarenti, che voleva portarlo in Piazza Maggiore perché c’era il comizio di Saragat, infatti, eravamo vicini alle elezioni, ed i socialdemocratici volevano impadronirsi del suo autorevole personaggio per la campagna elettorale. Massarenti ebbe così la sua prima delusione, mai avrebbe pensato che il movimento socialista si fosse diviso fino a questo punto. Scappammo a Molinella in macchina, eludendo quelli del Comitato. Visse ancora pochi anni sempre nella sua casa al paese, sempre più consumato da tutto quello che aveva patito durante la prigionia, ed io cercai sempre di stargli vicina.

In tutte queste vicende sono passati gli anni. La Nara, che nel frattempo si è diplomata assistente sanitaria, è stata in Sardegna per dieci anni; ha lavorato a Patada, Ozieri. In questi posti ha avuto modo anche di conoscere i cosiddetti “banditi”, e capire che i veri banditi sono altri, e governano anche!

Tornò a Bologna quando le diedero la condotta a Porretta. Ora è vedova, con un figlio che fa onore a tutti.

Nel ‘48 mia madre è mancata ed io e mio marito, per seguire le scelte di lavoro dei figli, ci siamo trasferiti a Bologna.

Da trent’anni vivo in Via Leonardo da Vinci, nel “treno”, che però non parte mai, alla Barca[5], che però non affonda mai… così sono ancora a galla.

Mio marito, che ha continuato sempre a fare il falegname, è morto nel 1972. Paolo, caporeparto all’Azienda del Gas, è stato sfortunato: è rimasto vedovo dopo un anno di matrimonio. Non poteva trovare una compagna migliore, ma un male incurabile se la portò via dopo tante sofferenze, ed ha lasciato un vuoto profondo; non eravamo suocera e nuora, ma due sincere e vere amiche. Adesso vive qui con me in questo treno sempre fermo.

Iva lavorava all’ospedale Malpighi, nel reparto analisi, è andata in pensione il mese scorso, ed è sposata da quattordici anni. Io, che non posso fare la cittadina, sono sempre la campagnola. Partecipo a varie attività dell’ANPI[6], dato che la Resistenza non è finita e non finirà mai, ad esempio sono profondamente impegnata nel tesseramento.

Soprattutto, lego a me sempre i giovani: tocca a loro proseguire la lotta che noi abbiamo incominciato, sta a loro adesso cambiare questo casino di società, allora bisogna prepararli, educarli, insegnargli. La colpa non è loro se le cose vanno male, ma è di quei soliti banditi che sono lassù, cui fa comodo che la situazione vada così. Chi è che comanda in Italia oggi?Arrestano gli studenti, ma non è da loro che bisogna partire, ma dall’alto, da chi prende i milioni ed i miliardi che dietro hanno quasi sempre l’etichetta USA. Questi, quando vedono un partigiano lo scansano, e se possono lo mettono in galera, così tace per sempre e smette di dire cose scomode.

Spesso vado nelle scuole, chiamata dalle maestre e dalle professoresse quando organizzano l’“Incontro con la Resistenza”, e la cosa mi da tanta gioia. Sto con questi ragazzi per tre ore, e, senza sosta, rivivo con loro le lotte, le tragedie e le gioie passate; e così, mi sento giovane anch’io, che faccio parte di una generazione a cui la gioventù è stata strappata.

Una delle ultime beffe che io ricordo, fu quella della mia pensione di guerra.

Dal ’45 ho tutti gli attestati del distretto militare di Bologna, che mi classificano come partigiana combattente dal primo all’ultimo giorno della Resistenza; ho anche quello della Commissione Medica dell’Ospedale militare “La Badia”, che sottolineava anche i danni permanenti a causa delle torture. Lo Stato mi ha dato la pensione per quattro anni, dal ‘47 al ‘51 ma poi, tutto tacque. Aspettai un po’ di tempo, poi reclamai chiedendo spiegazioni. Un bel po’ dopo, mi scrisse la Corte dei Conti assicurandomi che era tutto a posto, che si trattava solo di un disguido amministrativo e che tutto si sarebbe risolto con facilità. Nonostante questi bei propositi, passò altro tempo senza che si concludesse nulla. Così, intervenne l’ANPI, che mi aiutò nel recuperare ulteriori documenti che provavano il mio stato di ex combattente ed invalida di guerra, che erano presso un ragioniere privato che aveva l’ufficio in Via S.Isaia, 4. Dopo di che, spedii tutto giù a Roma, e attesi. Una mattina, vennero a casa dei carabinieri che mi dissero di seguirli in caserma. Lì, trovai il foglio di viaggio militare, dove c’era scritto che dovevo essere a Roma il giorno dopo per l’appuntamento con la Commissione Medica competente; siccome partivo come militare, il viaggio era pagato dallo Stato.Il giorno dopo, puntualissima, arrivai a Villa Fonseca, vicino al Colosseo, dove dovevo vedere questa commissione. Attesi in un corridoio, e, ad un certo punto, sentii chiamare dentro ad una stanza il partigiano Ermino Matterelli. Entrai io, ed i sigg. dottori rimasero un po’ interdetti. Mi dissero di spogliarmi e di mettermi davanti a loro. Mi vidi in sottoveste a sfilare come una modella sulla passerella, e mi sentii al colmo della pazienza: ero ferita nella mia dignità. Così, reagii al mio solito modo, e gli feci capire senza mezzi termini che erano degli asini; ai dottoroni, io, che sono la più ignorante, feci notare che non esiste il mondino, che solo la donna svolge quel lavoro, e che i miei tre figli li avevo partoriti io e non lo Spirito Santo, e che si vergognassero a scambiarmi per un uomo. Chiesi se potevo andarmene, e loro mi risposero che avrebbero esaminato il caso e di avere fiducia. Lo studio del mio difficilissimo caso, si concluse nel 1986, quando il Ministero del Tesoro ricominciò a mandarmi la tanto desiderata e lottata pensione. Ora prendo £142000 mensili, e mi hanno anche pagato gli arretrati dal 1968 in poi, in totale otto milioni; quello che conta, non è la cifra che mi danno o non danno, ma è la soddisfazione morale che ho sentito: riconoscere il mio status equivale a riconoscere tutto quello per cui ho lottato e sofferto.

Ancora oggi, faccio la mia vita combattiva di sempre, anche se non posso fare molto perché purtroppo la salute si sta indebolendo: ci vedo poco, dovrei essere operata, ma per operarmi agli occhi devo aspettare un anno- questo è il progresso, questa è la sanità-, le gambe non mi reggono più molto bene, anche a causa delle ferite dovute alla tortura.

Eppure non mi fermo, la mia mente non può smettere di pensare, di parlare con la gente. Non sono mai da sola: quando vado giù a prendere il giornale, invece di metterci dieci minuti tra andata e ritorno, sto fuori delle ore, perché converso con tutti, chiunque siano, non solo con quelli del mio partito, e tutti hanno un rispetto per me che mi fa molto piacere.

Faccio la mia vita da contadina di sempre, da bracciante, da mondina, e ne sono orgogliosa: ho i miei capelli lunghi e bianchi, e non mi passa neppure per la testa di tingerli, mi lavo col sapone da bucato e continuo a fare i miei mangiari, la mia sfoglia. Sono anche senza denti, ma non li rifarò mai: me li hanno strappati i fascisti, e chiunque veda il mio sorriso può capire ancora oggi cosa, chi erano e sono tuttora quei banditi.

Cerco d’essere me stessa anche nel mio partito, anche coi dirigenti. Se vedo delle cose che non mi sembrano giuste, non sto zitta e protesto, e vado direttamente dove devo andare, cioè in alto. E questi venti di cambiamento, di riforma, di revisione, io li combatto apertamente, perché questi dirigenti devono rispettare e valutare, e non cancellare con un colpo di spugna un passato tanto glorioso: io questo non l’accetto, perciò vado avanti e non mi inginocchio mai, perché, in fondo, nessuno è superiore all’altro, ed i dirigenti giovani devono anche saper ascoltare chi ha più esperienza di loro.

Se potessi ritornare indietro, rifarei di nuovo la mia strada, correggerei gli errori commessi, perché chi fa sbaglia sempre; ma sbaglia sempre di più quello che non fa niente, perché non ha neanche il diritto di reclamare. E, con orgoglio, sarei sempre comunista, bolscevica col pugno chiuso.

 

 

[1] Si riferisce alla CGIL( Confederazione Generale Italiana dei Lavoratori), fondata col Patto di Roma nel giugno del ’44, sottoscritto dalle componenti comunista, socialista e cattolica del movimento sindacale. Ereditò la tradizione della CGL, fondata a Milano nel 1906 per contrastare l’influenza del sindacalismo rivoluzionario.

[2] Scelba Mario, politico democristiano, fu ministro degli Interni dal ’47 al ’53. Gestì con inflessibilità l’ordine pubblico, in una fase caratterizzata da grande conflittualità politica e sindacale. Nel ’54-’55, fu anche Presidente del Consiglio.

[3] L’unità sindacale fu compromessa nel 1948, quando dalla CGIL fuoriuscì la componente democristiana, che nel 1950 formò la CISL( Confederazione Italiana Sindacati dei Lavoratori). Negli anni ’50, seguì una politica di sostegno alla DC e una linea interclassista.

[4] La UIL (Unione Italiana del Lavoro), nacque nel 1949 come FIL, dalla scissione delle componenti repubblicana e socialdemocratica della CGIL. Si è distinta per aver spesso sottoscritto accordi separati con le imprese.

[5] Quartiere popolare alla periferia di Bologna. Si distingue, tra le sue costruzioni, il “treno”, un palazzo residenziale a cui la gente ha dato questo nome, per via della sua lunghezza abnorme rispetto al resto delle costruzioni.

[6]Associazione Nazionale Partigiani d’Italia. Venne fondata a Roma nell’ottobre del ’44, con la sottoscrizione di tutte le forze politiche che avevano partecipato alla Resistenza, anche se le componenti minoritarie democristiana e liberale se ne staccarono successivamente. A lungo presieduta da A. Boldrini, ha svolto un’importante ruolo nella difesa degli ideali e delle conquiste della Resistenza.