Da “Diario di zona” a “Il derby del bambino morto” (passando per “Scritture di resistenza”)
di Alberto Prunetti
La casa editrice Alegre ha appena lanciato “Quinto tipo”, una collana editoriale dedicata a opere caratterizzate da un taglio particolare: non sono né opere di fiction in senso pieno, ovvero romanzi-romanzi con plot di invenzione, ma neanche saggi o inchieste giornalistiche propriamente dette. Sono oggetti narrativi che si caratterizzano per la loro difficoltà a essere collocati ai nostri giorni negli scaffali delle librerie italiane. Sono memoriali? Anche sì, perché spesso presentano un io iper-testimoniale. Sono inchieste? Si, perché raccontano di una ricerca partecipata attorno a problemi sociali collegati all’attualità. Sono narrativa? Anche, perché non cercano l’oggettività e seguono meccanismi di identificazione, di associazione tra il lettore e il protagonista. Raccontano grandi storie? Spesso no. Raccontano la realtà con uno sguardo obliquo. Cercano prospettive marginali, liminali, che permettono di guardare al grande scenario con una prospettiva di scorcio che riesce a rimettere in quadro il racconto in maniera straniante. Sono creative fiction, sono ibridi letterari, sono giornalismo di no ficciòn, sono biografie romanzate e travel-logue? Sono un po’ di tutto questo, nella tradizione di svariate correnti narrative. Wu Ming 1, che non a caso è il curatore di questa collana di ibridi narrativi (l’autore di Point Lenana ha dichiarato che i Wu Ming in futuro ibrideranno sempre di più la loro narrativa), li chiama UNO, con un acronimo dalla forma inglese di Unidentified Narrative Objects.
Ma è l’ibridazione stilistica ciò che rende un testo un UNO pubblicabile nella collana di Alegre? No, il carattere ibrido degli UNO e la loro “impurità” non sono solo di ordine stilistico ma anche politico. I testi ibridi non sono di facile categorizzazione politica. Sono problematici. Nel senso che la loro politica è quella di problematizzare il reale. Di raccontarlo in maniera complessa e polemica, non in forma rassicurante e consolatoria. Gli UNO mettono il dito sulla piaga e il sale sulla ferita. Sono contro-narrazioni che sgonfiano le retoriche del potere e alimentano la memoria e il conflitto. Praticano il debunking delle narrazioni tossiche egemoniche. Alimentano, come è scritto nell’intestazione di Carmilla, un immaginario e una cultura d’opposizione. Questo è importante. Perché gli UNO hanno senso se fanno un lavoro di smontaggio, indirizzato più che al raccolto controfattuale allo sgonfiamento della realtà come viene raccontata.
Ma questi UNO vengono dal nulla o hanno un cammino già tracciato alle loro spalle? Sono solo italiani o sono stati avvistati anche altrove? Ci risponde lo stesso Wu Ming 1 in una scrittura paratestuale che sta nel risvolto dei libri della collana di Alegre. Otre a presentare alcuni esempi contemporanei di UNO stranieri (dal bellissimo Maximum City di Suketu Metha a Limonov di Carrère, da Z la guerra dei Narcos di Osorno a Nelle terre estreme di di Jon Kracauer) e di Uno in lingua italiana (da Gomorra di Saviano a L’aspra stagione di De Lorenzis e Favale, dal superlativo I buoni di Rastello al mio Amianto, una storia operaia), Wu Ming 1 indica un percorso di UNO nell’alveo della narrativa italiana consolidata (per intenderci, quella che si insegna anche nelle scuole). Gli ibridi, come sa chi ha fatto almeno un innesto, hanno bisogno di un piede ben radicato, per slanciarsi verso l’alto con marze che gemmano e danno nuovi frutti. Ecco gli esempi citati da Wu Ming 1: La Vita nova, Il Principe, lo Zibaldone di pensieri, la Storia della Colonna Infame, Se questo un uomo, Cristo si è fermato a Eboli, Kaputt, La pelle, Il mondo dei vinti, Esperienze pastorali, Scritti corsari, La scomparsa di Majorana, L’affaire Moro. Sono titoli che stimolano il cuore e l’intelligenza. La turbolenta vita dell’Alfieri, tra romanzo di formazione e travelogue; Il memoriale di Levi che arriva fino all’abisso, alla disumanità del nazifascismo e ne esce attraverso un viaggio epico (“La tregua” andrebbe aggiunto all’elenco); la storia del confino di Carlo Levi, con il memoriale che diventa diario etnografico; l’inchiesta filologica sulle ultime lettere di Aldo Moro scritta con la penna barocca e ultra letteraria di Sciascia che si trasforma in un j’accuse contro la Democrazia Cristiana; la scrittura della storia orale elaborata da Nuto Revelli che compie un’etnografia dei vinti, incrociando contadini e partigiani nelle bettole e nelle stalle piemontesi, per assemblare un oggetto-patchwork narrativo; la sociologia dal basso di Lorenzo Milani che corre parallela, su sentieri prossimi a quelli della teologia della liberazione, alle inchieste operaie degli anni a venire. Percorsi letterari che escono dal canone, dalla forma chiusa del romanzo borghese ottocentesco o dalla sua trasformazione modernista, aperta, del novecento e che proprio per questo sono ancora più incisivi. Forse perché all’origine stessa del romanzo, l’oggetto narrativo eccentrico aveva già una sua ragione d’essere, prima di venire codificato come espressione della borghesia ottocentesca: non è già più complesso e ibridato di un romanzo di Balzac il Tristram Shandy di Sterne? Non era già “pasticciato” il pasticciaccio di Gadda? Anzi, alla lista di Wu Ming 1 andrebbero aggiunti altri titoli, a partire dall’inchiesta di Bianciardi-Cassola sui minatori maremmani per arrivare, sul fronte delle biografie narrative e dei memoriali, (opera di narrativa francese, certo, ma a noi piace saltare i confini) alla Storia della mia fuga dai Piombi di Giacomo Casanova. Si vedrebbe allora che di UNO ne sono stati avvistati tanti, e da secoli, in tanti paesi, ogni volta che c’era un contenuto che sentiva il bisogno di forzare le forme e le dimensioni del contenitore (stile, materia espressiva, registro linguistico, raccordi, metteteci quel che volete). E lo ripeto: non solo in Italia. Pensiamo all’America Latina. In Argentina Borges, che alla finzione letteraria ha quasi associato il proprio nome in maniera indelebile, non ha mai scritto un romanzo. E l’autobiografia romanzesca di Daniel Chavarría (Y el mundo sigue andando)? E il thriller d’inchiesta di Miguel Bonasso (Ricordo della morte)? E l’inchiesta giornalistica narrativa di no ficción che con Rodolfo Walsh ha anticipato la no fiction di Truman Capote e oggi dilaga fino al Messico, dove risulta lo strumento migliore per raccontare gli intrecci tra potere istituzionale e narcotraffico?
Detto questo, non resta che segnalare i primi due UNO della nuova collana di Alegre (Amianto era uscito qualche mese prima, sempre come consulenza di Wu Ming 1, ma ancora non era pronto il “contenitore” della nuova collana). Diario di Zona di Yamunin (alias di Luigi Chiarella) ha tutte le carte in regola per figurare come un eccellente UNO e inaugurare la collana di Alegre. C’è il racconto ipertestimoniale. C’è la narrazione dal basso del lavoratore precario sfruttato. C’è lo sguardo obliquo sul presente: il razzismo al quadrato dei vecchi immigrati meridionali che oggi se la prendono coi nuovi migranti nordafricani, il tessuto urbano delle grandi città operaie in disgregazione, la guerra tra poveri. Un bel lavoro davvero: una psicogeografia operaia, la “derive” coatta di un precario con un piede nel teatro e l’occhio sui metri cubi delle letture dell’acqua, un pretesto per entrare nelle case delle persone e raccontare le trasformazioni del senso comune, con il suo moto pendolare tra slanci progressisti e spirito reazionario, il tutto condito da dosi di humor surreale. Quanto al secondo titolo della collana, dico subito che Il derby del bambino morto è un bel saggio sul calcio che farà la gioia di tanti futbologi. Meno narrativo, forse meno UNO dell’opera di Chiarella, comunque ibrido, perché l’autore di tanto in tanto si mette nel mezzo del filo del ragionamento, entra a gamba tesa nell’enunciazione, non scompare nell’impersonalità dello stile accademico ma fa vedere che i piedi sulla strada e sulla terrace culture ce li ha tenuti e bene, il compagno Valerio Marchi. Il suo saggio compie anche un gran lavoro di debunking: smonta l’immagine degli ultrà che arriva dalla stampa e la inquadra in un frame diverso, storicizzandola con il mondo degli hooligan e della terrace culture inglese degli anni settanta-ottanta; si dilunga anche attorno alle pratiche dei boatos, delle voci false e tendenziose ma giustificate da un contesto ben preciso di subalternità, che alimentano poi degli effetti di eco che vanno interpretati al di fuori di una cornice criminale e tossica, che è l’unico modo in cui la stampa ci racconta le subculture delle curve. Più di nicchia ma da leggere.
Una collana quindi che sgomita per trovare spazio nei soggettari e negli scaffali delle librerie, che ancora non contemplano gli spazi ibridi. Ibridi che invece cominciano a trovare una collocazione nella riflessione critica, come dimostra un volume appena dato alle stampe: “Scritture di resistenza. Sguardi politici dalla narrativa italiana contemporanea” (a cura di Claudio Boscolo e Stefano Jossa, edito da Carocci, ai cui lavoratori in lotta esprimiamo la nostra solidarietà conto la ristrutturazione imposta dal loro gruppo editoriale). Il volume fa riferimento in più occasioni agli UNO e alle forme di narrativa sul confine tra fiction e non fiction. In particolare se ne occupa Claudia Boscolo, riflettendo sullo sguardo politico delle narrazioni storiche e metastoriche, e Monica Jansen, che dal suo lato indaga la nuova ondata di narrativa del lavoro, riflettendo in particolare sulle pubblicazioni di tipo antologico. In ogni caso, entrambe le autrici segnalano l’importanza, nella narrativa degli ultimi anni, di alcune caratteristiche tipiche degli UNO: “far scrivere il passato dell’oggetto narrato col presente di chi lo narra, specchiare il punto di vista dell’io storico in quello dell’io scrivente, (…) passare dalla vicenda individuale alla storia collettiva” (Boscolo, p. 20). Privilegiare, come osserva Monica Jansen , “il confronto diretto con la realtà narrata e (..) il modo esperienziale” (p. 73). Si torna insomma alla realtà, non per rifletterla in uno specchio ma per smontarla come in un’officina.
Concludo citando un passo di Wu Ming 1 che in un recente intervento sul New Italian Epic sostiene, dopo aver rilevato l’inaridimento di quella nebulosa che un tempo aveva costituito il NIE: “Se dovessi fotografare la scena letteraria italiana oggi, sei anni dopo il memorandum, ne risulterebbe un’immagine molto diversa. Già allora la mia era una ‘istantanea del passato’, del periodo 1993 – 2008. Fotografavo una scena che si stava già allontanando nel tempo. Oggi la ‘vena’ di molti autori i cui libri NIE avevo incluso nel memorandum si è inaridita (alcuni sono addirittura morti!), e pochi hanno lavorato per prolungare in avanti le linee di tendenza che cercavo di individuare. La lunga crisi ha accelerato il tracollo dell’editoria, un tracollo non solo economico ma culturale e di idee, e mi sembra che in Italia stia uscendo poco di davvero interessante. O almeno, esce poco che interessi a me. Delle ‘tendenze’ individuate nel 2008, l’unica che procede a grande velocità è quella degli ‘oggetti narrativi non-identificati’, ma non è certo una prerogativa italiana, l’ibridazione delle tipologie testuali è una cosa che sta avvenendo in tutto il mondo.”