di Marilù Oliva
Messina è ambientazione principale, nonché premessa, di questo romanzo da poco uscito per il Saggiatore, nella collana La Cultura. Perché, come l’autore stesso ha dichiarato: «Il titolo di Voi non siete qui nasce prima del libro, quando mi è stato chiesto di scrivere un testo su Messina. Lo intitolai così, pensando alle mappe turistiche. Poi è nata l’ispirazione per il romanzo, che parte da Messina e arriva a Mosca». Consapevole che sia un luogo antinarrativo per eccellenza, Guglielmo Pispisa (nella foto sotto) sceglie questa città per presentarci il protagonista, un giovane azzeccagarbugli vanesio, superficiale, colmo di pregiudizi, sposato e con prole, anche se sembra spesso dimenticarsene, certo frutto dei suoi tempi – la funesta generazione che ascoltava Tainted Love dei Soft Cell – e incapace di essere l’uomo che vorrebbe. Un inadeguato del nuovo millennio che però dei suoi anni subisce precipizi e seduzioni. Si chiama Walter Chiari e chissà che l’omonimia con quel Walter – quello celebre – non sia uno sberleffo del destino nei confronti di un avvocato pieno di velleità, ma presto deluso e scaricato dal suo capo, che lo liquida dallo studio legale in cui lavora. Il brano che segue sotto è a pagina 20, proprio nel momento più delicato del suddetto colloquio. Momento chiave del romanzo, perché innesca lo sviluppo successivo di una trama portata avanti con maestria, coinvolgendo legge segrete e faccendieri, nonché una figlia di papà che si offre tutta, generosamente, senza svelare quanto in realtà stia tirando i fili.
In un contesto dove chi non diventa massone fa quasi scandalo, in una società di autoassoluzioni spicciole, dove la giustificazione al proprio operato ha sbaragliato l’esame di coscienza, si muove chi decide e chi china la testa.
Pispisa è uno dei fondatori dell’ensemble narrativo Kai Zen, autore della Strategia dell’ariete (Mondadori, 2007). A proprio nome ha pubblicato Città perfetta (Einaudi, 2005), La terza metà (Marsilio, 2008) e Il Cristo ricaricabile (Meridiano Zero, 2012).
«La sua bocca si aggriccia in una smorfia di dolore, come avesse una botta
secca di gastrite, e sibila il gran finale sulla perdita di qualità La qualità nel nostro lavoro non esiste più perché non importa a nessuno. Per i clienti veri, quelli seriali, quelli che fanno gli studi legali – le banche, le assicurazioni, gli enti pubblici – rappresentiamo solo una voce di bilancio da far quadrare con le altre: spese legali. Vincere o perdere le cause non frega niente. Le banche, i crediti problematici li cedono, non li mandano più a contenzioso, preferiscono realizzare subito un decimo del valore che aspettare dieci anni di causa, per cui non hanno bisogno di avvocati bravi, gli bastano scribacchini a buon mercato. È uno schifo. “Tutto uno schifo” faccio eco ancora. E lui mi brucia: “Ma veniamo a noi”. Stringe gli occhi, mi scruta l’anima, che deve avere individuato in un punto preciso all’altezza del mio sterno. Si alza, fa il giro della scrivania e si siede sulla poltrona vicino alla mia. “Dio solo sa quanto mi costa dirti queste parole.” Mente, sta mentendo, maledetto bugiardo, lo capisco quando mente. “Ma non posso più rimandare, ho aspettato settembre per non rovinarti l’estate ma ora devo dirtelo per forza.” Il vuoto mi si apre sotto la sedia, come una botola sul palcoscenico di un prestigiatore di provincia. Mi inghiotte. Ci tiene a precisare che la stima è invariata. Il mio lavoro è ottimo, anzi il problema è proprio questo: sono troppo bravo e non può pagarmi di meno, solo che la bravura non serve più. Quello che serve adesso può farlo anche un praticante a 300 euro al mese. A me bastano 300 euro? No che non mi bastano, e dunque il finale della recita si scrive da sé. Credo mi stringa il braccio con forza, ma a questo punto ogni mia percezione sensoriale è alterata e non ne sono sicuro. È come se fossi entrato nel corpo di un altro e lo vestissi come uno scafandro. Anche la mia mente sembra appartenere a un altro, non la controllo più o meglio la controllo con una sfasatura di qualche decimo, come con il telecomando della tv satellitare. Vittorio mi elargisce un’ultima perla esperienziale. “Nella nostra professione” dice “ci sono tre fasi. La prima in cui lavori per gli altri, la mediana in cui lavori per te stesso e l’ultima quando sono gli altri a lavorare per te.” Mi invita a considerare questo come un momento di crescita, il passaggio alla maturità. Adesso devo lavorare per me, contare su di me e godere interamente dei frutti del mio lavoro: sono io il mio capo. Ma io chi? Mentre esco il mio ormai ex boss si premura di precisare che non c’è nessuna fretta, mica gli serve la scrivania, posso prendermi tutto il tempo, organizzarmi il lavoro da qua, tanto almeno fino a gennaio non prende nessuno. Chi, del resto, potrebbe sostituire la mia costanza e la mia qualità. Non sarà una vera sostituzione – anche questo ci tiene a dire quando ormai gli volto le spalle –, ma un rimpiazzo. E si fotta chi non coglie la differenza. Non so nemmeno come sono arrivato nella mia stanza, non ricordo di avere percorso corridoi o visto segretarie, non ricordo il tragitto o le scale. So che un secondo fa ero davanti a Vittorio e avevo un lavoro e dunque una dignità un’esistenza, mentre ora, solo un secondo dopo, sono seduto a una scrivania che già esito a definire mia (per quanto ancora, una settimana, un mese?), guardo nel vuoto dello schermo del computer e misuro ciò che rimane di me, come chi si tocca il corpo dopo essere stato investito per sincerarsi di cosa è rotto e cosa no, dov’è contuso e dove escoriato. Passo una mano sul volto. È uguale a prima, eppure diverso, è la faccia di un altro. Respiro e chiudo gli occhi cercando di ritrovare il battito del cuore. Non lo sento. Li riapro nel rosso lacca dei fascicoli in attesa sulla scrivania. Li spingo oltre il bordo con un gesto lento della mano, il tonfo è meno drammatico di quanto vorrei, l’elastico regge e nemmeno un documento si sparpaglia sul pavimento. Il gesto ha influito solo sul mouse del computer che ha interrotto il loop del salvaschermo. L’orologio in basso a destra dice 10.41. Sono seduto qui da un’ora e mi sembravano pochi minuti. Devo reagire e razionalizzare. Posso farlo. Devo farlo per forza. Allora. C’è il mutuo della casa, innanzitutto, 1143 euro al mese. Poi la rata della Golf che ancora non ho finito di pagare, e sono altri 350, contratto del telefonino 50 euro, televisione via cavo 36 euro, metti una media di bollette bimestrali acqua luce gas telefono fisso di 400-500 euro, che fanno altri 200-250 al mese. Siamo a settembre, c’è il contributo minimo trimestrale della cassa previdenza avvocati: 850 euro. Siamo a 2679 euro. Più l’asilo di Emanuele 300 e il cibo e le spese impreviste e le scemenze come ristoranti e cinema. Ce ne vogliono almeno altri 1000. Fanno 3700, e solo per non affogare. I miei clienti personali sono pochi e tutti piccoli, non ho flussi, solo incassi saltuari. Metti che riesco a fare anche 500, 600 al mese (e non ci riesco), dove devo andare? Soprattutto ora che avrò nuove spese per pagare l’affitto di uno studio mio. Anche a dividerlo con altri, meno di 500 non pagherò quindi quello che forse posso guadagnare se ne va dritto in spese vive. Letizia contribuisce, chiaro, ma la supplenza quest’anno, con la contrazione delle classi e dei posti per il sostegno, tarda ad arrivare, sempre ammesso che la prenda, e perciò siamo daccapo a dodici. In banca ho meno di 6000 euro e ancora deve arrivare l’addebito della Visa che con le vacanze e tutto sarà una botta. Il mio limite di scoperto su conto è 10 000. Diciamo che ho quattro mesi di tempo prima di finire a gambe all’aria. E così come sto, senza la collaborazione con Vittorio, a gambe all’aria ci finisco sicuro. Non ho mai fatto politica, non sono massone, non ho parenti vescovi e nemmeno preti. Metà dei miei amici fa il mio stesso lavoro e pure due miei cugini. Dove li trovo i clienti? Non fra i parenti, non fra gli amici, non con lo scambio di favori perché non ho nulla da scambiare. Ho quasi quarant’anni e nessuno che mi debba un favore. Cosa ho sbagliato? Dove ho buttato gli anni migliori della mia vita, quelli in cui, come diceva mia nonna, dovevo farmi avanti?».