di Luca Baiada

Fucecchio3

Sono almeno 174, il 23 agosto 1944, i caduti nella strage del Padule di Fucecchio. Le classifiche della morte sono imbarazzanti, ma per grandezza è probabilmente la quinta fra le stragi nazifasciste in Italia, la terza in Toscana. Intorno alla palude interna più vasta d’Italia, in poche ore la Wehrmacht, reparto esplorante della 26 divisione corazzata, insieme a fascisti italiani scatena un massacro.

A che serve dire che è una strage speciale, se ogni strage lo è? Ma Fucecchio non sta in nessuna misura. Non è una reazione a un clamoroso attacco partigiano. Non è neppure un crimine improvviso, senza precedente conflitto: la Resistenza esiste, anche se le formazioni importanti sono fuori del Padule, e dentro ce n’è una più piccola. Non è un crimine casuale, ma non è neppure selettivo: muoiono maschi e femmine di ogni età. Non è indiscriminato, ma neppure preciso: le uccisioni avvengono in quattro edifici, alcune capanne di sfollati, e per il resto in campi, stradine, boscaglie e canali. Solo uno dei morti è un partigiano, ma un altro è un agente degli Alleati, e la casa più colpita è quella di un contadino che rifornisce di cibo la Resistenza.  Però muoiono anche fascisti, senza importanza nell’apparato repubblichino, che si credono al sicuro.

La ripartizione per genere sgomenta. Fra i morti le femmine sono tante, più di un terzo. Però guardiamo all’età. I minorenni sono un quinto del totale, e fra loro maschi e femmine sono quasi pari. Ma fra gli adulti, i maschi sono più di due terzi. Insomma, sono le uccisioni di bambine a spostare verso l’alto, oltre il terzo delle vittime, la proporzione delle femmine sul totale. Tra infradiciottenni, le femmine hanno anche un’età media più bassa. Però femmina è la più vecchia, nata prima dell’Unità d’Italia. Ma femmina è la più giovane: Maria Malucchi era nata nella primavera 1944, e non vide l’autunno. Su di lei la memoria non si è fissata come su Anna Pardini: 20 giorni, la più piccola di Sant’Anna di Stazzema, là una piazza porta il suo nome.

Siccome certe cose viene voglia di dimenticarle, riepiloghiamo. Degli italiani complici, nessuno mai condannato, anche se alcuni furono riconosciuti. Il comandante della divisione, Peter Eduard Crasemann, e quello del reparto esplorante, Josef Strauch, negli anni Quaranta ricevono pene miti che non scontano per intero. Nel 2012 i sottufficiali Fritz Jauss e Johann Robert Riss ricevono l’ergastolo, ma restano in Germania. In concreto, dal 1950 nessuno sconta un castigo.

Quando si parla del Padule viene da chiedersi perché. È stata chiamata «ossessione della causalità», e riguarda tutti i grandi massacri, ma qui è più assillante, perché le caratteristiche di questa strage si spiegano solo in parte. Certo, è compiuta nella zona di gronda, intorno agli acquitrini. All’arrivo dei tedeschi molti uomini in età adulta fuggono, pensando a una razzia di braccia da lavoro, mentre donne, bambini e vecchi restano e sono uccisi. Eppure qualcosa non torna, e la struttura sparpagliata del crimine, insieme alla sopravvivenza di alcuni e non altri, apre un incubo di congetture. Anche lo storico Carlo Gentile ha notato che nonostante la strage sia una delle maggiori in Toscana, non è mai stata del tutto chiarita. Se per chiarire si intende rinunciare alle ombre, non incamminiamoci su questa strada. Le ombre sono il nido della memoria, il suo corpo caldo e caotico. E Fucecchio – si ammette a malincuore – è una buona scuola, un caso da antropologia della violenza. Ma c’è qualcosa di più profondo.

Questa storia trascina con sé una rimozione, e un ruminare del vissuto e del trauma. Fuori della Valdinievole non è stata abbastanza ricordata, eppure la vastità del massacro è eccezionale. I reparti speciali – SS, paracadutisti e altri – commettono tante stragi, in Italia. La Panzergrenadier-Division Reichsführer-SS e la divisione Hermann Göring causano una media di morti per episodio doppia di quella complessiva delle stragi, e sono le sole formazioni che uccidono oltre cento persone per volta, come accade a Sant’Anna di Stazzema. Invece, nel Padule a uccidere è la Wehrmacht, e va oltre cento morti, tanto che qualcuno ancora crede che siano state le SS.

Anche se la Wehrmacht appoggia altre grandi vicende di sangue in Italia, quando agisce da sola neppure si avvicina a 174 morti, e poche volte si accosta a un terzo di questa cifra. Come accada, che il 23 agosto nel Padule la Wehrmacht commetta un crimine tanto più grande, è una cosa che molti hanno tentato di decifrare. Gli esiti sono così deludenti, che tutto questo deve servire a imparare una lezione. Meglio respingere il protagonismo del carnefice, ridimensionare la questione del perché, e concentrarsi sui morti e sui superstiti. Raccogliere amorevolmente le loro storie. Accettarle, come quella di ognuno di noi, frammentarie. Per esempio, Bruna Fagni Pratolini, cento anni compiuti qualche mese fa, che con una prontezza eccezionale, dal centro della strage, si allontana portando con sé suo fratello, un contadino ferito e alcuni bambini. E ce ne sono tanti altri, sopravvissuti, cioè vissuti, quindi vivi, segnati e indispensabili. Chi li incontra non li dimentica.

Questa strage sfugge a una comprensione sistematica e ci sfida ad affinare una memoria insieme spezzata e valoriale. Il tutto e le sue parti non sono in contrasto. Il perché e l’insensatezza sono due modi di essere della stessa realtà. I ricordi episodici e la memoria semiotica possono intrecciarsi. Ecco la madre che muore mentre allatta, e fa in tempo a dire: «Puppa, bimbo, puppa!». Ecco Carmela Arinci, cieca e sorda, che vaga fra i cadaveri dei familiari, e chiama: i tedeschi le mettono una bomba nella tasca del grembiule. Ecco Ferdinando Monti che si costruisce un nascondiglio, ma lo lascia perché ha promesso alla moglie di andare a trovarla: lei non lo vedrà arrivare. E Angiola e Angiolo Santini, nomi da affresco di campagna, col loro figlio Dario: muoiono sugli stessi prati, cercandosi invano. E Maria Parlanti, leonessa toscana, che mette su un barchino sua figlia Italia ferita, e naviga in un canale, in mezzo alle pallottole, e la porta sino a un casolare, e cerca di farla accompagnare all’ospedale, ma è fermata dai soldati. L’Italia che muore dissanguata, e la Maria china su di lei, che cerca di salvarla: una Pietà novecentesca che riassume anche nei nomi, davvero parlanti, una religione nazionale senza lieto fine, dura come uno schiaffo. Ma la flashbulb memory degli scampati – chi riceve i loro ricordi accoglie un susseguirsi di immagini fulminee – può fluire dentro altri testimoni. La raccolgono altri, quelli che non c’erano. Proprio perché non c’erano. Proprio tu, tu che stai leggendo.

Il 23 agosto 1944, dopo il massacro, una donna cerca il marito nascosto in Padule, e canta per farsi riconoscere. Lo ricorda molti anni dopo un testimone: «Era un canto velato dal pianto. Quando arrivò vicino che ci vide, cominciò a piange. “Che è successo? che è successo?”. Allora cominciò a dire: “Hanno ammazzato Tizio, hanno ammazzato Caio, hanno ammazzato questo, hanno ammazzato quello”. Insomma, avevano fatto una strage».