di Danilo Arona
[Perseguitati e massacrati in questi giorni dai nazisti islamici di Abu Bakr al-Baghdadi, gli Yezidi – minoranza curda da sempre perseguitata – meritano un approfondimento in questo spazio. Operare per salvarli e salvare con loro la straordinaria cultura sincretica di cui sono portatori dovrebbe figurare tra gli imperativi del mondo circostante. Purtroppo tale mondo, un Occidente ambiguo e diviso e un’Europa particolarmente narcolettica, non riesce neppure a decifrare il movimento a tenaglia che da nord – il califfato dell’ISIS – all’estremo sud – Boko Haram e le sue varie propaggini, ultimo nato il califfato libico – sta stringendo a tenaglia verso l’imbuto del Mediterraneo milioni di anime e corpi in fuga. Le seguenti considerazioni sugli Yezidis risalgono al 2003 e forse necessiterebbero di qualche aggiornamento, ma sono storicamente esaustive.]
Scrivere, per quanto superficialmente, degli Yezidis, presunti “adoratori del Diavolo”, significa sfiorare il drammatico problema dei perseguitatissimi Curdi. Allora occorre, per quanto possibile, avere presente la geografia dei luoghi ai quali ci stiamo riferendo. Siccome non possiede confini naturali ben precisi, definiremo il Kurdistan solo quella regione dove i Curdi costituiscono la proporzione predominante della popolazione locale e che si trova divisa tra Turchia, Iran, Iraq, Siria e le repubbliche ex sovietiche di Georgia e Armenia. Per lo più montuoso, il Kurdistan è percorso dalla catena degli Zagros a est e da quella del Tauro a ovest; il monte Ararat segna approssimativamente il confine settentrionale e la Mesopotamia quello meridionale. Il territorio è ricco di acque fluviali non navigabili: il Tigri e l’Eufrate nascono nel Kurdistan turco, l’Arasse lungo i confini con l’Armenia, e altri fiumi come il Piccolo e il Grande Zab, il Sirwan (Diyala) e Khapur, rendono il terreno molto adatto all’agricoltura che con il petrolio, il ferro, l’oro, l’alluminio e soprattutto il cromo, costituisce una delle principali risorse della regione, insieme al potenziale idroelettrico. Della Siria i Curdi abitano la zona nord-orientale, cioè parte della fertilissima regione dello Djeziré, e il Kurd Dagh. Questa regione della Siria è stata sempre il rifugio naturale dei profughi, che riuscivano a sottrarsi alle persecuzioni turche e prima ancora a quelle ottomane. La parte settentrionale dello stato iracheno è quella che corrisponde grosso modo al Kurdistan meridionale: regione non particolarmente estesa rispetto alla totalità dell’intero territorio, comprende però zone di grande importante strategica per l’economia dell’Iraq, dal momento che ne fanno parte i due territori di Mosul e Kirkuk che, da soli, forniscono il 75% dell’esportazione petrolifera irachena. La zona è anche piuttosto fertile, data la presenza del Tigri e dei suoi affluenti.
La religione dei Curdi, oggi, è in prevalenza islamica. Paradosso quanto mai pesante, viste le persecuzioni crudeli che anche il mondo musulmano ha loro riservato. Solo gli Yezidis non si sono mai convertiti.
Per lo più misteriosi agli occhi dell’Occidente, gli Yezidis sono stati più volte oggetto di confusione e di errate interpretazioni. Sino a non molto tempo fa li s’identificava, per esempio, con gli altrettanti oscuri Ansaireth o Nusairis di Siria, un gruppo estremista di origine sciita di carattere iniziatico-gnostico, con cui l’occultista tantrico americano Pascal Beverly Randolph, l’iniziatore della cosiddetta “magia sessuale”, ebbe nel secolo scorso contatti e diverse iniziazioni. Il più illustre rappresentante della Chiesa Satanica statunitense, Anton LaVey, deceduto nel ’97, di sicuro adattò per un suo rituale definito “la dichiarazione di Shaytan” un antico cerimoniale degli Yezidis, ma gli etnologi moderni hanno dissociato in tempi più recenti la setta curda dal satanismo, soprattutto nel senso che il termine ha nel resto del mondo non islamico. Anche perché i loro concetti sul “demoniaco” sono molto distanti da quello occidentale e la loro religione è divenuta di grande e pubblico interesse nel processo di rinascita del nazionalismo curdo.
Dispersi in Armenia, nel Caucaso, in Iraq (negli altopiani di Jabal Sanjar ai confini con la Siria – dove proprio stanno riparando in questi giorni) in Georgia e in Turchia (con una rilevante diaspora concentrata in Germania) gli Yezidis “praticanti”, circa cinquantamila persone, si concentrano tutti quanti in piccole comunità che vivono nei dintorni della città di Mosul.
Sì, proprio quella Mosul, in cui il dio alato Pazuzu è tornato alla luce tanto nella realtà che nella finzione. Ed è nei dintorni di Mosul, a Lalish, che avvenivano, sino a quando le guerre non le hanno rese più possibili, le due festose adunate annuali, in ottobre e in dicembre, durante le quali i fedeli sacrificavano tori e adoravano diverse creature alate.
Il nome “Yezidi” dovrebbe essere una combinazione tra la radice “Yazdan”, che significa “dio”, e i termini “Yazata” e “Yezad”, in altre parole “angelo”, tutti vocaboli di derivazione persiana. Il mondo degli Yezidis sarebbe stato creato da Lucifero, l’angelo caduto ma anche l’angelo supremo, adorato nella simbolica forma del pavone e conosciuto come Malak Tawus. E quello che segue è il loro mito di fondazione:
C’era una volta un pastore, Yezid, che stava riportando il suo gregge nella caverna sulla montagna in cui viveva. All’improvviso il cielo venne squarciato da un lampo accecante mentre, quasi simultaneamente, si udì un assordante rumore di tuono. Il pastore atterrito vide apparire un angelo in mezzo al cielo con un’enorme lancia in mano. Seguì un altro tremendo rombo di tuono e cadde un fulmine, mentre qualcosa era scagliato giù dal cielo e precipitava sui picchi. Si levò una potente raffica di vento che percorse le cime delle montagne. La vallata ne fu scossa. Subito dopo una grande quiete. Riavutosi dal terrore, il pastore si alzò dalla terra sulla quale era caduto e si guardò attorno. E notò che, all’interno di una profonda gola, laddove si era abbattuto il fulmine, era comparso un enorme cedro. Dalla parte opposta al cedro si vedeva un meraviglioso pavone, malconcio ma ancora vivo, che si guardava attorno mentre tentava di uscire dall’abisso. Il pastore, con notevole rischio per la sua vita, camminò carponi sino all’albero caduto e prese l’uccello sofferente tra le sue braccia. Dopo aver lavato le sue ferite in un vicino ruscello, lo portò dentro la caverna che era la sua casa. Senza minimamente pensare al riposo, lo assistette per tutta la lunga notte. Quando giunse il mattino, il pavone si era completamente ristabilito e parlò al pastore in voce umana dicendo: “Non avere paura, uomo, tu sei stato cortese con me nella mia disgrazia, così io voglio ricambiare con te e con tutti i tuoi discendenti. Io sono lo Spirito del Male, scagliato giù dal cielo dal mio fratello, lo Spirito del Bene. Ma io non sono sconfitto, Sulla terra, come in cielo, voglio continuare la lotta. Tra gli uomini io seminerò infelicità e instillerò il mio veleno nei loro cuori in modo che un acerrimo conflitto possa nascere fra le genti e instaurarsi in modo permanente. Insegna ai tuoi discendenti ad accettare il Male come tu hai accettato me. Sii compassionevole nei confronti del Male come per voi stessi e gli altri. Dilettami con delle canzoni. Placami con delle preghiere. Assistimi come mi hai assistito nella notte appena trascorsa”. Così dicendo, l’Angelo Pavone, Malak Tawus, come aveva detto di chiamarsi, spiegò le sue ali e volò sulla cima inaccessibile della montagna.
Non è difficile capire perché il resto del mondo religioso (cristiani e musulmani hanno a lungo e spietatamente perseguitato gli Yezidis nel corso dei secoli) disprezzi i discendenti di questo compassionevole pastore, da cui emana senza dubbio una forte componente di tolleranza non comune per i gruppi religiosi che vivono isolati. “Dal giorno della caduta dell’Angelo Ribelle”, dichiara un esponente Yezidi durante il raduno di dicembre, data che commemora la nascita di Yezid e coincide con il solstizio d’inverno “noi cantiamo inni per placare e glorificare lo Spirito del Male, ma i nostri inni sono disprezzati dal resto del mondo. I cristiani e i musulmani ci odiano e ci perseguitano. Ci chiamano ‘Muraddun’, ovvero infedeli e adoratori del Diavolo. I nostri preti, i Qawasls, lavorano in segreto e non fanno uso di abiti sacerdotali. Loro portano con sé, tentando di sfuggire agli occhi dei cristiani e dei musulmani, l’effigie del dio pavone. Quando noi preghiamo, non guardiamo verso La Mecca come i musulmani, ma verso la stella polare, inamovibile fonte di luce nelle tenebre, centro focale attorno al quale ruota l’universo. Lucifero per noi non è l’occidentale principe del Male e delle Tenebre, ma il capo supremo degli angeli e portatore di luce. È lui che ha creato il mondo materiale usando le parti smembrate dell’uovo cosmico, la Perla, nel quale una volta risiedeva Dio, lo Spirito Universale”.
Ai grandi raduni di Lalish, i seguaci si prostravano per adorare l’icona bronzea dell’Angelo Pavone, definita anche Anzal, “il grande anziano”, l’angelo supremo, nonché altre sei creature alate simili al capo, chiamate “sanj’aqs” (diocesi), ognuna delle quali assegnata a rappresentare una comunità Yezidi. Era un vero e proprio culto degli angeli caduti nel quale era assente la proverbiale distinzione tra il bene e il male. La filosofia religiosa Yezidi, per quanto corrotta con elementi giudaico-cristiani, nega infatti l’esistenza della malvagità e rifiuta quindi il concetto del peccato, del diavolo e dell’inferno. Un’occasionale disobbedienza alle leggi divine è espiata attraverso la metempsicosi, la trasmigrazione delle anime attraverso la quale avviene la progressiva purificazione dello spirito. Lucifero ha pagato, cadendo sulla Terra, e trasferendosi nel corpo del pavone. Dalla sua vicenda si traggono auspici di perdono e di tolleranza.
È una posizione forse incomprensibile per un occidentale, come già lo era il concetto del “male contro il male”, traslato anche da William Peter Blatty ne L’esorcista. Ciò che invece salta agli occhi è che, a meno di trenta miglia dai templi di Lalish, ci sono – o dovrebbero ancora esserci – i siti archeologici di Shanidar-Zawi Chami, nel Kurdistan turco, dove gli archeologi Ralph e Rose Solecki scoprivano negli anni Cinquanta antiche rovine e grandi ali di uccello, particolarmente quelle di una grande otarda, risalenti a oltre diecimila anni fa, reliquie indicative di un religioso rituale che implicava gli uccelli e che impiegava le loro ali, possibilmente come parte di un particolare costume sacerdotale.
La rappresentazione delle ali dell’uccello nelle figure degli dei e dei demoni è molto comune nell’arte della Mesopotamia, soprattutto nelle rocce reali scolpite degli Assiri, la cui capitale Ninive è letteralmente visibile sull’orizzonte da Lalish. L’artistica combinazione di ali ed esseri non alati come umani (per raffigurare gli dei), leoni (le sfingi), tori (simboli reali) e cavalli (il dio alato Pegaso) o le ali più in generale come ornamento nei costumi sacerdotali, sono comuni in molte culture, ma la rappresentazione della suprema deità come un uccello pennuto e in grado di volare è una peculiarità degli Yezidis. L’evidenza dei riti sacrificali d’uso comune nell’antica Zawi Chami può essere identificata come un’usanza indigena che ha precorso la moderna pratica Yezidi. L’uccello icona di Lalish è il pavone. Però non esistono pavoni in Kurdistan.
Alla luce delle scoperte di Zawi Chami, la grande otarda potrebbe essere la “vera” icona originale degli Yezidis, in quanto nativa del Kurdistan e assomigliante al pavone, che è in realtà un uccello originario dell’India. Ma, forse, la verità potrebbe essere un’altra. Perché quelle grandi ali fossilizzate, a volte sei e a volte quattro, potrebbero identificarsi pure come le ali dei Veglianti, la mitica razza degli angeli corrotti divenuti, dopo la caduta, esseri maligni e crudeli. Forse l’immagine di qualcuno di loro è ancora indossata oggi da qualche sacerdote Yezidi come uno scudo protettivo. Oggi come nel 1841, quando sir Henry Layard intravide la testa di Pazuzu al collo di alcuni “adoratori di Lucifero”.
Infine vanno ancora ricordati due fatti. Il primo: da Lalish si diparte un’invisibile, immaginaria striscia di circa trecento miglia che si estende da un lato alla congiunzione mediterranea di Siria e Turchia, e dall’altro alle montagne del Caucaso in Russia. Lungo questa striscia, a intervalli più o meno regolari, si trovano sette strane torri, sei delle quali a forma trapezoidale, e una sola, quella sul monte Lalesh, forgiata come una punta aguzza scanalata. Ognuna di queste torri – che Anton LaVey definì “le torri di Satana” – è ricoperta sulla cima da un lucentissimo specchio in grado di concentrare e riflettere la luce del sole, per fungere da Power House (casa di potere) dalla quale un mago possa irradiare potenza ai “discendenti dei Veglianti” (gli Yezidis si definiscono anche così) e influenzare gli umani eventi nel mondo circostante. Il secondo fatto: tra i vari miti di creazione degli Yezidis ve n’è uno che racconta come una creatura, metà leone e metà aquila, chiamata Imdugud, ruba le tavole del Destino al Dio Ellil per diffondere il suo potere nell’universo e “controllare” il destino di ogni uomo.
Ma Imdugud non è altro che uno dei nomi di Anzu, la versione sumerica di Pazuzu.