di Simone Scaffidi Lallaro
Olanda-Costa Rica, 5 luglio 2014
Mani color d’ebano aumentano l’intensità del movimento mentre palmi consumati s’infiammano di porpora viva. Il bianco degli occhi di quattro ragazzini segue l’ondeggiare rapido di un gruppo di gonne variopinte. Poco più in là altre gonne, questa volta bianchissime, assorbono le iridi colorate di volti meticci. Un bambino con i dreadloacks si scatena in prima fila piroettando sorrisi disritmici. Ancora non lo sa ma quel ritmo sta entrando nel suo sangue, soltanto qualche anno e il corpo godrà dei lavorii del tempo scanditi dal pandeiro, dai gemiti della cuica e dal suono acuto dell’agogò. La violenza delle braccia travolge l’incedere lento e sensuale delle danze, il battito cresce, le pelli di capra raggiungono la massima tensione, la terra pare tremare sotto i colpi disarticolati di centinaia di gambe fuori controllo, gli occhi non riescono più a insinuarsi tra le pieghe delle gonne. Alcuni si chiudono, altri si spalancano oltremodo. In quell’attimo tutto sembra potersi disfare: le pelli lacerarsi, i colori colare sui corpi, il bianco degli occhi liquefarsi.
L’istante che segue è un’esplosione silenziosa nella quale si insinua il canto leggero di una donna, proveniente dalla strada: «…era uma casa muito engraçada, não tinha teto não tinha nada..», subito soffocato dallo scrosciare convulso di un applauso sincero. Nessuno nella sala a cielo aperto riuscì ad ascoltare il proseguo della canzone, alcuni la conoscevano, altri dimenticarono immediatamente quella strofa. Soltanto Zélia, avvolta in un lenzuolo bianco, e una manciata di senzatetto sdraiati nel vicolo, si addormentarono cullati dall’ondeggiare della melodia:
…ninguém podia entrar nela, não
porque na casa não tinha chão
ninguém podia dormir na rede
porque na casa não tinha parede
ninguèm podia fazer pipi
porque penico não tinha ali
mas era feita com muito esmero
na Rua dos Bobos Número Zero…[1] (ascolta versione brasiliana) (ascolta versione italiana)
Carla – maglietta rossa, pantaloncini sintetici e infradito – teneva tra le braccia una bambina nata da una ventina di giorni – la pelle nera e gli occhi lontani – e mentre la cullava, cantava. Il suo era un repertorio senza fine, sui suoi seni avevano sbavato centinaia di bambine e bambini del Pelourinho: figli di amici, orfani o figli di puttana. Zélia apparteneva a tutte e tre le categorie: figlia di un’amica puttana morta di parto e orfana di padre puttaniere. Carla di figli non ne aveva mai avuti e avrebbe staccato il collo a morsi al primo stronzo che le fosse venuto dentro. I patti erano chiari fin da subito: se qualcuno avesse deciso di fare di testa di cazzo propria sapeva cosa aspettarsi. L’ultimo, un gringo italiano, un tipo a posto con il quale aveva passeggiato sul lungomare di Rio Vermelho e condiviso la passione per la musica, portava ancora i segni di una scopata in cui non aveva rispettato le regole del gioco. Insieme all’amica Juliana l’avevano ricordato guardando Uruguay-Italia in uno dei pochi baretti del Pelò ancora gestiti da baiani.
Se l’erano risa di gusto al morso di Suarez, «chissà se ha ancora il segno quel povero ragazzo là?» aveva sghignazzato Juliana. Carla sorrise muovendo il capo su e giù, poi si difese gesticolando con l’unica mano libera che aveva – l’altra teneva Zélia stretta a sé –, ruotò il palmo sinistro verso il cielo e rammaricata rispose all’amica: «se l’è cercata il ragazzo.. un po’ mi è dispiaciuto perché me l’ero scelto io, non m’era corso dietro come un cane, c’intendevamo, gli raccontai perfino delle stagioni passate in Sardegna a vender collanine sulla spiaggia, lui ricordò una vacanza su quell’isola dove diceva di aver conosciuto una ragazza brasiliana in una caletta, io con freddezza gli dissi che di brasiliane che facevano quel lavoro lì ce n’erano tante, ma non ero mica sicura fosse davvero così.
Detto ciò a Suarez dovrei dargliela io qualche ripetizione se vuole davvero lasciare il segno!». E giù risate, troppo sincere per non svegliare la piccola che bofonchia infastidita. Carla la tira su con delicatezza e le poggia la testa nell’incavo tra il suo collo e la clavicola, il respiro di Zélia torna regolare. Le tre si allontanano dalla folla che grida insulti verso Suarez per scacciare il fantasma albi-celeste della Storia, imboccano un vicolo buio in discesa e spuntano in un largo. Qui, si siedono sui gradini del patio dove Carla sussurra a Zélia l’ennesima ninnananna, che questa volta più che a una filastrocca somiglia a un rap.
…quanto ti inviteranno a salire sul patio
della Fundação Casa di Jorge Amado
per vedere dall’alto la fila di soldati, quasi tutti neri
colpendo nella nuca di ragazzi neri
di ladri mulatti e altri quasi bianchi
trattati come neri
solo per mostrare a quelli quasi neri
(e sono quasi tutti neri)
e a quelli quasi bianchi poveri come neri
com’è che neri, poveri e mulatti
e quasi bianchi quasi neri da così poveri son trattati
e non importa se gli occhi del mondo intero
possano voltarsi per un momento verso il largo
dove gli schiavi erano castigati…
se sei stata alla festa del Pelò, e anche se non ci sei stata
pensa a Haiti, invoca Haiti
Haiti è qui, Haiti non è qui… [2] (ascolta)
Alle loro spalle l’azzurro pastello della Fondução Casa de Jorge Amado si fonde al giallo del Museo da Cidade in un gioco di luci che proietta sfumature verde acqua sui gradini del largo. L’odore unto di olio di dendê raggiunge il trio, Juliana caccia un urlo per richiamare l’attenzione di una donna vestita di bianco in fondo alla discesa, Carla le tira un’occhiataccia mentre Zélia muove i piccoli piedi infastidita. Porta un copricapo bianco la donna in fondo alla discesa e ha appena allestito il tabuleiro da baiana più illegale di tutta Bahia. Non ha l’autorizzazione per friggere nella piazza centrale di Salvador l’acarajé, la frittella a base di fagioli, cipolle e sale tipica della regione e non la ha neppure per smerciare maconha pura e béque prerollati.
Ma Adriana ha i contatti giusti nel quartiere, poliziotti e trafficanti affidabili sono clienti abituali del suo banchetto. Basta un cenno di intesa tra le due donne e Juliana rotola giù dalla discesa frenando la corsa con i rimasugli di suola delle sue infradito. Frana addosso alla donna vestita di bianco e le grida all’orecchio: «a Adriana é a vera presidenta-guerrilhera do Brasil! A Mujica do Pelò!». Le due si abbracciano, Adriana ha ancora una frittella nella mano, la riempie con vatapá e caruru, serve il primo cliente della serata e si china sotto il banchetto. Ne esce con un rotolo di carta stagnola tra le dita: «per te e Carla amica mia, un omaggio della casa.. Zélia come sta?», «e chi l’ammazza quella! È lassù che se la ronfa..», «ho degli amici olandesi che voleranno a Rio dopo la partita di sabato… cercano due accompagnatrici a posto.. a Zélia posso badare io per qualche giorno.. parlane anche a Carla e vedi che dice..».
***
Juliana e Carla sono sedute in tribuna, vicine e strette tra due uomini arrossati dal sole, nasi tronfi e pance rigonfie sotto le magliette arancioni: la numero 9 di Robin Van Persie e la numero 11 di Arjen Robben. Una birra, la Itaipava, dà il nome allo stadio di Salvador mentre i capitali investiti dalla multinazionale brasiliana del luppolo colorano di giallo e rosso l’arena. A pochi metri di distanza una manciata di orixas galleggiano sul Dique do Tororò, un lago naturale in mezzo alla città dove da piccola Carla si bagnava con sua madre. Le torna alla memoria una melodia che credeva di aver sotterrato sotto i ciottoli del Pelò, il ricordo di sua madre come in un film muto, le labbra che si muovono mentre la voce scompare, Carla ne legge il labiale senza sentirne il sapore del suono:
...fui no Tororó
beber água e não achei
achei bela morena
que no Tororó deixei
aproveita minha gente
que uma noite não é nada
se não dormir agora
dormirá de madrugada…
Anche Carla e Juliana indossano la maglietta arancione della nazionale olandese: la numero 20 di Georginio Wijnaldum per Carla e la numero 4 di Bruno Martins per Juliana. Le hanno comprate apposta in Europa per paura di non trovarle in Brasile, volevano farle indossare a due nere come loro, non mulatte ma nere come l’Africa, esattamente come i due giocatori olandesi: il primo originario del Suriname e il secondo della Guinea Bissau. Volevano vederle vestite solo di quelle magliette, passarsele e scambiarsele come si da un calcio a un pallone per soddisfare un sogno coloniale naufragato definitivamente nel lontano 1661 – una storia mai studiata ma perfettamente interiorizzata: quella della Nuova Olanda. Un fraseggio costruito da sorrisi viscidi e mani grasse scivolate sulle cosce dominò tutta la partita, una manovra compassata senza cambi di gioco, illuminata solo dallo scintillio di occhi nerissimi che affondavano come lame in avambracci grinzosi e perversi. In uno di quei lampi Carla ripensò all’unica data della Storia che ricordava: il 1791.