Forse avete già sentito parlare di Poveglia: è un’isola della laguna di Venezia, ricca di storia, di enigmi (potrebbe essere il luogo di sepoltura del Giorgione), di leggende e misteri, che il demanio ha messo all’asta per finanziare l’abolizione dell’IMU. Altre isole sono già state vendute e sono diventate private, in alcuni casi acquistate da gruppi alberghieri. In questo caso alcuni veneziani, insieme a molte persone a cui sta a cuore la sorte di questa città, hanno voluto fare qualcosa di nuovo per impedire questa ennesima vendita: unirsi in associazione e partecipare all’asta per l’assegnazione.
La notizia in Italia fatica, salvo poche eccezioni (qui e qui) ad uscire dall’ambito della stampa locale; fuori dall’Italia, ne hanno scritto Time, Público, Le Point, The Indipendent.
99 euro per 99 anni è stato lo slogan della campagna di sottoscrizione all’associazione PovegliaPerTutti e in appena tre settimane sono state raccolte alcune migliaia di adesioni.
Qui di seguito riportiamo il testo dell’appello Poveglia 99 eurox99 anni, che può essere sottoscritto qui, un articolo scritto da Tomaso Montanari, che da tempo si batte in difesa del patrimonio cuulturale italiano, e un video girato da Robin Saikia.
L’isola di Poveglia, antica città nella città, è oggi messa all’asta dal demanio. Potevamo semplicemente assistere all’ennesima svendita di un’isola a qualche albergatore internazionale, o tentare almeno una sortita, un progetto.
È per questo che vogliamo provarci: prendere in concessione Poveglia per 99 anni. Vogliamo che rimanga pubblica, aperta, ad uso di tutti. Se ti piace questa idea ti chiediamo di associarti a noi con 99 euro. Se la nostra offerta al demanio sarà la migliore, la comunità dei sottoscrittori, riunita nell’associazione ‘Poveglia’, gestirà democraticamente, a fini pubblici, l’isola. Perciò ci siamo dati dei paletti, un progetto di massima, a cui ti chiediamo di aderire e migliorare con le tue idee.
Quattro i punti fondanti, la carta costituzionale di questo progetto:
1. La parte verde dell’isola sarà dedicata a parco pubblico liberamente accessibile e gratuito, e ad orti urbani.
2. La parte edificata dell’isola, che può produrre utili -le cui caratteristiche e limiti etici decideremo insieme, in coerenza con questi punti fondanti- servirà a ripagare i costi di gestione della parte pubblica.
3. La gestione dell’isola sarà no-profit ed eco-sostenibile. Tutti gli utili saranno quindi reinvestiti sull’isola stessa.
4. Qualora dovessimo vincere l’asta, la quota sottoscritta darà diritto a partecipare equamente alle decisioni sulle sorti di Poveglia ma non è, e non sarà da intendersi in futuro, come forma di partecipazione agli utili, né quota azionaria, né fonte di privilegio alcuno per nessun associato.
Oggi perciò ti chiediamo 19 euro per una tessera di iscrizione all’associazione (che andrà a ripagare le spese di registrazione della stessa, del conto corrente, di partecipazione al bando di concessione, ecc) ed una quota di sottoscrizione straordinaria di almeno 80 euro. Qualora, ahinoi, non dovessimo vincere l’asta, al momento del rientro del deposito cauzionale la quota di sottoscrizione straordinaria verrà restituita ai soci.
Si tratta di una sfida. Metterci insieme per riprenderci un pezzo di città e gestirlo a fini pubblici.
Vogliamo provarci. Non lasciare che tutta la laguna, pezzo a pezzo, diventi un unico centro alberghiero di lusso.
Sottoscrivi la tua quota. 99 anni di Poveglia libera a 99 euro.
Un affare utopico.
Italia (s)vendesi. Come sempre
di Tomaso Montanari (“Il Fatto Quotidiano”, 12 ottobre 2013)
Non potrebbe esserci situazione più simbolica: per non intaccare la ricchezza privata si aggredisce la ricchezza pubblica, per non far pagare l’Imu nemmeno ai milionari si svendono gli immobili che appartengono a tutti, e dunque anche a chi non ha nemmeno una casa propria. Come sempre quando si tratta di raschiare il fondo del barile, anche il governo Letta lancia la vendita del patrimonio immobiliare pubblico: case, palazzi, castelli e caserme del popolo italiano saranno offerti in vendita a privati e a imprese, italiani o stranieri poco importa. Ci si aspetta di tirar su 2 miliardi di euro da un lotto che comprende un’isola della Laguna di Venezia, un castello medioevale nel Viterbese, ville storiche a Monza come a Ercolano e molto altro. Ci sono molte ragioni per cui questa scelta appare profondamente sbagliata: alcune sono pratiche, altre di principio. Le prime riguardano la congiuntura economica. Perché lo Stato dovrebbe fare ciò che nessuno di noi farebbe volentieri: e cioè vendere in un momento in cui il mercato immobiliare è in ribasso? Non si rischia così di svendere i beni di tutti, magari avvantaggiando la speculazione dei soliti noti? E non sarebbe meglio – parlo degli immobili non storici e non di pregio – affittarli? Magari non a enti pubblici, secondo il percorso perverso per cui non di rado lo Stato vende i beni che ospitano alcune sue istituzioni (per esempio le università), le quali sono poi costrette a pagare l’affitto ai nuovi padroni privati.
Ma, ammesso e non concesso che si riesca a vendere questo patrimonio a prezzi non iugulatori, siamo proprio sicuri che sia meglio monetizzarlo, e cioè esporne i proventi alle altalene di un mercato finanziario che potrebbe farli evaporare in un batter d’occhio, vanificando così il sacrificio di tutti noi? Già, perché l’endemica assenza di consapevolezza circa il fatto che “lo Stato siamo noi”rischia di farci dimenticare che vendendo questa riserva pubblica impoveriamo non solo noi stessi, ma le generazioni future, che ovviamente non hanno alcuna voce in capitolo nelle nostre scelte. Come ha efficacemente scritto Ugo Mattei (in Contro riforme): “In Italia il maggiordomo assunto a termine (la maggioranza del momento) ha il potere di vendere il patrimonio di famiglia (appartenente alla collettività dei cittadini) trasferendolo sottocosto ad attori privati amici e compensando profumatamente le banche d’affari che gestiscono tali ‘cartolarizzazioni’.
Questo vero e proprio saccheggio è stato esercitato in modo rigorosamente bipartisan da governi tecnici e riformisti, tutti preda senza alcuna distinzione degli stessi poteri forti di cui gran parte dei ministri è consulente, o comunque a libro paga”. E il fatto che questa operazione di ulteriore smantellamento della ricchezza pubblica venga affidata alla Cassa Depositi e Prestiti diretta da Franco Bassanini, tra i principali artefici del massacro della Pubblica amministrazione, non fa che confermare l’analisi di Mattei. Oltre al danno patrimoniale, le svendite decise dal governo Letta rischiano di provocarne altri sul piano culturale e sociale. Nelle ultime settimane il comitato di redazione del Corriere della Sera ha pubblicato una serie di comunicati sindacali dedicati alla possibile vendita della storica sede di via Solferino. In uno di essi (25 settembre) si legge che la Rizzoli non è nelle condizioni di Antonio, il Mercante di Venezia di Shakespeare che è costretto a dare in pegno all’usuraio Shylock una libbra della propria carne. Ed è per questo che i giornalisti del Corriere credono che non sia giusto “fare cassa svendendo il patrimonio storico e un pezzo dell’identità del gruppo (libbra di carne)”.
Se questa sacrosanta considerazione vale per il Corriere , essa deve valere a maggior ragione per la Repubblica italiana, che ha messo il patrimonio storico e artistico tra i propri principi fondamentali. Gli immobili pubblici, infine, sono una straordinaria riserva di democrazia,partecipazione e coesione sociali. Nelle nostre città c’è un enorme bisogno di restituire alla gestione diretta dei cittadini gli spazi improduttivi, e dunque sottratti a ogni forma di utilità sociale. Se questo vale, a rigor di Costituzione, addirittura per gli spazi privati, cosa dovremmo dire di quelli che appartengono a tutti noi? L’occupazione del Teatro Valle a Roma, del Teatro Rossi e del Colorificio a Pisa, dell’Asilo Filangieri a Napoli e moltissime altre sono lì a testimoniare la fame di spazi pubblici da rimettere al servizio della comunità. Moltissimi dei nostri archivi e delle nostre biblioteche non hanno spazio, e molti dei nostri musei dovrebbero potersi espandere. E molti degli immobili pubblici comunque a ciò non adatti potrebbero essere piuttosto affittati, a prezzi sociali, a cooperative di giovani pronti a impiantarvi delle attività imprenditoriali. Insomma, solo un cieco o un affarista non vede il potenziale democratico e sociale di un patrimonio che a tutto dovrebbe servire tranne che ad arricchire la speculazione.