[In libreria è appena uscito il nuovo numero del trimestrale “il Reportage”. La rivista contiene molti materiali di estremo interesse. Ne segnalo alcuni: un articolo di Angelo Mastrandrea sulle tracce del fotoreporter Robert Capa in Sicilia; un pezzo di Fabrizio Lorusso sul culto della Santa Muerte e un articolo sul poeta cileno Nicanor Parra, oltre a un’intervista a Ermanno Rea di Maria Camilla Brunetti e un bellissimo lavoro fotografico dedicato a un padre meccanico, con scatti della figlia fotografa. Oltre a tutto questo, c’è un mio articolo che mette in relazione due famiglie: una è quella del grande giocatore (e allenatore) del Milan, Nils Liedholm, l’altra è la mia. Le unisce il calcio, l’amianto e il Monferrato. L’articolo sta nella rivista, ma di seguito su Carmilla pubblico una mia intervista a Paolo Liedholm, nipote del grande Nils, che fa da anticamera al pezzo pubblicato da “il Reportage”. Colgo l’occasione per ringraziarlo per la foto con il nonno e la vecchia Lada che ci ha gentilmente concesso.] A.P.
Alberto Prunetti: Vorrei chiederti di spiegare ai nostri lettori cosa lega un grande campione del calcio come tuo nonno Nils con la tragedia delle morti per l’esposizione all’amianto. Ovvero come si arriva dai campi di calcio della serie A a quella maledetta fibra d’amianto che entra nei polmoni della gente di Casale, legando il ricordo di tuo nonno con quello di tua madre per spiegare un piccolo pezzo di genealogia familiare.
Paolo Liedholm: Nella storia della mia famiglia, alla fine, c’è sempre il pallone di mezzo. Nel 1982, mio padre lavorava come dirigente sportivo del Casale Calcio, squadra locale che allora militava ancora nelle divisioni professionistiche. Mentre mio nonno faceva l’allenatore tra Roma e Milano, mio padre rimaneva nella residenza di Cuccaro Monferrato, poco lontano da Casale, acquistata negli anni ’70 come casa di campagna. Nei ritagli di tempo, si dedicava all’azienda vitivinicola di famiglia, attività iniziata un po’ per gioco e poi diventata nel tempo sempre più importante. E’ stato proprio nella sede dei mitici “nerostellati” che mio padre ha conosciuto mia madre, Gabriella, all’epoca impiegata presso una società del gruppo del presidente. Sono stati fidanzati per cinque anni, prima di sposarsi nel 1987. Quando sono nato io, un anno più tardi, mia madre ha preferito dedicarsi a tempo pieno alla famiglia, mentre mio padre ha scelto di occuparsi a tempo pieno dell’ azienda agricola. Hanno vissuto insieme per vent’anni un’esistenza tranquilla, fino al gennaio 2007, quando mia madre ha deciso di sottoporsi a dei controlli medici per via di una fastidiosa fitta alla schiena. Purtroppo, le analisi hanno confermato i peggiori timori: mia madre aveva un mesotelioma pleurico peritoneale. Mio padre ha fatto tutto il possibile per trovare le migliori cure disponibili, riuscendo a farla operare a Boston, centro di eccellenza mondiale per la chirurgia toracica, ma purtroppo non c’era più nulla da fare. E’ mancata nel giugno 2008, a nemmeno 50 anni, lasciando un marito e due figli.
A.P.: Poi vorrei che mi raccontassi come hai vissuto il processo Eternit e che rapporti hai con l’Afeva, l’Associazione Familiari Esposti e Vittime dell’Amianto. La mia idea è che a Casale la gente, nonostante la tragedia che ha vissuto e vive ancora, sia riuscita a socializzare il proprio lutto, cioè a viverlo non come un problema solo personale ma a trasformarlo in un’istanza sociale, in qualcosa che mobilita le forze e le intelligenze dei familiari delle vittime. Ecco, ti va di raccontare qualcosa del tuo rapporto con questa città e i suoi abitanti?
P.L.: A mio modo di vedere, è questa la grande differenza dell’esperienza di Casale, la lezione che dovrebbe essere tenuta a mente. Di solito, alla chiusura dello stabilimento inquinante fa seguito la fine delle rivendicazioni. Venendo a mancare l’ interesse strettamente connesso all’aspetto lavorativo, si perde quell’attività di coordinamento e mobilitazione che tradizionalmente accompagna le rivendicazioni della classe operaia. Risultato: quando l’azione degli agenti inquinanti, come nel caso Eternit, è dilazionata nel tempo rispetto all’esposizione (il mesotelioma ha un periodo medio di latenza di 25-40 anni), si è nel frattempo persa la “memoria storica”, la capacità di organizzarsi in un fronte unito per far sentire la propria voce. E’ stato principalmente merito del sindacato se l’attenzione su questo tema è invece rimasta elevata. Anziché considerare il fallimento dell’Eternit come la fine di una storia, i protagonisti di quella fase, tra la fine degli anni ’80 e gli inizi degli anni ’90, hanno compreso, con grande lungimiranza, che si trattava invece dell’inizio di un nuovo capitolo. La vertenza doveva uscire dalle mura dello stabilimento e coinvolgere la società civile, se si voleva fornire una forma di tutela realmente efficace agli ammalati del futuro (che si sapeva già sarebbero stati non soltanto ex-operai). Per quello che riguarda la mia esperienza, non posso che essere profondamente grato all’Afeva. E’ merito di Bruno Pesce, Nicola Pondrano e tutti gli altri che hanno dato vita a questa associazione se ho trovato una struttura per convogliare la rabbia derivante dal senso di ingiustizia in qualcosa di positivo: la partecipazione a una battaglia di civiltà per giustizia, ricerca, bonifica. Nel periodo in cui sono stato maggiormente coinvolto nell’attività quotidiana dell’associazione (oggi, per motivi lavorativi, faccio purtroppo fatica a mantenere lo stesso livello di partecipazione) ho seguito soprattutto il Processo Eternit, nella duplice veste di studente di giurisprudenza e parte civile del processo. L’aspetto straordinario di questa esperienza, per quanto mi riguarda, è stato toccare con mano la natura di “rito collettivo” che le trasferte di Torino hanno assunto nel tempo. Coloro che partecipavano al processo non erano soltanto spettatori passivi; per due anni, per più di 80 udienze, hanno rivissuto la loro storia personale, insieme agli altri. Carovane di “sopravvissuti” che si riunivano alle prime luci dell’alba per andare nel Palazzo di Giustizia di Torino a sentire ricostruire la storia della loro gente, della loro città. La funzione sociale del diritto elevata al massimo grado.
A.P.: So che ti sei laureato in giurisprudenza. Vorrei che provassi a spiegare che sensazioni hai provato durante il processo, con da un lato il dato tecnico di persona esperta nel campo del diritto e dall’altro il coinvolgimento emotivo di chi si ritrova a portare in un’aula di tribunale il peso della morte della madre…
P.L.: Potrei scrivere una tesi per rispondere a questa domanda… e in effetti è proprio quello che ho fatto!
Scherzi a parte, la mia opinione è che il diritto penale possa avere una grande funzione simbolica e una straordinaria capacità di affermare presso la collettività l’importanza di alcuni diritti inviolabili, a patto di interpretarlo in modo corretto e di non cadere in eccessive semplificazioni.
Il rischio principale è quello di credere che la realtà descritta dalle sentenze coincida con il fatto storico: leggere cioè l’ enunciato “Schmidheiny è responsabile del disastro ambientale di Casale Monferrato” come se volesse dire che l’imprenditore svizzero e il co-imputato belga deceduto sono stati gli unici responsabili di questa storia tragica. E’ una forzatura che dipende da una errata percezione del diritto penale, il cui compito non è quello di ricostruire una storia, ma di affermare se una certa persona è responsabile di un determinato reato. E’ senz’altro confortante, sulla scorta delle sentenze, affermare che la popolazione di Casale è stata vittima innocente di un efferato criminale. C’è senz’altro del vero in una simile affermazione. La realtà però è un po’ più complessa.
La realtà è che l’Eternit era una multinazionale dalla struttura complessa e articolata, in cui Schmidheiny. era si il decisore finale, ma non certo l’unico. Le decisioni erano condivise con uno stuolo di amministratori, dirigenti e consulenti, italiani e non.
La realtà è che l’Eternit era il fiore all’occhiello di Casale, e non è da escludere che la sua centralità economica sul territorio abbia comportato…come dire…un certo ritardo delle autorità politiche e amministrative locali nel rendersi conto della gravità di quello che stava accadendo.
La realtà è che per un lungo periodo l’opinione di Casale , in totale buona fede e a causa della scarsa conoscenza dell’argomento, ha visto con scarso favore le persone che segnalavano i pericoli dell’amianto, ritenendoli pericolosi sovversivi che danneggiavano l’economia e il turismo.
La realtà è che la distribuzione del famigerato polverino (il materiale di risulta della tornitura, pericolosissimo) è stata si concessa in modo scriteriato dalla società, ma ha visto una partecipazione concreta di persone che facevano parte della realtà locale.
Con questo non voglio ovviamente sminuire le gravissime responsabilità di Schmidheiny. Ritengo però che sarebbe un errore individuare un soggetto cui imputare tutte le colpe di un evento così complesso, per poter così tornare a dormire “sonni tranquilli”. Ci sono tanti tipi di responsabilità, oltre a quella penale: politica, amministrativa, morale, etica, professionale… In conclusione: processi come quello dell’Eternit possono rappresentare la più civile forma di reazione della comunità a forme di criminalità così nocive, a patto che il diritto penale non finisca per “anestetizzare” le masse e semplificare storie che semplici non sono.
A.P.: Infine pensavo a questo strano caso del destino: tua madre potrebbe aver inalato la sua dose di fibre mortali respirando amianto in un campo di pallavolo posto nelle adiacenze della Eternit. Sempre questo strano caso: lo sport che nella tua famiglia è tanto importante e che diventa l’occasione per esporsi a un agente mortale…
P.L.: L’ho scritto all’inizio: lo sport sembra essere una componente inscindibile della mia biografia familiare.
Ormai da qualche anno mi capita a volte di andare a eventi e incontri in rappresentanza dell’Afeva, per raccontare la nostra storia. Di solito esordisco così: “Se sono qui oggi, è perchè mia madre, molti anni fa, ha commesso un errore imperdonabile. Ha pensato di poter giocare a pallavolo a Casale Monferrato”.
Si tratta, certo, di una frase a effetto per catturare l’attenzione di chi mi ascolta e fargli percepire la dimensione della tragedia casalese. Eppure… Quanto è crudele una malattia che trova il suo punto di origine in qualcosa di così semplice e positivo come una ragazzina che fa sport? La nostra è la storia di uomini e donne maturi che scoprono, a un certo punto della loro vita, che il loro destino è già stato scritto venti, trenta, quarant’anni prima. Di una fibra invisibile a occhio nudo, assunta con un gesto semplice come un respiro, che produce i suoi effetti milioni di respiri dopo, quando quella persona è nel frattempo diventata adulta, ha studiato, si è innamorata, ha trovato un lavoro, lo ha perso, ha avuto dei figli, ha viaggiato, si è sposata… insomma, è diventata se stessa. Proprio per questo, ritengo che solo la socializzazione delle singole storie possa dare un senso alla tragedia, cercando di evitare che altre persone vivano esperienze così devastanti. Oggi Casale è il simbolo mondiale della rinascita dalle polveri d’amianto, un punto di riferimento per i paesi in via di sviluppo che stanno vivendo oggi le tensioni tra salute e lavoro che noi abbiamo vissuto trent’anni fa. Questa magnifica reazione è passata prima da una minuscola camera del lavoro e poi da un’associazione di volontariato di familiari. In vent’anni, “Davide” ha fatto chiudere la fonte inquinante, ha partecipato all’approvazione di leggi nazionali in materia, ha sommerso l’INAIL di richieste di invalidità di ex lavoratori, ha riunito e coordinato la costituzione di parte civile di migliaia di vittime, ha premuto per una bonifica completa di Casale, ha sostenuto la ricerca, è diventato interlocutore riconosciuto delle istituzioni ed è considerato un’ eccellenza celebrata in Francia, Brasile, Belgio, Svizzera.
Non possiamo cambiare ciò che è stato. Ma se, con il nostro operato, riusciremo a salvare anche una sola persona, daremo un senso alle nostre vittime.