di Andrea Spotti
Un’aggressione al giorno. E’ la media delle violenze subite dalla stampa in Messico durante l’anno appena trascorso, considerato uno dei più violenti della storia recente per i giornalisti. Il dato, che indica la sistematicità e la quotidianità delle intimidazioni, è fornito dal rapporto annuale di Article 19, associazione internazionale per la difesa della libertà di espressione. Si conferma così l’allarmante situazione che vivono gli uomini e le donne che cercano di raccontare il Messico militarizzato della guerra al narcotraffico. Una realtà in cui il dovere di cronaca si scontra troppo spesso con gli interessi di autorità, mafie e poteri forti. E dove fare giornalismo in modo critico può voler dire mettere a rischio la propria vita. Il rapporto, presentato lo scorso 18 marzo a Città del Messico, s’intitola “Dissentire in silenzio: violenza contro la stampa e criminalizzazione della protesta, Messico 2013”, e traccia un quadro assai preoccupante dello stato di salute dell’informazione nel Paese. Da una parte, denuncia l’impunità di cui riesce a godere chiunque abbia interesse a silenziare voci scomode grazie alla complicità o all’inazione dei differenti livelli di governo e di potere, e, dall’altra, la decisa tendenza alla riduzione del diritto alla protesta e alla copertura della stessa, in atto su tutto il territorio nazionale e in particolare nella capitale, governata da poco più di un anno dal sindaco di centrosinistra (PRD, Partido Revolución Democrática) Miguel Àngel Mancera.
Secondo Article 19, nonostante il numero dei reporter uccisi sia diminuito, passando da 7 a 4 rispetto al 2012, lo scorso anno è stato il più violento ai danni della stampa dal 2007 a questa parte. Da quando, cioè, l’ex presidente conservatore Felipe Calderòn, in seria crisi di legittimità dopo le elezioni del 2006, macchiate dal forte sospetto di brogli, ha lanciato una campagna armata contro la criminalità organizzata, militarizzando il territorio e scatenando un’ondata di violenza che ha causato almeno 80mila e 27mila desaparecidos. E che ha fatto del Messico uno dei Paesi più pericolosi al mondo per i lavoratori e le lavoratrici dell’informazione, con un bilancio di 51omicidi e 20 sparizioni forzate accumulate negli ultimi 7 anni dalla categoria.
I primi 365 giorni dell’amministrazione di Peña Nieto, che ha sancito il ritorno al potere del PRI (l’autoritario Partito Rivoluzionario Istituzionale) dopo 12 di transizione mancata a guida PAN (il destrorso Partito d’Azione Nazionale), non hanno dunque segnato l’inversione di tendenza annunciata in campagna elettorale: s’è registrato, al contrario, un aumento del 59% degli attacchi, i quali hanno così toccato quota 330. Il che, rappresenta una media quasi quotidiana di un’aggressione alla stampa, per la precisione si tratta di un segnalamento ogni 26 ore e mezza.
Oltre ad essere stato il più violento per l’informazione in generale, il 2013 è anche l’anno che ha accumulato il più alto numero di aggressioni nei confronti sia delle donne giornaliste, con 59 denunce registrate, che delle sedi di organi informativi, che sono arrivate 39. Stiamo parlando, rispettivamente, del 20 e del 10% del totale delle intimidazioni documentate. Rispetto alle minacce, invece, il 2013 è secondo solo al 2009, che lo supera di una sola lunghezza, però, con 50 denunce segnalate.
Gli attacchi documentati alla libertà d’espressione sono di diverso tipo: si va dal sequestro intimidatorio alle botte, passando dagli assalti armati alle sedi dei giornali fino ad arrivare alla sparizioni forzate e agli omicidi. Il tutto, in un contesto di brutalità inaudita, in cui fosse clandestine, decapitazioni e corpi mutilati sono così all’ordine del giorno da non fare quasi più notizia.
Con l’importante eccezione della capitale, su cui torneremo, anche quest’anno le aggressioni hanno colpito soprattutto reporter e mezzi di comunicazione che lavorano a livello statale e municipale. In zone del paese in cui sono in atto scontri tra forze armate e criminalità organizzata, oppure faide tra cartelli di narcos per il controllo del territorio. In questo senso nel rapporto si sottolinea come significativo che la maggioranza delle aggressioni, oltre che le più serie, si siano concentrate negli stati di Veracruz, Tamaulipas, Chihuahua e Coahuila.
Tuttavia, secondo Article 19, è possibile osservare una tendenza “alla disseminazione della violenza verso altre entità amministrative”. E in effetti, nel corso del 2013, il contesto è stato particolarmente difficile e pericoloso per i giornalisti anche in Chiapas, Guerrero, Michoacan, Baja California, Tlaxcala, Durango, Quintana Roo e, non senza una certa sorpresa data la sua tradizione progressista, a Città del Messico.
Il dato più inquietante, però, ha a che fare con i protagonisti delle aggressioni denunciate, che vede primeggiare le autorità e i funzionari dello stato. Secondo Article 19, infatti, delle 274 occasioni in cui è stato possibile identificare il colpevole, in ben 146 si é trattato di un rappresentante dello stato; nella maggioranza dei casi, di poliziotti municipali.
Pur non potendo considerare i dati come esaustivi, in quanto molte aggressioni, soprattutto se provenienti dal narcotraffico, non vengono neppure denunciate e in alcune zone sporgere denuncia è più comune che in altre, si tratta comunque di numeri indicativi dell’estensione, nonché della gravità ,della situazione, dato che stiamo parlando di sei aggressioni su dieci perpetrate da chi dovrebbe tutelare il diritto a informare ed ad essere informati.
Per quanto riguarda gli omicidi, invece, la parte del leone la fanno i diversi narco-cartelli presenti sul territorio nazionale, responsabili di 20 dei 51 casi registrati dal 2007 ad oggi. In modo tale che, secondo l’organizzazione internazionale, chi esercita il giornalismo in Messico si trova preso in mezzo tra l’incudine delle intimidazioni provenienti dalle autorità e il martello rappresentato dalla violenza del crimine organizzato. Tutto questo, in una situazione in cui l’impunità è la regola in oltre il 90% dei casi, e l’autocensura rappresenta sovente “l’unica opzione per poter lavorare senza essere aggediti”.
Nella relazione, inoltre, vengono fortemente criticate le istituzioni create dallo stato nel corso degli ultimi anni per rispondere al crescendo delle aggressioni contro la stampa e all’indignazione che suscitavano, come la Procura Speciale per i Delitti Contro la Libertà di Espressione e il Meccanismo per la Protezione di Giornalisti e Difensori dei Diritti Umani. I quali, lungi dal garantire una qualche forma di appoggio a coloro che si sono trovati nel mirino di mafie o poteri forti, sono risultate essere mere operazioni di immagine per l’opinione pubblica interna e gli organismi internazionali. Per dirla con lo scrittore e giornalista Juan Villoro, che ha introdotto la presentazione del rapporto, il governo non solo è responsabile di negare la protezione e di non garantire il pieno esercizio del diritto all’espressione ai suoi cittadini, ma dimostra tutto il suo cinismo e la sua demogogia, in quanto, pur riconscendo a parole la gravità della problematica, nei fatti non fa nulla per intervenire concretamente. Affidandosi ancora una volta alla vecchia formula priista, il cui messaggio è: “Perché governare se posso limitarmi a dichiarare?”
In “Dissentire in silenzio”, infine, lo stato di Veracruz e la capitale del paese, meritano una menzione a parte. Il primo, perché rappresenta la regione in assoluto più pericolosa per la stampa. Qui, infatti, durante i primi tre anni di mandato dell’attuale governatore, il priista Javier Duarte, le aggressioni si sono triplicate e sono stati assassinati ben 10 operatori della comunicazione. La situazione è tale che decine di reporter sono dovuti fuggire a causa delle minacce e degli attacchi subiti, favoriti dal clima di impunità propiziato dal governo e dalla Procura locali, contro i quali hanno più volte puntato il dito varie associazioni per la difesa dei diritti umani, accusandoli di non fare gli sforzi necessari per tutelare i giornalisti e per trovare e castigare i colpevoli. Emblematico, in questo senso, è l’atteggiamento della Procura, che pare sempre guardarsi bene dal collegare omicidi e sparizioni forzate all’attività giornalistica delle vittime.
D’altra parte, a Città del Messico, si è assistito a un eccezionale aumento di aggressioni e detenzioni nei confronti di giornalisti impegnati a documentare le proteste che hanno riempito le piazze della capitale tra agosto e ottobre del 2013 durante le mobilitazioni contro le cosidette riforme strutturali. Secondo il monitoraggio di Article 19, a partire dal primo dicembre 2012, data di inizio dei mandati dei governi di Peña Nieto e di Mancera, sono state documentate 64 aggressioni da parte della polizia locale e 36 detenzioni arbitrarie, molte delle quali sono avvenute quando il giornalista o il fotografo fermato stava documentando violenze e abusi polizieschi. Infine, l’organizzazione per la libertà di stampa, mette in evidenza come, più in generale, le autorità della capitale, a parole sempre molto dialoganti e aperte al confronto, abbiano “nei fatti un’intenzione deliberata di reprimere la protesta” e non offrano sufficienti garanzie a chi la vuole raccontare.
Se il 2013 si é accaparrato molti primati negativi, non si può certo dire che l’anno in corso stia andando molto meglio. Tra gli eventi recenti possiamo infatti ricordare: il sequestro e l’omicidio di Gregorio Jiménez de la Cruz, cronista veracruzano ritrovato in una fossa clandestina lo scorso 11 febbrario; le aggressioni poliziesche ai danni dei cronisti del giornale El Noroeste, impegnati nel tentativo di ricostruire le relazioni impresariali del boss “Chapo” Guzman nei giorni successici al suo arresto, nel municipio di Mazatlàn, Sinaloa; la chiusura, da parte delle autorità federali, del sito 1dmx.org, nel quale si era costituito un vero e proprio archivio che documentava la violenza della repressione poliziesca durante le manifestazioni del 2013; e infine, l’arresto illegale di Fabiola Gutiérrez, collaboratrice del portale digitale Somos El Medio, ed il furto con scasso praticato ai dani della casa di Darìo Ramìrez, direttore di Article 19 per il Messico e il Centroamerica, proprio due giorni prima della presentazione di “Dissentire in silenzio” , entrambi avvenuti nel capitale.
Insomma, stando alla cronaca delle ultime settimane, c’é poco da stare allegri. Ed è difficile pensare ad un cambiamento del contesto nel futuro. Anche perché, la cosiddetta comunità internazionale, ben rappresentata da riviste come il Time o quotidiani come Repubblica (si vedano, rispettivamente, una recente copertina e le corrispondenze ai tempi della visita di Letta), sembra molto più entusiasta delle aperture fatte dal governo in termini di libertà di investimento che preoccupata per “il costante deterioramento” della libertà di stampa e del diritto al dissenso denunciato da Article 19. E finché l’entusiasmo sarà maggiore della preoccupazione, e continuerà il relativo disinteresse internazionale rispetto a questa problematica, sarà molto difficile stimolare la scarsa volontà politica del governo a fare la sua parte per combattere l’impunità e la violenza dilaganti.