di Marilù Oliva

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Marcelo Figueras, Kamchatka, L’Asino d’oro Edizioni, Roma 2014, pp. 372,  € 14,00

La storia è raccontata dal punto di vista di un ragazzino di dieci anni che vive serenamente con una famiglia speciale: una madre negata per le faccende da casalinga che, in virtù della sua forza d’animo viene detta La Roccia, un padre avvocato di cause perse e un fratellino più piccolo che il protagonista chiama il Nano. La parola Kamchatka sembra, all’inizio, il simbolo di questa amenità di partenza, dell’affiatamento familiare, del clima giocoso e degli affetti che relazionano le persone, perché questo nome – che molti trovano impronunciabile – rimanda al gioco del Risiko tante volte condiviso in casa. Ma Kamchatka si carica di un significato più profondo quando diventa l’ultima parola pronunciata dal padre di Harry, la voce in prima persona, prima di diventare uno dei tanti desaparecidos. Così diventa il luogo della resistenza. È anche il vuoto, l’altrove, un esercizio di contraddizione che si riflette nell’orografia di quella penisola ghiacciata che è la regione terrestre con la più intensa attività vulcanica:

«All’epoca non sapevo nulla della vera Kamchatka, quella lingua gelata che la Russia mostra all’Oceano Pacifico per farsi beffe dei suoi vicini d’oltremare. Non conoscevo le sue nevi eterne e i suoi cento vulcani. Non conoscevo il ghiacciaio del Mutnovsky e i suoi laghi dalle acque acide. Non conoscevo i suoi orsi selvatici, le fumarole e le bolle di gas che si gonfiano come rospi sulla superficie delle acque termali. Mi bastava che avesse la forma di una scimitarra e che fosse inaccessibile».

Se prendiamo per buona questa categoria dell’inaccessibilità e dell’assurdo, allora la sovrapposizione all’Argentina e ai suoi controsensi diventa questione immediata e si intreccia con la storia di un paese e di una famiglia che sono in parte debitori al contesto d’origine di Marcelo Figueras. Le sorti di queste persone proseguono per breve tempo in una tranquillità piacevole che è preludio di una forte tensione, anche con brevi excursus nel passato – molto bella la digressione sul tempo, nelle prime pagine. La madre di Harry insegna all’università, ma in qualità di sindacalista non è raro che passi al marito avvocato detenuti politici da difendere. I fatti attraversano gli occhi di questo bambino colmi del suo stupore, della sua purezza, della sua ingenuità e ci vengono restituiti con una bella scrittura corposa, precisa ma mai ostentata, con una bella traduzione di Gina Maneri. Una voce narrante fanciulla ma libera e fantasiosa: gheriglio prezioso di quel guscio di noce in cui risiede il mondo dell’infanzia.

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Poi avviene la rottura. Rottura che comporta un viaggio, una nuova condizione
di quasi proscritti, la sensazione di essere nascosti e, con essa, i silenzi e le omissioni dei grandi. Come ha dichiarato l’autore a Ho in mente un libro:

«Kamchatka era il romanzo sul nostro recente e indecoroso passato. Dalla dittatura che piombò sul nostro paese nel 1976 all’inizio di questo secolo, la narrativa argentina ha voltato le spalle alla realtà e a tutti i suoi ornamenti. E non sto parlando del prezzo che le arti pagano quando sono sorvegliate speciali di uno Stato totalitarista, come per l’appunto era il caso tra il 1976 e il 1983: sto parlando anche  dei vent’anni che hanno seguito la fine del governo militare. Lasciando da parte le opere prodotte durante il decennio del regime e il primo paio d’anni di periodo democratico, la nostra materia, l’olocausto domestico è stato velocemente archiviato. Dal 2001, scrivere o fare un film su qualcosa che avesse a che fare con gli Anni Tragici significava suicidarsi artisticamente».

Viene raccontato ai bambini che devono “giocare” a essere qualcun altro. Ma essi registrano tutto attraverso la confusione dei loro sensi vigili, sempre pronti a decodificare e a captare ogni vibrazione:

«C’erano sequestri, sparatorie, bombe, scioperi, e i sostenitori del Vecchio erano al tempo stesso tra le file degli uccisi e tra quelle degli uccisori. Su certe figure non c’erano dubbi. Isabelita, la vedova di Perón, parlava con la voce stridula che usano i ventriloqui per i loro pupazzi. López Rega, il suo braccio destro, assomigliava in modo sospetto a Ming, il cattivo di Flash Gordon, senza barba e con le unghie corte, certo. Tutto il resto, però, era per me una zona grigia

[…] Quando arrivò il golpe del 1976, pochi giorni dopo l’inizio dell’anno scolastico, capii subito che le cose si sarebbero messe male. Il nuovo presidente era un signore con un berretto militare, un paio di baffoni e la faccia da cattivo».

Questo è uno di quei casi rari di romanzi nati prima come sceneggiatura. La pentapartizione in capitoli battezzati con i nomi delle materie scolastiche – biologia, geografia, linguaggio, astronomia, storia –  la dice lunga sulla concezione dell’autore, che infatti conferma: «Non trovo necessario disquisire in favore dell’istruzione. Sarebbe inutile tanto quanto sottolineare l’importanza della luce nell’universo».

Ma non solo.

La struttura e le rivelazioni insite tra le pagine sottintendono che nella vita c’è sempre da scoprire e le nozioni di riferimento vengono proiettate verso ipotesi più ampie, sempre curiose, e si interfacciano alla vita quotidiana e alle passioni che la animano. Come quella che il piccolo Harry nutre per Houdini, di cui traccia anche una breve, interessante storia. Così per questo apprendista mago cominciano le esercitazioni, che non sempre vanno a buon fine, ma servono comunque a mantenere fatato – e apparentemente protetto – il mondo del “dentro”: di una casa estranea che mantiene ancora le caratteristiche del nido. Perché fuori c’è il caos, il sovvertimento, le persone spariscono, senza spiegazioni vengono caricate in automobili prive di targa, trascinate via e perfino le domande minacciano qualcosa. Forse proprio in questo risiede il messaggio potente di un libro che è allo stesso tempo una storia fortissima e una narrazione straordinaria: nel valore delle domande. Forse è un invito a non assopirci. A osare, chiedere, capire, non accondiscendere per inerzia o, peggio, tedio:

«Dato che le domande sbagliate ci erano proibite, devo essermi spremuto il cervello in cerca di domande corrette, da poter formulare ad alta voce, gridandole ai quattro venti, alla luce del sole, perché non mi piaceva che mi impedissero di fare domande, cominciano col proibirti alcune domande e finiscono col proibirtele tutte, è bello fare domande, chi smette di fare domande è morto, defunto».