di Gianfranco Marelli
Gabriele Fuga, Enrico Maltini, E a finestra c’è la morti. Pinelli: chi c’era quella notte, Zero in Condotta, Milano 2013, pp. 168, euro 10,00.
Scriveva Louis-Ferdinand Céline che la verità si dice arrangiandola. Non pochi libri-inchiesta, romanzi storici e film documentari sulla “madre di tutte le stragi” – ovvero la bomba che esplose il 12 dicembre 1969 alla Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano – sembrano aver preso alla lettera il suggerimento dello scrittore francese, al punto da arrangiare a proprio uso e consumo uno dei fatti storici che hanno segnato la Repubblica italiana nel secondo dopoguerra. A che fine? Per confondere ancor più le acque di una vicenda così torbida sul piano giuridico (ben sette i processi conclusi con l’assoluzione di tutti gli accusati, peraltro alcuni in seguito condannati per altre stragi, mentre altri si gioveranno della prescrizione) ma così limpida sul piano storico, da esser scritta sui muri di questo Paese fin dai giorni successivi al terribile atto terrorista: “La strage è di Stato. Valpreda è innocente. Pinelli non si è suicidato”.
Fuori da questo coro di cultori della verità arrangiata ad arte, è il recente lavoro di Gabriele Fuga (avvocato penalista del foro di Milano, attivo fin dagli anni ’70 nella difesa di militanti dell’area libertaria ed extraparlamentare) e di Enrico Maltini (fra i componenti nel 1969, assieme a Giuseppe Pinelli, del circolo Ponte della Ghisolfa), da poco pubblicato per conto della casa editrice Zero in condotta di Milano con il titolo “e a finestra c’è la morti. Pinelli:chi c’era quella notte”.
Si cadrebbe in errore se si ritenesse il libro un controcanto d’ispirazione anarchica, teso semplicemente a far valere la verità da sempre propugnata di quella stanza “già piena di fumo” del quarto piano della Questura di Milano in quella calda notte del 15 dicembre in cui il “brigadiere aprì la finestra e a un tratto Pinelli cascò”. Perché gli autori – e sono loro stessi a scriverlo – non hanno alcuna verità da affermare, ma solo «ipotesi da verificare, in nome di una verità che qualcuno, prima o poi, dovrà ancora scoprire».
Come dire: questo ennesimo libro su quanto accadde prima e immediatamente dopo il deflagrare della bomba nell’atrio della Banca Nazionale dell’Agricoltura non svela il misterioso segreto di Piazza Fontana [titolo del libro di Paolo Cucchiarelli, dal quale il regista Giordana ha girato il film “Romanzo di una strage”] al fine di avvalorare tesi fantascientifiche in cui duplicanti avatar diventano i “veri” responsabili della strage terrorista, ma si attiene a quanto è emerso dall’imponente “archivio parallelo” dell’Ufficio Affari Riservati, tenuto – questo sì – segreto fino a quando Aldo Giannuli, storico e consulente del Giudice Guido Salvini, il 4 ottobre 1996 l’ha trovato in un deposito della caserma dei carabinieri sulla circonvallazione Appia di Roma: circa 150 mila fascicoli segreti, non catalogati, del ministero dell’Interno, che contengono informazioni e reperti sull’operato dei servizi segreti italiani.
Così, più che un nuovo e misterioso romanzo sulla Strage di piazza Fontana, il libro di Fuga e Maltini è un’asciutta, limpida e non più segreta ricostruzione di quanto avvenne nella Questura di Milano immediatamente dopo la fatidica data del 12 dicembre 1969, quando Giuseppe Pinelli – avendo seguito con il suo motorino il commissario Luigi Calabresi – ne entrò nel tardo pomeriggio e vi rimase fino alla mezzanotte del 15, precipitando dalla finestra della stanza del commissario al quarto piano. Un salto, un tuffo, che sebbene fosse derubricato dal Giudice istruttore Gerardo d’Ambrosio nel 1975 come “verosimilmente” determinato da un “malore attivo” – prosciogliendo in tal modo tutti gli indagati (il commissario Calabresi, i poliziotti Vito Panessa, Giuseppe Caracuta, Carlo Mainardi, Piero Mucilli ed il tenente dei carabinieri Savino Lo Grano) dall’accusa di omicidio volontario – suscitò più di un sospetto per quello strano ossimoro utilizzato dal magistrato al fine di sostenere che l’anarchico Pinelli né si era suicidato gettandosi dalla finestra, né era stato gettato. Già, ma chi erano e quanti erano i presenti in quella stanza quando – come recita una strofa del Lamento per l’anarchico Pinelli del cantautore siciliano Franco Trincale – Era quasi mezzanotte / e ‘a finestra c’è la morti?
Sembrerà “strano”, ma il libro non si sofferma sull’accertata o meno presenza del “commissario finestra” nella sua stanza, tale da avvalorare la responsabilità di Luigi Calabresi per quanto accadde all’anarchico , dal momento che «fu sì correo e responsabile (formale e non solo) della morte di Pinelli, ma al contrario di Allegra, dai documenti esaminati non risulta che fosse tra coloro che manovravano nel “grande gioco”. Sia chiaro – sottolineano gli autori del libro a p. 21 – questo non diminuisce le sue responsabilità, solamente aggrava quella dei suoi superiori, diretti e indiretti. In questo quadro Calabresi appare piuttosto una pedina, se pure determinante, e forse le ragioni della sua morte potranno spiegare il suo vero ruolo».
Se allora Luigi Calabresi fu soltanto una pedina nel “grande gioco” orchestrato dall’Ufficio Affari Riservati (di cui poteva anche non essere al corrente, ma allora perché avvalorare da subito le menzogne del questore Marcello Guida nel corso della famosa conferenza stampa convocata in Questura per motivarne il “suicidio”?), in quella fatidica notte del 15 dicembre 1969, nella stanza del commissario al quarto piano della Questura di Milano, oltre ai personaggi ben noti, chi altri c’era?
E perché mai le indagini intrapresero da subito la “pista anarchica”, così solertemente indicata dalla misteriosa squadra informativa di una decina di persone presente subito dopo la strage nella Questura di Milano al punto da essere in tutto e per tutto i “padroni delle indagini”, come fu costretto ad ammettere Guglielmo Carlucci, allora funzionario dell’U.A.R., nel corso dell’istruttoria del Giudice Mastelloni del 1997 sull’abbattimento di un aereo dell’Aeronautica utilizzato dai servizi ?
Ma, soprattutto, perché nessuno ne hai mai parlato o scritto? Perché la Magistratura non hai mai condotto serie indagini su quanti agenti dell’Ufficio Affari Riservati fossero presenti e attivi nel pilotare l’azione delle questure di Milano e di Roma? Perché non si è fatto luce sull’incredibile disposizione del ministero dell’Interno, che subito dopo cinque bombe e una strage non disse “impegnate tutte le forze … fate tutto il possibile” ma diramò a tutte le questure e all’Arma dei carabinieri un comunicato in cui è scritto: «In relazione ai fatti verificatisi a Milano il Ministero del’Interno si riserva di impartire direttive, in attesa delle quali non dovranno essere prese iniziative in alcun senso» (p. 62)?
Domande alle quali il libro di Fuga e Maltini risponde facendo cantare le carte ritrovate presso l’archivio segreto dell’Ufficio Affari Riservati [“scoperte”, guarda caso, due mesi dopo la morte di Federico Umberto D’Amato, vero e proprio deus ex-machina dell’U.A.R.], dopo averle confrontate con le deposizioni , rese a giudici e pubblici ministeri fra il 1996 e il 1997, da parte di chi quella notte nella questura di Milano c’era: i vari Elvio Catenacci, Silvano Russomanno, Aldo Alduzzi – tutti, a vario titolo, membri dell’U.A.R. – e fatte brillare alla luce della deposizione fatta dal commissario della Questura di Milano, Antonio Pagnozzi, al PM Maria Grazia Pradella come “persona informata dei fatti”, il quale testimoniò di aver allora percepito « che vi era un che di pista prefabbricata originata non a Milano, allorché, da Roma pervenne la comunicazione che era stato Valpreda a portare la valigia con l’esplosivo a Milano. Tanto seppi dal Capo dell’Ufficio [Antonino Allegra] prima del suicidio di Pinelli» (p.54).
Dichiarazione, quest’ultima, che apre uno squarcio profondo sulla spontanea testimonianza del tassista Rolandi e sul suo riconoscimento in Pietro Valpreda – nel famoso identikit attraverso la “ricognizione fotografica” assieme a quattro poliziotti, per la quale gli fu promesso un premio in denaro – della persona che per un centinaio di metri trasportò quel 12 dicembre sul suo taxi: questa infatti avvenne dopo che la pista anarchica era già stata prefabbricata; così come Valpreda fu indiziato quale responsabile della strage soltanto dopo che Enrico Rovelli, la spia infiltrata nel Circolo Ponte della Ghisolfa e sul libro paga sia della Questura di Milano che dell’Ufficio Affari Riservati aveva fatto il nome dell’anarchico ballerino appartenente al gruppo 22 marzo di Roma quale probabile esecutore dell’attentato assieme a Giuseppe Pinelli.
Di questo e di altro ancora si trova abbondante materiale nel libro “e a finestra c’è la morti. Pinelli: chi c’era quella notte”, tant’è che debole appare ormai l’accusa che a suo tempo Pier Paolo Pasolini fece sul Corriere della sera: «Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi». Perché tanto più forte è necessario ribadire oggi – come scrisse Benoît Malon a proposito della Comune di Parigi – quanto «la storia deve rifarsi a nome dei sacrificati, degli spogliati, degli asserviti, dei calunniati, dei martiri di tutte le epoche […] Oramai ai sopravvissuti della disfatta resterà sempre qualcuno per dire in faccia al mondo, ai carnefici, ai calunniatori: Voi avete mentito».