di Franco Pezzini
Una delle maschere più intriganti della grande età di sogni e incubi della Ragione corsa a cavallo tra Sette e Ottocento è certo quella dell’automa. Simulacro della macchina umana e suo ideale fratello minore, a recuperare suggestioni antiche — le statue metalliche semoventi dei miti greci, le teste artificiali parlanti delle storie medioevali — e insieme le nuove ansie dell’età di Frankenstein, l’automa si presenta in apparenza come innocuo, ciabattando nei salotti rococò quale meraviglia di lusso per intrattenere gli invitati. Anche se uno degli esemplari più noti doveva rivelare qualche sorpresa: perché lo Schachtürke, il Turco giocatore di scacchi costruito nel 1770 dall’inventore ungherese Johann Wolfgang von Kempelen come fantasia illusionistica per la corte di Schönbrunn, rivelerà in seguito la presenza all’interno di un omino ben nascosto.
Nonostante il clamore per la “prodigiosa” invenzione, von Kempelen la giudicava un gioco, e solo con riluttanza e dietro forti pressioni accettò di portarla in tour per l’Europa. E mentre è certo che presentò il Turco in Francia, poi a Londra e in Germania, dubbi restano su una dimostrazione al cospetto di Federico di Prussia — una scena presentata per esigenze drammatiche (c’è anche Voltaire, che gigioneggia) nella puntata forse più fantasiosa della celebre serie televisiva Le evasioni celebri, di cui ricorre quest’anno il quarantennale.
Com’è noto, il Turco consisteva in un fantoccio in paludamenti orientali assiso dietro una specie di ingombrante scrivania con tre sportelli: prima della partita questi venivano aperti uno per uno, mostrando agli spettatori un groviglio di ingranaggi e fili — e in apparenza solo quello. Ma dietro, zitto zitto, sgusciava l’omino, spostandosi via via per non farsi vedere; e a quel punto iniziava la partita. Piccoli magneti al di sotto del piano di gioco segnalavano i movimenti dei pezzi: l’omino riproduceva le mosse su una scacchiera tascabile, e rispondeva col braccio mobile dell’automa. Ovviamente si trattava di un abile scacchista; e se non vinceva sempre, la collezione di sconfitti comprende nomi eccellenti come Benjamin Franklin e Napoleone.
In questa sede non seguiamo l’avventurosa storia del Turco, poi venduto al bavarese Johann Nepomuk Mälzel, musicista e cultore di meccanica — inventò il metronomo — e portato a zonzo per spettacoli sui due lati dell’Atlantico: una storia costellata di ipotesi spesso erronee sul funzionamento, come quelle contenute nel più famoso pezzo sul tema, Maelzel’s Chess Player, 1836, composto per il Southern Literary Messenger da Edgar Allan Poe che l’aveva visto in azione a Richmond. Ma — letteralmente — dietro questa storia c’è quella degli uomini che ricoprirono il delicato incarico: e pare che con Mälzel collaborassero maestri di scacchi come Johann Allgaier, Boncourt, Aaron Alexandre, William Lewis, Jacques Mouret e William Schlumberger. Mentre sui collaboratori di von Kempelen restano dubbi: si dice soltanto che per parecchio tempo a nascondersi nel Turco fosse un soldato polacco, tale Worowski, che aveva perso le gambe in guerra.
Un’avventurosa e libera trascrizione della sua storia verrà appunto offerta su schermo un paio di secoli più tardi nell’ambito della serie Les Évasions célèbres (in Italia Le evasioni celebri), 1972, nella puntata Le joueur d’échecs diretta da Christian-Jaque. Qui il soldatino è promosso a tenente e il nome mutato in Woronski (l’attore è Károly Mécs): nella Polonia occupata dai Prussiani è a capo di un tentativo di ribellione che però fallisce, viene ferito gravemente ed è soccorso dal nobile e coraggioso von Kempelen (Zoltán Latinovits), che lo ricovera nel suo castello in Polonia pieno di invenzioni meccaniche. Ricercato e nascosto all’interno del Turco, tra varie avventure il tenente — ormai privo delle gambe, amputate per le ferite — riuscirà a sfuggire dalle mani del mastino prussiano colonnello Glückner (il bravo Robert Party, specializzato in ruoli di duro) e varcare il confine verso la libertà. Quando, anni dopo, Mälzel (István Bujtor) organizza la partita del Turco con Napoleone (Robert Manuel), al termine Woronski sarà costretto a rivelarsi e racconterà la sua storia. Poco importa che l’incontro tra il ribelle e von Kempelen non potesse avvenire nel 1776 come nel telefilm, visto che all’epoca il Turco era già in viaggio a mietere successi, e che la partita con Napoleone non avvenga nel 1807 nella Polonia liberata dall’occupante prussiano, ma due anni più tardi a Schönbrunn. Non sappiamo neppure se a quell’epoca Worowski/Woronski lavorasse ancora nel Turco o fosse ancora vivo: ma il racconto del telefilm è ben condotto, il quadro storico affascinante e la storia avvince.
Tra le saghe televisive che hanno allietato le mie ore giovanili, Le evasioni celebri meritano senz’altro un posto di qualche rilievo. Vicende dallo sfondo sempre diverso ma in costume, e spesso riconducibili al cappa-e-spada, cosa che mi entusiasmava; vicende però innestate su autentiche basi storiche, spesso coinvolgenti personaggi famosi ma altrove innestate in epopee che sfuggivano alle mie nozioni di ragazzino e intrigavano per stranezza; vicende dove grandi passioni erano in gioco, su sfondi visivamente ricchissimi (una quantità di castelli, per esempio), e con una bella musica che accentuava i toni epici. Per non parlare del cast eccellente, in cui figuravano volti noti degli schermi di tutti i paesi coinvolti nella coproduzione Office de Radiodiffusion Télévision Française (ORTF) e Pathé, cioè Francia, Italia, Austria e Ungheria: per cui per esempio Casanova era interpretato dal nostrano Ugo Pagliai in piena fioritura TV, Benvenuto Cellini da Gianni Garko divo dello Spaghetti Western, e il duca di Beaufort molto opportunamente da quel Georges Descrières che furoreggiava all’epoca nei panni di un altro grande fuggitivo, l’arciladro Lupin. Lo stesso interprete di Woronski, Károly Mécs, molto noto in Ungheria, sarà destinato a una lunghissima carriera.
Come in genere al tempo per prodotti popolari, la qualità era alta: l’incalzare dell’avventura aveva certo i tempi “lenti” di quelle produzioni lontane, ma nel senso nobile di presentare con calma i personaggi, le dinamiche storiche alle spalle, qualche curiosità d’epoca; e se probabilmente non era estraneo un vago intento didattico, le curiosità suscitate dalla singola puntata inducevano poi ad andarsi a cercare notizie. E invogliare a studiare la Storia, scusate, non è merito da poco.
Il tema dell’evasione è evidentemente uno dei topoi del racconto avventuroso: l’eroe dev’essere fatto prigioniero e fuggire, sconfiggendo così doppiamente il nemico col sottrarsi e insieme recargli beffa. Dove poi l’evasione acquista uno spazio narrativo più ampio o magari centrale, lo sviluppo prevede un personaggio vessato da qualche autorità ingiusta, rinchiuso in cella dietro muraglie inespugnabili oppure nascosto come Woronski in attesa di varcare i confini, e costretto perciò ai più incredibili sforzi d’ingegno per sfuggire — o almeno provarci. Dumas ne Il conte di Montecristo offre una delle più note letture di evasione (si perdoni il bisticcio) in chiave di romanzo; ma altri racconti, su vicende autentiche di fughe, non sono per ciò meno degni di riconoscimento letterario. Si pensi alle evasioni dei citati Cellini e Casanova, entrambe inscenate nella serie TV sulla base di irriverenti memoriali degli interessati — anzi il tema meriterebbe il varo di un’antologia apposita, dal sapore vagamente controculturale.
Tanto più che episodi del genere sarebbero parecchi, ben più di quanti di norma si immagini. La serie in questione saccheggiava la storia europea a partire dall’età tardoantica — l’episodio Lo schiavo gallico ispirato a Gregorio di Tours, sul salvataggio di un giovane prigioniero dalle mani dei Franchi — fino all’Ottocento: tredici avventure talora dai toni cupi, ma altrove condite di ironia. Tra quelle più drammatiche, la fuga del principe ungherese Ferenc II Rakoczi dalle mani degli imperiali che si apprestavano a fargli la festa (1701); tra le più bizzarre, la saga di tentate fughe dello scrittore francese Henri Masers de Latude, poi autore di famose Mémoires, e che aveva passato metà della vita in prigione per una piccola truffa giovanile ai danni della potentissima marchesa di Pompadour.
Dal 2010 la Yamato Video ha reso disponibile Le evasioni celebri (serie completa) in due cofanetti di dvd, che, se non offrono making of o altri dietrolequinte, sono di degna qualità e permettono un tuffo letteralmente in un altro mondo. Non solo nel senso accennato di un diverso modo di raccontare, o comunque di un interesse per la Storia oggi avvilito nella frequente rincorsa verso il basso delle “miniserie”. Ma anche nel fatto — stupefacente, a pensarci — che l’Europa dei primissimi anni Settanta tra tensioni sociali, eversione, lotta armata non temeva di celebrare in TV personaggi opposti ai poteri costituiti, di narrare le loro evasioni da strutture oppressive, di sbeffeggiare per tredici puntate altrettanti diversi governi della storia del continente e le loro gendarmerie. Cosa oggi abbastanza impensabile, almeno in un’Italia che cerca di costruire il consenso anche a colpi di continue serie TV su eroici corpi di polizia e santini accattivanti (e a ben vedere piuttosto irreligiosi) di ministri di culto.