di Andrea Spotti
Situata nello Stato di Michoacán, nel nord-ovest del Messico, la comunità indigena di Cherán K’eri è protagonista da oltre un anno di una formidabile lotta in difesa del territorio e di un interessante esperimento di autogoverno. Durante la Convención Nacional di Atenco del 14-15 luglio scorsi, abbiamo incontrato David Romero e Samuel Ramos, delegati di Cherán all’evento, i quali ci hanno parlato dei nodi del conflitto e del processo di trasformazione che stanno vivendo. La data che segna lo spartiacque nella storia della comunità è il 15 aprile del 2011, giorno in cui gli abitanti di Cherán, attraverso un vero e proprio levantamiento (sollevamento) popolare, decidono di riprendere in mano il territorio e di ribellarsi allo strapotere della mafia locale (la cosidetta Familia Michoacana, un cartello del narcotraffico operativo nel centro del Messico), che stava letteralmente devastando il monte Pacaracua con una deforestazione senza precedenti.
“Prima del levantamiento eravamo divisi”, racconta David, “la criminalità organizzata aveva il controllo assoluto del territorio. Ogni giorno, centinaia di camionette uscivano dal paese cariche di legna. La nostra regione era una delle zone a maggior densità boschiva, ma in pochi anni, soprattutto a partire dal 2008, sono stati eliminati 20 dei 27 mila ettari di bosco dalla nostra terra”. Nonostante le denunce e le richieste di aiuto, le risposte dello Stato sono sempre state l’indifferenza e l’inazione, cosí, “ci sono state delle reazioni isolate da parte di alcuni compagni, che sono stati anche le prime vittime della violenza dei narcos e dei paramilitari. Per di piú, la polizia municipale, invece di fermare i deliquenti, li proteggeva; mentre il governo statale e quello federale si disinteressavano della situazione.”
Stanchi di osservare impotenti il saccheggio di Naná Echeric (la Madre Terra nella loro lingua, il purépecha), di essere in balía delle angherie della criminalità organizzata e certi di non poter contare sulle istituzioni, gli abitanti di Cherán -con donne e giovani a guidare la rivolta- armati di sassi, bastoni e machete, affrontano i narco-taglialegna e li mettono in fuga, danno fuoco ad alcune camionette, ed iniziano ad organizzare l’autodifesa comune, istituendo quattro barricate alle entrate principali del paese e centinaia di fogatas (falò) in punti strategici, nonché delle ronde che, d’ora in avanti, si occuperanno integralmente della sicurezza comunitaria, sostituendo in modo definitivo la polizia municipale.
Il 15 aprile è un punto di non ritorno: durante i turni di guardia, sulle barricate o intorno al fuoco delle fogatas (che diventano importanti spazi di riflessione collettiva), “la gente inizia a conoscersi meglio, a perdere la sfiducia reciproca e il sentimento d’impotenza, e a recuperare il senso dell’appartenenza purépecha”, aggiunge David, che sottolinea come “grazie ai racconti dei nostri nonni, che ci hanno parlato della nostra organizzazione comunitaria e di come, a partire dalla nostra cosmovisione, possiamo essere un popolo unito, abbiamo capito che la soluzione ai nostri problemi era il cammino verso l’autodeterminazione e che, per trasformare le nostre relazioni sociali, non dovevamo cercare altrove, ma potevamo rifarci alla nostra forma di vita purépecha.”
L’organizzazione comune della difesa del territorio, favorendo l’interazione all’interno della comunità, produce nuove relazioni sociali e dimostra che l’autogestione, oltre ad essere parte della tradizione, può costituire un’opzione alternativa e praticabile nel presente: “i partiti non rappresentavano piú una via possibile per la trasformazione”, racconta Samuel, che ribadisce come i tre livelli di governo e i principali partiti dell’arco costituzionale non abbiano saputo “rispondere all’esigenza di sicurezza della gente e alla necessità di difendere il bosco, perciò abbiamo deciso di iniziare a scrivere da soli la nostra storia, senza farcela dettare dagli imprenditori o dai politici. E abbiamo scelto di autoorganizzarci e di autodifenderci”.
Nel periodo successivo all’insurrezione, i comuneros si appropriano delle istituzioni locali: il Palacio Municipal diventa la Casa Comunal, e l’intera struttura di governo viene trasformata in base ai principi della partecipazione, dell’orizzontalità e della revocabilità caratteristici della tradizione politica indigena. Parallelamente alla lotta quotidiana per il controllo ed il governo del territorio, la comunità di Cherán, appellandosi all’articolo 1 della Costituzione oltreché a svariati trattati internazionali, vince una storica battaglia legale per il riconoscimento del diritto all’autodeterminazione in quanto popolo originario. In effetti, come racconta David (che é anche l’avvocato della comunità), il 2 novembre scorso, il Tribunale Elettorale (Tribunal Electoral del Poder Judicial de la Federación) ha fatto di Cherán K’eri “il primo municipio indigeno messicano al quale si riconosce la possibilità di scegliere la propria struttura di governo a partire dalla sua cosmovisione; e questo é sicuramente un risultato importante, anche se manca ancora il riconoscimento di questo diritto da parte dello Stato”.
Ma com’é strutturata la nuova organizzazione amministrativa? I due portavoce di Cherán K’eri ci spiegano che l’organo supremo della democrazia purépecha è il Consejo Mayor, il quale riunisce dodici comuneros anziani che vengono eletti direttamente dalle quattro assemblee di quartiere. Poi c’è il Consejo Operativo, che si occupa dei differenti ambiti dell’amministrazione (opere pubbliche, progetti sociali, gestione dei beni comuni, ecc.) ed è composto da un rappresentante per ognuna delle quattro zone. Naturalmente, nella misura in cui i delegati tradiscono il mandato ricevuto dalla comunità “vengono rimossi dalle assemblee.” “In realtà”, precisa Samuel, “il Consejo Mayor non è il luogo delle decisioni, sono le assemblee di quartiere che decidono ciò si deve fare; il Consejo Mayor e il Consejo Operativo si limitano solo ad eseguire quanto stabilito dalla base.”
Secondo David, il bilancio della lotta è positivo: “anche se il governo statale e federale insieme ad alcune imprese cercano di boicottare il processo di autodeterminazione, siamo soddisfatti del cammino percorso. Le cose a Cherán stanno cambiando rapidamente, in poco tempo abbiamo iniziato a trasformare la struttura del nostro governo e le relazioni sociali comunitarie ma soprattutto abbiamo scoperto che è possibile vivere in un modo diverso da quello a cui ci avevano abituati.” Nonostante il recente omicidio di Urbano Macías Rafael e di José Velázquez, con i quali sale a 15 il numero di caduti nel conflitto, i due giovani delegati sostengono che è necessario andare avanti. “Siamo consapevoli dei rishi che corrriamo”, dice Samuel, “ma per noi lottare è una necessità: in gioco non c’è solo la nostra vita, ma il futuro della nostra comunità.” Inoltre, sebbene non si sia definitivamente fermato il saccheggio dei boschi, la situazione è migliorata, “grazie alla ronda comunitaria, c’è più sicurezza. Il problema è quando ci si trova in campagna o al pascolo: è lì dove i compagni scompaiono o vengono assassinati”. Comunque sia, conclude il comunero, “Cherán sta decidendo come, con chi e verso dove camminare; e se ci devono ammazzare, che ci ammazzino lottando”.
Dopo aver invitato le realtà solidali e i media indipendenti del Messico e del mondo a visitare il Municipio Autonomo e a denunciare quanto sta accadendo, giacché questo, aumentando la pressione sul governo, “potrebbe fare la differenza tra vita e la morte” nel cuore dell’altopiano purépecha; le ultime considerazioni dei due rappresentanti di Cherán, hanno messo al centro della discussione la critica al capitalismo e la necessità del suo superamento. Secondo Samuel, infatti, durante il confronto con altre organizzazioni è emerso che “tutti i gruppi sociali del nostro paese sono vittime, in un modo o nell’altro, del modello economico vigente. La crisi negli USA e la decadenza del sistema capitalistico in Europa, confermano che il sistema non funziona.” Sia a livello locale che globale, in altri termini, il nemico comune è il Capitale. Approfondire e rafforzare le relazioni tra le lotte a livello locale e globale diventa dunque fondamentale “per costruire un’alternativa, per creare qualcosa di nuovo, qualcosa di inedito e radicale. Questo qualcosa non ha ancora un nome, ma lo dobbiamo costruire tutti insieme e dovrà venire dal basso ed essere per tutti e per tutte”.
Video realizzato dai diverse band e artisti messicani in solidarietà con Cherán.