di Giorgio Forni
Riccardo Bonavita, Spettri dell’altro. Letteratura e razzismo nell’Italia contemporanea, a cura di Giuliana Benvenuti e Michele Nani, Il Mulino, 2010, pp. 227, € 22,00.
Nel febbraio del 1992 alcune centinaia di studenti dell’Università di Bologna occupavano pacificamente l’aula in cui avrebbe dovuto parlare lo storico Ernst Nolte per protesta contro la tesi semplificante della “guerra civile europea” che equiparava nazifascismo e bolscevismo relativizzando lo sterminio ebraico e minimizzando i tratti specifici del razzismo di stato del Novecento. Quella giornata, che allora ebbe una risonanza addirittura europea, fu un piccolo evento di vita universitaria, ma alcuni fra coloro che vi presero parte con più entusiasmo vi sentirono forse un impegno ulteriore di approfondimento critico e di memoria civile. filosofica applicata alla storia, ai detriti del rimosso, alle ombre inquietanti della nostra identità collettiva.
Vero è che, a uno sguardo retrospettivo, quell’atto di dissenso giovanile segna l’avvio di una pluralità di ricerche e di iniziative che hanno attraversato la cultura bolognese e italiana per quasi vent’anni: nel novembre del 1994 esordiva la mostra La menzogna della razza: documenti e immagini del razzismo e dell’antisemitismo fascista, realizzata con il patrocinio dell’Istituto regionale per i Beni Culturali diretto da Ezio Raimondi; seguirono poi le attività del “Seminario permanente per la storia del razzismo italiano” coordinate da Alberto Burgio; gli studi di Rudy M. Leonelli sul revisionismo storico e sulla genealogia foucaultiana della “guerra delle razze” (ora nuovamente dibattuta negli atti del convegno Foucault-Marx. Paralleli e paradossi, a cura di R.M. Leonelli, Roma, Bulzoni, 2010); il volume collettaneo Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945 (Bologna, il Mulino, 2000); fino ad arrivare, per esempio, alla mostra recente L’estraneo tra noi: la figura dello zingaro nell’immaginario italiano, allestita da Mauro Raspanti nel 2008. In breve, una filologia filosofica applicata alla storia, ai detriti del rimosso, alle ombre inquietanti della nostra identità collettiva.
Non a caso in quella mattinata del 1992, con un frusciare di gentilezza sorridente, Riccardo Bonavita distribuiva un volantino in cui campeggiava un aforisma delle Tesi di filosofia della storia di Walter Benjamin, su cui in quegli anni aveva ragionato a lezione pure il Raimondi: “In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla. […] Anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere”. E di lì a poco il Bonavita avrebbe messo alla prova quel concetto alto di tradizione con i suoi studi sul primo Ottocento, sul Leopardi del Discorso giovanile e poi dei Paralipomeni, sulla poesia di Franco Fortini: dal “Proteggete i miei padri” della Cassandra foscoliana dei Sepolcri al classicismo anticonformista e ironico del Leopardi fino agli ultimi versi del Fortini di Composita solvantur uscito proprio nel 1994: “Non per l’onore degli antichi dèi, / né per il nostro ma difendeteci. / […] / Rivolgo col bastone le foglie dei viali. / Quei due ragazzi mesti scalciano una bottiglia. / Proteggete le nostre verità”. Nell’operazione poetica e intellettuale del Fortini il giovane Bonavita aveva trovato insieme un tramando di memoria e un’utopia critica, quella della Poesia delle rose: “Chi siamo stati / sapremo e senza dolore”. Così oggi, leggendo la raccolta postuma di saggi intitolata Spettri dell’altro. Letteratura e razzismo nell’Italia contemporanea, viene da dire che nella sua generazione di universitari bolognesi il Bonavita fu colui che sentì con più passione e più rigore l’esigenza di coniugare l’impegno civile della coscienza critica con gli strumenti dell’analisi letteraria e filologica, anche e soprattutto esplorando i margini lividi e feroci della storia culturale del Novecento.
Proprio nel predisporre la mostra La menzogna della razza — “una pratica di lavoro collettivo”, ricordano ora i curatori del volume, “svolta da ricercatori extraccademici e, in gran parte, senza l’appoggio o l’indirizzo di docenti universitari”, — il Bonavita doveva imbattersi in un dato singolare e anzi sconcertante: il riuso ampio e abituale del Leopardi prosatore e filosofo nelle pagine del periodico fascista “La Difesa della Razza”, dapprima con il saggio Leopardi e gli ebrei di un noto italianista di quegli anni come Francesco Biondolillo e poi con una rubrica stabile di Pensieri di Leopardi composta di ritagli tendenziosi dallo Zibaldone e dalle Operette morali a supporto letterario delle leggi razziali del 1938. È la vicenda indagata nel primo saggio del volume, Ma Silvia era ariana? del 1995, ove l’arruolamento forzoso del Leopardi a “difesa della razza” diventa anche un esempio limite per ridefinire il problema della tradizione e del conformismo: fino a che punto il rapporto con la tradizione deve fondarsi sui valori vivi e dominanti nell’attualità o invece “proteggere” criticamente le verità anche estranee, vili o persino odiose dei “padri”? Attraverso il dialogo aberrante fra i testi leopardiani e gli intellettuali antisemiti che vi leggono un precorrimento fondativo del razzismo fascista, proiettandovi abusivamente un’antitesi fra tetra “ragione” ebraica e vivificante “immaginazione” latina, il Bonavita intende indagare più in generale i modi di costruzione dell’identità collettiva e le procedure con cui essa “seleziona i valori che di volta in volta devono essere ricercati nella cultura nazionale” (p. 17). Così, l’analisi attenta del “leopardismo fascista” permette di illustrare una tipologia reazionaria di rapporto con il passato: quella che reinventa la propria tradizione allineando le grandi figure storiche in una galleria di nobili antenati, “mucchio indifferenziato e sacrale di roba di valore” (F. Jesi, Cultura di destra), fino a banalizzare la storia come natura occultando le possibilità, le stratificazioni e i conflitti che la attraversano. A fronte del “rifiuto di qualsiasi relativizzazione storicistica dei valori reputati tradizionali” (p. 24), per il Bonavita occorre invece perseguire una coraggiosa ricognizione critica negli scantinati bui della storia, fosse anche per “studiare dei fantasmi, dei vecchi libri privi di ogni incanto”.
Era allora un campo nuovo di problemi cui corrisponde la scoperta di un nuovo ambito di oggetti letterari: il romanzo commerciale d’epoca fascista, da Mario Carli a Salvator Gotta, da Giovanni Papini a Guido Milanesi e a Mario Appelius. Quattro saggi del volume prendono così in esame “il razzismo nella narrativa dell’Italia fascista” e ne indagano anche gli antecedenti fra Otto e Novecento, nella convinzione che il fenomeno razzista si costituisca tramite un lento accumulo di immagini, luoghi comuni, schemi mentali, che fanno infine apparire “naturali” le classificazioni discriminatorie su cui si fonda l’esclusione e la violenza razzista. Lo stereotipo dell’inferiore (l’africano) e quello dell’estraneo a ogni patria (l’ebreo) non si affermano dunque come sottoprodotti della legislazione coloniale fascista e delle leggi razziali del ’38, ma s’impongono a partire da “bacini di credenza” di lunga durata, da un “serbatoio di dispositivi retorici”, da un “giacimento di stereotipi, narrazioni, percezioni, assiologie, teorie scientifiche o pseudoscientifiche passibili di essere attualizzate, riprese e rifunzionalizzate” (p. 189). Proprio la scomposizione narratologica dei romanzi di consumo degli anni Venti e Trenta permette di far emergere un sistema costante di opposizioni binarie pseudonaturalistiche tra “puro” e “impuro”, tra “sano” e “perverso”, persino tra “bestia” o “cosa” e “persona”, che dispiegano ben prima del ’38 una “strutturazione razzista dell’intero immaginario romanzesco” (p. 33). Per comprendere questa torsione delle strutture usuali del romanzo commerciale, il Bonavita fa anzitutto entrare in gioco la nozione di “controtipo” elaborata da George Mosse in The Image of Man del 1996: al fine di acuire il senso di comunità organica, i nazionalismi europei del Novecento hanno fabbricato e diffuso le icone di “controtipi” etnici, di antimodelli riprovevoli, di nemici interni posti sui gradi più bassi di una presunta scala evolutiva. Proprio la campagna per “imprimere nelle masse” la disciplina virile dell’“uomo nuovo” promuoveva l’impiego pedagogico di stereotipi razzisti e la creazione romanzesca di personaggi malvagi e corrotti per immutabile ascendenza etnica. Al principio, l’immaginario razzista che si esprime nella narrativa di consumo non rappresenta che “un risvolto della costruzione del nuovo italiano fascista” (p. 94).
Tuttavia, per intendere appieno l’efficacia sociale dei “controtipi”, non basta solo descrivere le forme e le strategie storiche della propaganda romanzesca, ma attraverso di esse occorre risalire al funzionamento della “macchina mitologica” che le ha prodotte. Misurandosi con le categorie antropologiche di René Girard, il Bonavita sperimenta così una prospettiva aggiuntiva e complementare rispetto a quella del Mosse analizzando il razzismo letterario anche come “meccanismo di proiezione rovesciata di sé sul capro espiatorio” (p. 18). Caso esemplare risulta allora quello di Giovanni Papini, nella sua ambigua conversione dal “Nulla” a “Dio”, dal nichilismo provocatorio e visionario della giovinezza al cattolicesimo aggressivo e antimoderno degli anni Venti. Già nel 1921 il Papini pubblicava la sua fortunatissima Storia di Cristo, rielaborando fra quelle pagine, su toni di stilizzata violenza espressiva, la cupa leggenda medievale dell’Ebreo errante dedito a “rastrellare l’oro che cade dall’orificio escremenziale di Satana”. In opere successive, dal Dizionario dell’Omo Salvatico del ’23 fino a Gog e alla Leggenda del Gran Rabbino del ’31, il Papini si cimentava in fantasie e invettive contro “negri”, “bolscevichi” e “giudei”, ritraendo questi ultimi sempre come un misto di avidità, affarismo, lerciume, sadismo, depravazione. Pochi anni dopo, “in un inquietante gioco di specchi tra finzione e realtà” (pp. 61 e 140), la propaganda fascista riproporrà quelle invenzioni letterarie come resoconti autentici del “complotto ebraico” per dar slancio operativo alle leggi razziali del ’38. Eppure proprio il giovane Papini venticinquenne, nel lontano 1906, aveva svolto l’elogio del “vagabondaggio” e della “diversità” paragonandosi persino a un “Ebreo errante” della cultura: “l’amore della diversità, l’amore del cambiamento”, “i nostri viaggi spirituali di Ebrei erranti della cultura”, scriveva al tempo del Tragico quotidiano (ed è forse una formula cara all’inquieta generazione vociana se Slataper poteva identificarsi nel 1910 con un “Ebreo errante che va e va e non trova mai letto” e Soffici riconoscere in Rimbaud un “Ebreo errante della poesia e del sogno”). Non parrà allora fuorviante ritenere che nelle mitologie razziste agisca una spinta anche autopunitiva o autodistruttiva proiettata al di fuori, un tentativo malato di disconoscere una parte di sé, “l’inconfessata rimozione della propria precedente identità” (p. 41): da un lato, sul rovescio esemplare dei “controtipi”, la “rappresentazione dell’altro” produce una “definizione di sé” autoritaria e uniformante (p. 82); ma il “controtipo” della propaganda non avrebbe efficacia emotiva se non vi fosse la disponibilità o l’impulso ad “attaccare l’Altro”, come ben documenta il caso di Papini, “per rinnegare una parte di sé” (p. 47).
Né certo è un caso che, nei luoghi culminanti del racconto, il “sistema di opposizioni” del razzismo romanzesco solleciti il lettore alla rimozione dell’eros e della morte secondo un impianto proiettivo rigidamente duale. Basti qui a darne prova il topos largamente diffuso della “bella ebrea” che, osserva il Bonavita, si rivela infine “astuta, malvagia fino al sadismo, sensuale fino alla lussuria, e adesca il protagonista impersonando la figura dell’amante, sempre in opposizione paradigmatica con la fidanzata ariana dell’eroe” (p. 59): un topos che condensa l’eros sul corpo attraente e incompatibile per annullarlo nei miti di purezza della “razza”. Ed è in fondo lo stesso schema proiettivo che soggiace al campo metaforico dell’ebreo come cadavere quando si consideri ad esempio una scena romanzesca quale questa del buon poliziotto ariano che pattuglia il ghetto ebraico nel Marchio di Giuda di Romualdo Natoli (p. 65):
Le occhiate velenose che ogni tanto lo raggiungevano gli davano un senso di fastidio che non sapeva spiegarsi. Gli pareva di essere al centro di un brulichio di vermi immondi, perché provava la stessa sensazione di ripugnanza e di orrore che si prova quando si mette la mano sulla carogna di un animale che è già stato visitato da centinaia di parassiti.
L’identificazione dell’eroe nella perennità della “razza” permette di allontanare da sé la morte oggettivandola nell’estraneo, nell’altro come “carogna” ripugnante e venefica da segregare e distruggere.
Composita e insieme compatta, costruita per approssimazioni successive e per incrementi metodologici di lucido, razionale eclettismo, la raccolta di saggi intorno agli Spettri dell’altro riunisce materiali sparsi già editi che avrebbero dovuto costituire la base di un lavoro più ampio e sistematico, con il titolo provvisorio di I nemici immaginari. Rappresentazioni dell’alterità e razzismo nell’invenzione letteraria italiana, di cui restano appunti, schede preparatorie, schemi di capitoli, ripercorsi nella Postfazione dai curatori con affettuosa intelligenza: il progetto era quello di uno studio dell’immaginario razzista italiano che avrebbe dovuto giungere dalla prima modernità fino al presente, allo studio persino delle pubblicità commerciali, dei fumetti, dei dépliants turistici e di quegli elementi comunicativi a larga diffusione che orientano il senso comune di una società.
Ai cinque studi sul razzismo letterario d’epoca fascista, apparsi fra il 1995 e il 2003, i curatori hanno opportunamente aggiunto due ulteriori interventi ispirati a una limpida volontà di memoria integrale: la ricostruzione storica delle disagevoli vicende postbelliche di due grandi italianisti ebrei, “Una ingiustizia strana e indecifrabile”. Il difficile rientro di Santorre Debenedetti e Attilio Momigliano, ultimata nel 2003 avvalendosi fra l’altro delle testimonianze orali di Vittore Branca e di Anna Laura Lepschy, e una conferenza straordinaria sulla Shoah e la poesia del Novecento del 1999, poi riformulata nel 2004, che dal dialogo a distanza fra Theodor W. Adorno e Paul Celan muove ad esplorare le possibilità espressive della scrittura poetica come forma di resistenza civile all’orrore e di testimonianza anche immaginativa e indiretta che può però rendere sensibile l’ineffabilità atroce della degradazione e dell’annientamento. Si tratta di una prospettiva inversa rispetto a quella esperita di recente da Pier Vincenzo Mengaldo con La vendetta è il racconto (Torino, Bollati Boringhieri, 2007): non il problema della memoria come verità documentaria, testimoniale, depositata per frammenti sul fondo di scritture molteplici come elemento invariante, ma piuttosto l’esigenza del tramando sensibile, emozionale di un evento irrappresentabile di fronte al cui limite, scriveva Primo Levi, “comprendere è quasi giustificare”. Vero è che in quest’ultimo saggio non solo si ritrova un’immagine fedele dell’oralità penetrante e affabile del Bonavita, la sua capacità impavida e discreta di rovesciare le evidenze, ma vi risplende un’ultima volta il dovere critico di una tradizione strappata al conformismo: la necessità, specialmente dinanzi al negativo, all’orrore dello sterminio, di “elaborare un valore che deve essere comunicabile, trasmissibile” (p. 171), la “trasmissibilità di qualcosa che deve essere ricordato perché non si ripeta” (p. 169). In un mondo dotato di raffinati strumenti multimediali, in cui però la ricchezza di informazioni e immagini rischia sempre di trasformarsi in una sostanziale, caotica povertà di senso, importa anche e soprattutto destare emozioni morali che diventino etica e civiltà: “Il problema non è infatti far vedere che questo è stato, il problema è far sentire la gravità di ciò che è avvenuto, far provare dei sentimenti di fronte alla narrazione di questi eventi” (p. 156). E vi è dietro altresì la lezione del suo Leopardi, un’idea di poesia come misura autentica, vitale della verità collettiva dell’esistere.