di Gianluca Gabrielli (1)
Il secondo razzismo di Stato
Il razzismo non scompare per decreto. Anche il razzismo italiano degli anni Trenta non scomparve con l’abrogazione delle leggi razziste. Le profonde radici che affondavano nella società italiana sono sopravvissute alla caduta del regime e sottotraccia hanno continuato a produrre identità e dispositivi potenzialmente discriminatori. Ci siamo accorti di ciò proprio in occasione del riemergere di questi dispositivi all’inizio degli anni Novanta, quando l’arrivo di persone migranti delle popolazioni che un tempo erano sottomesse alle nazioni imperialiste ha fatto riemergere il vecchio razzismo, coniugato secondo il nuovo senso comune, il nuovo lessico (non più «razza» ma «etnia») e le nuove accezioni discriminatorie.
Così quell’enorme bacino sommerso di pregiudizi un tempo indirizzati contro i sudditi coloniali o gli ebrei viene rivolto ora contro i migranti, spesso con l’aggravante di politiche che negano loro i diritti e le elementari forme di accoglienza previsti dalle normative umanitarie internazionali. Nel 1991 l’arrivo a Bari di 22.000 albanesi su una carretta del mare rappresentò l’inizio emblematico di una stagione che oggi è ancora in pieno sviluppo: essi furono concentrati nello stadio cittadino e immediatamente espulsi, con una risposta amministrativa che, criminalizzando i «clandestini», accettava in qualche misura i diffusi pregiudizi contro di loro e li alimentava a sua volta. Da lì ha preso avvio la lunga stagione dei Centri di permanenza temporanea, delle campagne leghiste e non solo contro i migranti, della demonizzazione dell’Islam. Una stagione in cui — in risposta alla crescita di presenze della seconda generazione di migranti – i governanti, sia di destra che di sinistra, non allargano i canali per il riconoscimento della cittadinanza bensì progettano e realizzano restrizioni, come nella disciplina dei matrimoni misti che in questi ultimi anni è stata attaccata da entrambi gli schieramenti.
Non sappiamo ancora come si andrà sviluppando nei diversi settori della società italiana questo nuovo razzismo di Stato — definibile in tal modo poiché la discriminazione è supportata anche da leggi dello Stato. Nell’ultimo anno però, riguardo alla scuola, abbiamo assistito a progetti e realizzazioni indirizzati direttamente a colpire il diritto all’istruzione e le modalità di frequenza scolastica di specifiche categorie di giovani: si tratta dei giovani migranti. A partire da questi interventi governativi proverò a fare un esercizio di storia del presente, cioè a proporre dall’analisi di questi atti un’interpretazione di quale scuola sia progettata per i migranti, quale immagine di essi alberghi nella mente dei legislatori e infine come si vada definendo il confine tra chi — per ora — può rimanere – pur in modalità subordinate – dentro il circuito dell’istruzione pubblica e chi invece è destinato ad esserne espulso.
Le ”classi-ghetto”
In ottobre del 2008 la maggioranza di governo ha stabilito, nell’ambito della discussione sulle misure di riforma della scuola, l’istituzione delle cosiddette «classi ponte» che meglio sarebbe definire “classi ghetto per stranieri”. Si tratta di una mozione votata dalla Camera dei deputati che impegna la maggioranza a preparare una legge per sancire il trattamento separato degli alunni e alunne stranieri nella scuola italiana. Con la realizzazione di questa norma, infatti, tutti gli alunni e le alunne migranti che si iscriveranno per la prima volta nella scuola pubblica italiana dovranno sostenere un esame di lingua in ingresso; chi non supererà l’esame verrà separato fino a dicembre di ogni anno scolastico in classi separate definite «classi ponte» dove dovrà studiare l’italiano e un vero e proprio curricolo per migranti. Poi, a dicembre, un nuovo esame sancirà l’inclusione dello studente nelle classi normali oppure ne decreterà la separazione per tutto il resto dell’anno.
Didatticamente si tratta di un’idea avulsa dalla letteratura specialistica sull’apprendimento delle lingue. È risaputo che per imparare una lingua ci si deve immergere in essa, non separarsene. Una delle pratiche più diffuse per far apprendere l’inglese ai ragazzi italiani è di organizzare soggiorni estivi in Inghilterra e i genitori stanno bene attenti a che i ragazzi rimangano più tempo possibile a contatto con ragazzi del luogo. Allo stesso modo è assodato dell’esperienza che i bambini migranti apprendono la lingua italiana nel corso della vita scolastica in classe, soprattutto durante le attività organizzate per gruppi in cui è utile lavorare scambiandosi opinioni, e giocando durante gli importantissimi momenti di ricreazione. Inoltre gli specialisti spiegano che per insegnare bene una lingua occorre rispettare la “fase del silenzio” che inizialmente è caratteristica in ogni inserimento e che ha una durata estremamente variabile.
L’idea che raggruppare in una classe i bambini e le bambine di svariate lingue madri e provenienze — separandoli dai coetanei italofoni e obbligandoli ad una produzione linguistica immediata — possa rivelarsi per essi un aiuto all’acquisizione della lingua italiana appare quindi del tutto infondata; i firmatari della mozione durante il dibattito parlamentare hanno parlato di «discriminazione transitoria positiva» a favore dei minori migranti, ma è evidente che si tratta di una definizione pretestuosa, un maldestro tentativo di capovolgere l’evidenza.
Una volta esclusa la finalità didattica non resta che riconoscere l’intento discriminatorio della mozione: dividere i bambini stranieri dai bambini italiani e imporgli un percorso di ingresso-assimilazione sia linguistico che culturale, imponendogli una pubblica sanzione di diversità e riunendoli agli altri solo previo superamento dell’esame. Difficile sostenere che tale pratica non sia razzista.
Ma la cosa interessante, con il rischio di rimanere allibiti, è scavare all’interno di questa mozione per capire qualcosa di più di questo nuovo razzismo. Infatti i legislatori hanno formulato anche quello che viene definito il «curricolo formativo essenziale», pensato come programma di lavoro specifico per questi scolari stranieri aspiranti ad essere promossi a scolari della scuola italiana:
a) comprensione dei diritti e doveri (rispetto per gli altri, tolleranza, lealtà, rispetto della legge del paese accogliente); b) sostegno alla vita democratica; c) interdipendenza mondiale; d) rispetto di tradizioni territoriali e regionali del Paese accogliente, senza etnocentrismi; e) rispetto per la diversità morale e cultura religiosa del paese accogliente.
Come ogni discorso razzista coerente, anche questo curricolo definisce al medesimo tempo sé (l’italiano) e l’altro (il migrante) e ci fornisce la chiave per capire le ragioni che, al di là della lingua, a parere degli estensori del testo (e della maggioranza dei parlamentari italiani che l’hanno approvato) costituiscono l’impedimento all’ingresso di alunni stranieri nelle classi con alunni italiani. La lettura non è complicata e non è difficile d’altronde colmare i pochi dubbi interpretativi integrandoli con gli interventi che hanno accompagnato la discussione parlamentare della mozione.
Cominciamo dalla definizione di sé.
Secondo questa delibera (punto «e» del Curricolo formativo essenziale) gli italiani sono caratterizzati da una «diversità morale» che deve essere «rispettata» dallo straniero; è Luisa Capitanio Santolini [UDC], che comunque voterà contro la mozione, a sostenerlo:
Credo che la scuola abbia compiti […] che sono l’istruzione, l’educazione e l’insegnamento di quei valori che hanno fatto grande la nostra nazione.
Questa diversa morale si collega con una «cultura religiosa» particolare — quella cristiana cattolica — che presumibilmente viene ritenuta il fondamento di tale diversità morale. Anche la cultura religiosa va rispettata e l’alunno straniero deve essere formato a tale rispetto, ce lo spiega Fabio Garagnani [Forza Italia]:
Proprio perché non mi voglio trovare – come mi trovo nella mia regione – a dover accettare che la benedizione ad una nuova scuola sia negata da una minoranza di genitori politicizzati in nome della parità culturale con le altre etnie, dico che questa mozione, in nome del rispetto per l’altro, ma anche della nostra tradizione culturale e religiosa, di questo senso di identità che caratterizza noi italiani e che dobbiamo insegnare agli immigrati, per rispetto loro e nostro, è meritevole di consenso (Applausi dei deputati dei gruppi Popolo della Libertà e Lega Nord Padania) e denota la vostra ipocrisia, il vostro totale venir meno di senso di appartenenza ad una collettività nazionale.
Il rispetto dovuto alla religione cattolica non è inteso come generale, cioè non è valido per tutte le confessioni ma è specifico per il cristianesimo cattolico (probabilmente un po’ perché rappresenta la religione maggioritaria nel paese ospitante, un po’ per l’idea degli estensori che tale religione sia effettivamente superiore alle altre); esplicita in questa rivendicazione di superiorità confessionale e del diritto a confessionalizzare la vita pubblica di tutti gli abitanti è Paola Goisis, illustratrice della mozione [Lega Nord]:
«Non si può immaginare che quando arriverà il Natale i nostri bambini italiani, veneti, lombardi, piemontesi non possano celebrare tale ricorrenza, altrimenti qualcuno si offende, che non possano nominare Gesù e venga sostituito il nome di Gesù con «virtù» nelle canzoncine di Natale. Noi queste cose non le tolleriamo più. Non permetteremo assolutamente che questo succeda (Applausi dei deputati del gruppo Lega Nord Padania)! Anzi, avanzeremo un’altra proposta: che a fianco della Costituzione venga regalata a tutti i bambini e a tutte le scuole italiane anche la Bibbia e magari il Vangelo, perché questa è la nostra cultura, questi sono duemila anni di storia che abbiamo alle spalle e che non possiamo cancellare.»
Gli italiani inoltre sono caratterizzati da tradizioni locali molteplici e diverse tra loro che portano in sé un ulteriore valore identitario. Ce lo ricorda il punto «d» del Curricolo: «rispetto di tradizioni territoriali e regionali del Paese accogliente, senza etnocentrismi». Pare di capire che l’alunno straniero verrà educato a conoscere le usanze di campanile al fine di esibire anche per esse un rispetto particolare, mentre la frase «senza etnocentrismi» presumibilmente non si riferisce all’assurdità della sottolineatura localistica delle tradizioni italiane, bensì al timore che il migrante — messo di fronte a tale localismo italiano — ritenga di sviluppare coerentemente il ragionamento arrivando a rivendicare le proprie radici culturali.
Gli italiani infine (punto «b» del Curricolo) hanno una vita democratica basata (punto «a») su diritti e doveri; quindi l’alunno straniero deve essere educato a non derogare da quei doveri che gli estensori della mozione considerano estranei alla sua cultura tanto da non poterli riconoscere, e cioè: «il rispetto per gli altri, la tolleranza, la lealtà, il rispetto della legge del paese accogliente». Di nuovo Luisa Capitanio Santolini [UDC] ce ne dà un’esemplificazione, mostrando bene quale immagine dei giovani stranieri riposa nella mente anche dei meno xenofobi di questi parlamentari:
Richiamo l’attenzione, con la mozione in esame, proprio sui giovani, perché non dobbiamo dimenticare che spesso questi giovani vengono in Italia, sulle nostre coste accompagnati non dai genitori naturali: hanno subìto una tratta già nei loro Paesi di origine, sono quindi deprivati dei loro affetti e il loro destino, se non si interviene, è quello dell’accattonaggio, se non addirittura di attività delinquenziali. Quindi, si tratta di giovani particolarmente a rischio, che possono magari rientrare nel racket della malavita della peggior specie.
A questo punto, una volta definito il Sé, è facile passare alla definizione dell’Altro, del migrante. Abbiamo infatti tutti gli elementi per dedurre quale immagine dello scolaro e della scolara stranieri emerge dalla mozione Cota: un soggetto all’origine culturalmente incapace di rispettare gli altri e intollerante, potenzialmente sleale, tendenzialmente incline a violare le leggi dei paesi ospitanti. Lo chiarisce in maniera cristallina Massimo Enrico Corsaro [AN] facendoci riaffiorare alla mente un classico degli stereotipi coloniali: la figura dell’«arabo sleale, trucchista e traditore»:
…prendersi cura di realtà, di fenomeni sociali, di famiglie e di bambini che provengono da posti, da nazioni, da culture oggettivamente deficitarie quanto a cognizione di argomenti di questo genere… [si riferisce a legalità, lealtà, ecc].
Il migrante sarebbe infine un soggetto non cattolico e quindi caratterizzato da una diversa moralità, che deve essere educato al rispetto della moralità italiana derivata dal cattolicesimo e al rispetto del cattolicesimo stesso come religione dominante, maggioritaria e di superiore moralità. Un soggetto incline a non rispettare le tradizioni locali che fondano la civiltà italiana ma che tende ad ignorarle per un vizio di radicato etnocentrismo. Un soggetto inferiore.
Ma questa separazione non serve solo alla rieducazione dell’Altro, alla sua assimilazione, alla sua civilizzazione. Essa serve anche a definire e a rafforzare l’identità degli studenti italiani, a celebrarli in quanto portatori di una moralità superiore; ce lo spiega bene Benedetto Fabio Granata [AN]:
Il primo insegnamento alla cittadinanza deve riguardare gli italiani stessi, che devono essere consapevoli di che cosa è l’Italia e con quale forza vanno proclamati e difesi alcuni diritti e doveri all’interno delle scuole.
Creare classi senza la presenza di bambini o bambine che parlano inizialmente altre lingue significa anche porre le premesse per poter nazionalizzare nuovamente il curricolo, ad esempio quello di storia, rafforzando l’orgoglio di appartenenza culturale ed etnica italiana e cattolica di fronte ad un pluralismo che di volta in volta viene percepito come potenziale minaccia e come oggetto di una possibile assimilazione, laica o religiosa:
E sappiamo bene che l’identità poggia, innanzitutto, sulla conoscenza della storia e di tutto ciò che è stato, sulla conoscenza delle nostre grandi civiltà del nord, ma anche di tutta l’Italia. Come posso pensare che nelle mie classi i bambini e i ragazzi non debbano studiare la storia della Serenissima, che non possano studiare la battaglia di Lepanto? Il 7 ottobre abbiamo celebrato la festa della Madonna del Rosario, festa che è stata istituita proprio a seguito della battaglia di Lepanto Paola Goisis [Lega Nord].
Deve, però, cominciare a preservare tutte le differenze, ad iniziare da quella della cultura dell’identità italiana e nazionale che, al pari delle altre, deve ugualmente essere preservata, tutelata e messa in condizioni di esercitare un’attrazione a livello di integrazione nei confronti di chi arriva spinto dal bisogno, e dalla necessità Benedetto Fabio Granata [AN].
Le classi-ponte in questo senso funzionano piuttosto come classi-fossato, scavate per fermare l’«invasione» di questi “barbari” dei nostri giorni che con il loro flusso continuo minacciano la crescita culturale delle nuove generazioni di italiani:
Nelle scuole e nei paesi del nord, invasi a causa del vostro buonismo (Commenti dei deputati del gruppo Partito Democratico), invasi in modo scientifico, Ettore Pirovano [Lega Nord].
Ma qui stiamo parlando di bambini di circa venti, trenta etnie diverse, cara onorevole De Biasi, che, nel corso dell’anno, arrivano a Milano, nelle scuole di periferia, ininterrottamente, e non consentono ai bambini, tutti iscritti in quelle classi, la regolare frequenza e l’apprendimento che noi dobbiamo garantire. Valentina Aprea, sottosegretaria all’Istruzione [Forza Italia].
La permanenza nella classe-ponte sarà quindi la materializzazione, per i bambini e le bambine migranti, di una chiara alternativa: o accetteranno di assimilarsi alla cultura italiana riconoscendone la superiore civiltà, e allora ne usciranno presto…
«Dobbiamo noi educare questi bambini e questi ragazzi al rispetto delle nostre regole, della nostra tradizione e della nostra cultura – se vengono qui, essi devono accettare la nostra cultura» Paola Goisis [Lega Nord],
…o accetteranno di amare l’Italia…
«Sogno studenti stranieri di colori diversi di pelle, che si sentano italiani, che amino l’Italia. A questo proposito ho sempre avuto un po’ la mania di far sì che venga proposto e potenziato, ad esempio, uno studio più approfondito dell’arte per gli studenti stranieri: infatti, per amare l’Italia va conosciuta. Quindi una proposta che è il contrario del razzismo» Paola Frassinetti [AN].
…oppure verrà decretata la loro separazione scolastica sine die, la classe-ponte funzionerà da classe-ghetto. D’altronde — come sostiene Benedetto Fabio Granata, «affermiamo realmente, con la mozione in esame, che l’Italia spetta a chi la ama».
Il “reato di clandestinità” e la scuola
La mozione che impegna a istituire le classi ponte non è l’ultima delle iniziative governative razziste che coinvolgono istruzione e migranti.
Durante la primavera del 2009 parlamento e opinione pubblica sono stati impegnati a dibattere il nuovo «pacchetto sicurezza» del governo includente la norma che avrebbe reso la mancanza di permesso di soggiorno, cioè la condizione di cosiddetta «clandestinità» del migrante, un reato penale. Il progetto, vecchio cavallo di battaglia di AN e Lega, punisce per la prima volta una condizione e non un fatto materiale, come faceva notare un appello di giuristi sottoscritto prima dell’approvazione della legge:
L’ingresso o la presenza illegale del singolo straniero dunque non rappresentano, di per sé, fatti lesivi di beni meritevoli di tutela penale, ma sono l’espressione di una condizione individuale, la condizione di migrante: la relativa incriminazione, pertanto, assume un connotato discriminatorio ratione subiecti contrastante non solo con il principio di eguaglianza, ma con la fondamentale garanzia costituzionale in materia penale, in base alla quale si può essere puniti solo per fatti materiali.
La questione è di estrema importanza poiché l’istituzione di un reato penale “contro ciò che si è” fa parte della grande famiglia dei razzismi (l’ebreo era discriminato perché era ebreo, l’africano perché di pelle nera) e colpisce la categoria — stranieri — che insieme agli “zingari” ha subito più forte il peso del razzismo sociale e politico degli ultimi vent’anni in Italia.
In luglio il disegno di legge è stato approvato e dall’8 agosto la norma è operativa. Durante l’iter parlamentare è nata più volte la discussione sulle conseguenze di tale articolo e la riformulazione del dettato aveva ad un certo momento raggiunto livelli persecutori ancora più ingenti, non solo con l’istituzione del reato e con il divieto di registrare le nascite e i matrimoni (elementi puntualmente entrati in vigore) ma anche con l’ipotesi di vincolare all’obbligo di denuncia i medici, gli insegnanti e i presidi, trasformando la salute e l’istruzione da un diritto della persona ad una trappola per i migranti, e le scuole e gli ospedali da luoghi di civiltà a territori della delazione. C’è voluto un doppio intervento paradossale (Alessandra Mussolini prima, firmataria di una lettera di deputati del Pdl e poi Gianfranco Fini come presidente del Senato) affinché il governo derubricasse — anche se solo parzialmente – dal dettato legislativo queste ultime due aberrazioni.
In definitiva, per ciò che riguarda la scuola, la situazione con l’approvazione della legge risulta decisamente più persecutoria che nel passato. La norma precedente, art 6 del Testo unico sull’immigrazione, prevedeva un eccezione all’obbligo di esibizione del permesso di soggiorno per «l’accesso ai servizi pubblici», dei quali fa parte l’intero sistema scolastico. Con la nuova normativa l’art. 6 è stato modificato e l’eccezione riguarda ora i provvedimenti «attinenti alle prestazioni scolastiche obbligatorie». Il peggioramento è duplice, poiché non solo il migrante privo del permesso di soggiorno è divenuto dall’8 agosto un reo, ma anche perché l’indicazione di eccezione dall’obbligo di presentazione del permesso di soggiorno riguarda ora solo le prestazioni scolastiche obbligatorie e quindi potrebbe precludere il completamento degli studi superiori (che non sono obbligatori oltre il secondo anno) agli studenti privi del permesso.
Il dibattito pubblico sulla legge, condotto come sempre su toni enfatici e criminalizzanti, ha prodotto casi di applicazione anticipata e zelante (e ovviamente illegittima e discriminatoria) della futura norma. È il caso della dirigente dell’Istituto professionale per il commercio Casaregis, a Sampierdarena che ha fatto il giro delle classi e ha scritto platealmente sulla lavagna i nomi degli alunni stranieri che nel corso dell’anno avrebbero compiuto il diciottesimo anno di età e che non avevano chiarito la loro posizione relativa al permesso di soggiorno. Di fronte al caso sollevato da una lettera di insegnanti indignati, si è giustificata «sostenendo di aver scritto quei nomi sulla lavagna perché temeva altrimenti di sbagliarne la pronuncia, e che quello era semplicemente un invito a presentare al più presto i relativi documenti in segreteria». Il 4 maggio 2007 toccava all’Istituto professionale Leonardo da Vinci di Padova dove la preside richiedeva letteralmente da un giorno all’altro la presentazione dei permessi di soggiorno agli alunni stranieri che avrebbero dovuto svolgere gli esami di maturità. Qualche settimana dopo era la volta di Napoli dove Daria, una ragazza ucraina, diventava caso nazionale perché – non avendo il permesso di soggiorno – non aveva il codice fiscale richiesto dalla circolare ministeriale del 22 maggio e quindi non poteva registrarsi per l’esame di maturità. Sul caso interveniva minimizzando il ministro Gelmini che dichiarava alla stampa: «Non c’è nessun motivo di legge per cui la ragazza di Napoli non possa affrontare l’esame di maturità» sconfessando la nota del suo ministero e facendo rientrare anche questa espulsione da scuola che avrebbe anticipato la legge. L’ultimo contenzioso emerge a Milano ad opera della giunta comunale; l’iscrizione ai centri estivi organizzati dal Comune (l’iniziativa era significativamente intitolata «Milano amica dei bambini»), viene vincolata alla presentazione del «permesso di soggiorno in regola con la normativa vigente» e in giugno viene così comunicata l’esclusione dei bambini privi del documento. Come l’anno precedente per un analogo tentativo discriminatorio relativo alla frequenza negli asili nido, c’è voluta una sentenza del Tar per ribadire, su ricorso di una mamma ecuadoriana, che la mancata accettazione dell’iscrizione costituisce «attività discriminatoria, in quanto avente ad oggetto l’ esclusione da un servizio pubblico fondamentale».
Oggi in Italia il principio che l’istruzione, senza discriminazioni di sorta, sia un diritto insindacabile di ogni individuo è contraddetto dai fatti fin qui esposti. Chiudo questo testo alla vigilia dell’apertura del nuovo anno scolastico; presumibilmente nei prossimi mesi da una parte si apriranno nuovi contenziosi giuridici riguardo agli studenti che, senza permesso, rivendicheranno il loro diritto alla scuola, dall’altra però molte famiglie preferiranno evitare rischi e molti studenti di scuola secondaria saranno indotti ad abbandonare. Sulla stampa in questi giorni si discute sull’incriminazione per clandestinità dei cinque eritrei scampati alla morte che invece è toccata ai loro 73 compagni di gommone, tra cui dei minorenni. Eritrea, colonia “primigenia”. Chissà in che classi sarebbero finiti quei ragazzi se fossero scampati alla traversata, ai “respingimenti”, al razzismo italiano e alle classi ponte…
1) Militante dei Cobas della scuola. I contenuti del suo saggio sono stati presentati in occasione del convegno Trasformazioni dello Stato e della società: deriva autoritaria e mobilitazione reazionaria, Massa Carrara, 18-19 aprile 2009 e alla Scuola estiva sul razzismo “Un’idea” del XV Meeting Internazionale antirazzista, Cecina (Li), 15 luglio 2009.