salmon.jpgBuone intenzioni, premesse confuse, libro raffazzonato. Che il potere racconti storie è un’ovvietà, che noi si debba smettere di farlo è una scemenza

di Wu Ming 2
Articolo apparso su L’Unità del 27/09/2008

All’inizio di settembre, Chicco Mentana ha invitato nel salotto di Matrix il Ministro per la Pubblica Amministrazione, perché rendesse conto agli spettatori della sua famosa battaglia contro i fannulloni. Come prossima tappa, Brunetta ha promesso che lancerà un concorso. Impiegati e dirigenti che lavorano bene verranno invitati a raccontare la loro storia. Il Ministero valuterà e pubblicizzerà le più belle. Ai vincitori, ricchi premi in busta paga.
Burocrazia e narrativa. Il binomio sembra azzardato. Ma cosa spinge un Ministro a raccogliere aneddoti edificanti, oltre a griglie di dati e relazioni tecniche?
Alessandro Baricco, in un’intervista al Corriere, ha sostenuto che ormai “tutto è narrativo”: dal modo di esporre le merci al linguaggio scientifico, dall’informazione al marketing, alla politica.
Lo scrittore francese Christian Salmon – nel suo saggio Storytelling, da poco uscito per Fazi – ha trovato un nome accattivante per questa febbre di racconto. L’ha chiamata nuovo ordine narrativo, evocando l’immagine di una macchina per plasmare le coscienze, catturare le emozioni, incitare al consumo. Una macchina che è diventata la struttura portante, il motore stesso del capitalismo.

Nell’edizione originale del libro, Salmon illustra per 210 pagine come e perché i grandi potentati economici, politici e militari hanno colonizzato il nostro immaginario grazie alle tecniche di scrittura creativa. Loro azzeccano una storia e noi li votiamo. Azzeccano una storia e noi compriamo. Solo le ultime due pagine sono dedicate alla controffensiva. E sono le più fumose e contraddittorie di tutto il saggio.

Per principio non amo i libri apocalittici che lasciano il lettore nella paralisi. Il ricorso alla paura e al cassandrume mi pare troppo facile e troppo inflazionato. Pretendo, se mi si dipinge l’assurdo, che mi si traccino anche le vie della rivolta.
Per questo motivo vorrei mostrare che l’analisi di Salmon è molto difettosa e la sua vaghissima “proposta” di resistenza del tutto insostenibile. Un’accettazione acritica delle sue tesi, infatti, potrebbe indurci a seppellire l’arma più affilata che abbiamo per contrastare l’egemonia culturale della destra. Quest’arma sono proprio le storie.

Primo difetto: Salmon definisce nuovo l’ordine narrativo che ci troviamo a fronteggiare. Ora, potranno essere nuove le tecniche utilizzate, ma certo non è nuovo il fenomeno. Come ha scritto Paul Veyne, rovesciando lo slogan del Sessantotto parigino, l’immaginazione è al potere da sempre. Anche il faraone aveva scribi e sacerdoti incaricati di cantarlo come dio in persona. Anche nell’Antico Egitto si mescolavano le carte, confondendo religione, biografia, politica e mito. Martirologi, vite di santi, eziologie e genealogie hanno continuato a fare lo stesso lavoro per centinaia di anni. Benito Mussolini sosteneva che la cinematografia è l’arma più forte.
Nel marzo 2001, Silvio Berlusconi ha invaso le nostre cassette postali con uno strano ibrido tra pamphlet, volantino, rivista di gossip, autobiografia, bollettino parrocchiale e dépliant pubblicitario. Si intitolava, guarda caso, “Una storia italiana”. Molti, nel riceverlo, hanno percepito un salto di qualità rispetto al passato. Ma non credo consista, come direbbe Salmon, nel fatto che oggi le storie vengono usate per conquistare il potere e non soltanto, a posteriori, per giustificarlo. In politica le storie ci sono sempre state, solo che l’accento si è spostato dalle ideologie ai leader, dai programmi agli individui. Inoltre, le storie arrivano direttamente a casa tua, saltando ogni mediazione, come del resto accade a moltissime merci nell’era del consumo personalizzato.
Quanto al marketing, l’uso di storie per vendere prodotti è vecchio come la pubblicità. Molto prima di Carosello, la American Tobacco Company riuscì a convertire le americane al fumo, inventando il mito della donna emancipata con la sigaretta in mano. Il responsabile della campagna era Edward Bernays, nipote di Freud, considerato l’inventore dell’ingegneria del consenso. Bernays inviò alcune modelle alla New York City Parade, dicendo ai giornalisti che un gruppo di donne avrebbe brandito “Torce di Libertà” nel corso della manifestazione. A un segnale convenuto, le ragazze si accesero una Lucky Strike. Il New York Times del 1° aprile 1928 raccontò l’intera storia sotto il titolo: “Un gruppo di giovani fuma sigarette in segno di libertà”.

Non c’è mai stata un’età del mondo in cui la comunicazione fosse sganciata dal racconto e dalle mitologie depositate nel linguaggio. La narrazione non occupa un campo specifico (di mero intrattenimento), e non esiste un discorso logico-razionale “puro”. Leibniz sperava che un giorno qualunque disputa si sarebbe potuta risolvere con un calcolo, ma per fortuna quell’alba non è mai sorta. Il positivismo ha sognato che la scienza potesse emanciparsi una volta per tutte dai suoi trascorsi filosofici e letterari, ma i maestri del sospetto – Marx, Nietzsche e Freud – hanno rinvenuto tre cariche esplosive alle fondamenta dell’oggettività scientifica: gli interessi economici, la volontà di potenza e l’inconscio. Quest’ultimo è molto più vasto di quel che si credesse fino a trent’anni fa: non comprende solo istinti e desideri repressi. La scienza cognitiva ha scoperto che il pensiero lavora per lo più in maniera inconscia e che buona parte di questi meccanismi neurali nascosti richiamano strutture narrative. Scheletri di miti e leggende sono tatuati sui nostri cervelli con un inchiostro elettrico. Le storie ci sono indispensabili per capire la realtà, per dare un senso ai fatti, per raccontarci chi siamo. Abbiamo bisogno di scenari e le narrazioni ce li forniscono, spesso con un vantaggio importante rispetto alle cosiddette analisi razionali: le storie ci fanno emozionare e le emozioni, lungi dal contagiarla, sono invece un ingrediente essenziale della ragione. Senza rabbia, passione, tristezza e speranza non saremmo in grado di ponderare la più piccola scelta. Ci comportiamo in modo da essere felici, non per massimizzare l’utilità attesa.

Non sorprende allora che il potere si sia sempre appoggiato a miti e leggende. E forse, per tutta risposta, basterebbe continuare a fare quel che abbiamo sempre fatto: sgonfiare le favole dei potenti, raccontare altre storie.
Invece no. Perché secondo Salmon – e qui sta il secondo difetto – le storie ormai si stanno inflazionando, perdono il loro potere, diventano armi di distrazione di massa. Le emozioni degli individui sono catturate da un così vasto numero di racconti, aneddoti, autobiografie, che anche un narratore di talento fatica a farsi ascoltare, a coinvolgere, a stimolare i lettori. Salmon evita di trarre le dovute conseguenze di un simile quadro, ma è chiaro che se le cose stanno così, chiunque racconti finisce per collaborare al nuovo ordine narrativo, che in fondo si configura come un enorme caos, con lo scopo finale di annichilire il pensiero.
Per fortuna, credo proprio che le storie non si possano inflazionare. Ai tempi di Gutenberg, molti umanisti temevano l’avvento della stampa. Sostenevano che l’abbondanza di libri avrebbe svalutato la cultura e la capacità di memoria. Oggi nessuno si sognerebbe di fare un’affermazione simile. E’ un’abbondanza che abbiamo imparato a gestire, con archivi, biblioteche, case editrici e note di copertina.

Piuttosto è il termine “storia” che rischia di svalutarsi se lo usiamo a sproposito. Molti manager e capitani d’industria si saranno lasciati abbindolare dai corsi per cantastorie aziendali, ma questo non significa che siano diventati capaci di raccontare. Anche il potere ha aggiornato le sue tecniche, ma non è detto che sappia sfornare sempre una storia decente. Spesso il racconto non tiene e si può smontare, a patto di non illudersi che i fatti possano bastare. La prove servono nelle aule di tribunale, con l’opinione pubblica non sono sufficienti.

Se la popolazione di un quartiere brucia un campo nomadi e si giustifica raccontando che “una zingara ha tentato di rubare una bambina”, la realtà empirica c’entra poco. In quel caso, sfiancarsi a dimostrare che la donna non stava davvero rubando la bambina è del tutto inutile. Piuttosto, bisogna scomporre il mito dello “zingaro ladro di bambini” e provare a sostituirlo con qualcos’altro. Nel più recente ed atroce degli episodi di razzismo, un ragazzo di colore è stato ucciso a sprangate per aver rubato un pacco di biscotti. Molte persone, per elaborare l’accaduto, si sono fatte una domanda “narrativa”: “Cosa sarebbe successo se a rubare i biscotti fosse stato un bianco?” Si sono figurate la scena, hanno visto che il finale non sarebbe stato un omicidio e si sono convinte che il furto era soltanto un pretesto per “ammazzare un negro”. Meccanismi come questo ci aiutano a capire la realtà molto più spesso di quel che immaginiamo.

Tornando al libro, un terzo difetto è il suo essere impreciso e raffazzonato. Il termine storytelling viene sempre usato a sproposito, come sinonimo di “racconto mercificato”, tecnica narrativa per secondi fini. In inglese, non ha nessuna connotazione del genere: indica semplicemente “il raccontare storie”. Il digital storytelling si trasforma in strumento demoniaco, quando non è altro che un modo di narrare banalmente multimediale, con musica, voci e immagini. Guru diventa addirittura una parola di origine africana (!), sinonimo di griot, cioè cantastorie (*). E da qui la considerazione che i “guru del management” hanno svuotato il termine della sua dimensione sociale.
Inoltre, il testo è costruito in buona parte con materiale di seconda e terza mano, citazioni di citazioni di esempi, provenienti soprattutto dagli Stati Uniti: su Sarkozy e sull’Europa non più di dieci pagine, infilate in fretta tra le conclusioni.

E qui arriviamo al difetto più grande: proprio nel finale, Salmon si rende conto di dovere qualcosa ai lettori. Dopo aver descritto lo strapotere del nuovo ordine narrativo, senza dedicare una riga alle pratiche di resistenza già in atto, prova ad indicare una nuova via d’uscita. Lo fa riportando per intero un manifesto di Lars von Trier dove il regista danese dichiara che “le storie sono il nemico”, “un modo per presentare al mondo un puzzle già risolto”. Per evitarle, occorre imparare a “vedere senza guardare”, in una parola: “sfuocare!”.

Salmon chiosa il testo sostenendo che per liberarsi dall’affabulazione obbligatoria servono contro-narrazioni di questo genere, che “inceppino la macchina per fabbricare storie”.

E su questa considerazione, di vago sapore luddista, si chiude il libro. Solito vecchio discorso: poiché il nemico utilizza uno strumento, lo strumento diventa il nemico. Qualcun altro, per fortuna, ci ha insegnato che le macchine vanno strappate a chi le controlla e usate per contrastarne il dominio.

* Questi apocalittici, tsk! Non c’era bisogno di un esperto di lingue antiche, al Salmon sarebbe bastato consultare Wikipedia: “Guru è un termine sanscrito (गुरू, gurū) che presso la religione induista ha il significato di maestro o precettore spirituale.” [N.d.R.]


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