di Alberto Prunetti
Marco Rovelli, Lavorare uccide, Milano, Rizzoli, 2008, pp. 246, €10,20
[Dedico questa recensione a mio padre Renato Prunetti, operaio saldatore-tubista che smantellava amianto e respirava piombo, benzina e titanio, che ha iniziato a lavorare a 15 anni, sordo e senza denti a 40, morto a 59 anni per un tumore mentre aspettava una indennità INAIL. ] A. P.
Dopo l’impressionante Lager Italiani – un’indagine sui centri di permanenza temporanea, i famigerati CPT — Marco Rovelli dedica la sua nuova ricerca alle vittime dell’insicurezza. Non quella “percepita” perché costruita mediaticamente, ma quella ben più consistente e reale: le vittime sul lavoro. E anche stavolta non si ferma a numeri e statistiche, ma va alla ricerca di storie.
Storie cancellate, dimenticate, sopraffatte da quel diluvio di allarmi e emergenze fittizie che occupano le pagine dei media. Eccoli qui, allora, i protagonisti di queste storie, in carne e ossa, perché le cifre in qualche modo rendono asettica e distante l’analisi, la svuotano di forza, trasformando i muscoli laceri e le ossa rotte in statistiche e percentuali: Florian, rumeno, morto nelle campagne del foggiano, schiacciato da un trattore; Andrea, rimasto a 23 anni sotto una macchina tipografica per un lavoro precario che gli fruttava 900 euro al mese; Gianfranco, caduto da un tetto senza nessuna imbracatura di sicurezza; Ilir, che tornava sempre a casa con le dita spaccate e gonfie e un giorno è si è schiantato a terra da un lucernario; Bogdan Mihalcea, travolto a 24 anni da un’ondata di melma in una fogna; Franco, schiacciato da una locomotiva. Tanti italiani, tanti stranieri. Spesso operai. Non di rado costretti a dilazionare la loro morte tra una chemioterapia e un’altra.
Operai che dormono assieme agli attrezzi, ridotti a utensili di un cantiere. Operai che devono andare di corsa, in fretta, per finire lavori con preventivi al ribasso. Operai contrattati, appaltati, subappaltati, sommersi. Operai che se si fanno male allora si assumono, operai che chissà perché muoiono sempre il primo giorno di lavoro. Operai che se sono italiani muoiono “per tragica fatalità” e se sono stranieri stranieri “è colpa loro che non hanno una cultura del lavoro e della sicurezza” —ma sono tutti antropologi questi imprenditori edili? — e mai colpa dell’azienda che se ne frega di ogni norma.
Uno scenario fosco e realistico quello descritto con tanta meticolosità da Rovelli, tra caporali, operai esternalizzati costretti ad aprire partita iva, catene di subappalti che legano lavori pubblici e criminalità organizzata, cooperative che tagliano i costi e spacciano i propri assunti per soci. E poi gli imprenditori. Imprenditori agricoli, imprenditori industriali, imprenditori criminali. La differenza è poca. Tutta gente che gioca sporco, sfruttando a volte la legalità viscida dei subappalti, dei contratti atipici, degli appalti al ribasso, spostandosi continuamente sulla soglia tra il lavoro precario e il lavoro nero. L’importante è produrre, stivare, spedire. Andare, camminare, lavorare, come cantava Piero Ciampi. Il lavoratore morto lo si sostituisce in fretta.
Se è italiano, si fa un funerale, si paga un’indennità o una multa, al peggio esce un trafiletto su un giornale. Domani tutti se ne saranno dimenticati, distratti dalle notizie sulla “percepita” insicurezza delle strade, dalla fabbrica mediatica di insicurezza che assegna allo stato il compito di garantire un’incolumità che nessuno minaccia, laddove niente si fa per chi davvero muore tra le ganasce del mercato. E così tu padrone, tranquillo, aspetti la prescrizione o un condono dal governo e il fax dall’agenzia interinale che ti manda un nuovo operaio.
Se è uno straniero, un “extracomunitario”, tanto meglio. Lo lasci in campagna e aspetti che i giornali parlino di un incidente stradale o di regolamento di conti tra criminalità immigrata. Oppure lo smaltisci lungo un fosso, dentro un bosco. Come una lastra d’amianto. Vite di scarto, appunto.