di Franco Pezzini
Qui la puntata precedente di Victoriana
“Ma il mio ipotetico lettore credo abbia già compreso qual era il tema che guidava le mie dita.
Mi interruppi avvertendo un brivido. Avrei voluto punire la mano colpevole e la bocca atteggiata a fischio che stava per accompagnarla. Decisi che doveva trattarsi di stanchezza, forse di un principio di costipazione. Mangiai senza alcun gusto il mio piatto preferito e rientrai prima del solito, disertando il tavolo da gioco di Mr. Utterson”.
Così, in un delizioso racconto, La danza della scimmia, edito alla fine del 2007 in un’antologia di cui si dirà, lo scrittore torinese Massimo Citi si diverte a giocare con la mitologia vittoriana. E l’eleganza sorniona dell’esercizio di stile suscita almeno due riflessioni per un rapporto tra letteratura, immaginario e riflessione sociale.
“Mr. Utterson” può essere ovviamente l’amico avvocato del dottor Jekyll, il cui Strano caso (1886) è citato in epigrafe a richiamare la “depravazione infinita” che qui inabissa un direttore d’orchestra: ma in questo caso il medium non è un farmaco bensì un motivetto musicale. “Quella sonatina era insieme sguaiata e banale, roboante e romantica, di quel romanticismo idiota che affascina le sarte e le sgualdrine e che induce compassati gentlemen a frasi altisonanti e ridicole”: e ben presto il maestro Petöfi che trancia simili considerazioni verrà precipitato da quel ritmo in un’ossessione con drammatici sviluppi. D’altro canto il nome attribuito da Petöfi al pezzo, appunto la Danza della scimmia, e il suo stesso carattere persecutorio non possono evitare il richiamo alla demoniaca scimmietta del Green Tea di Joseph Sheridan Le Fanu (1869, poi confluito nella notissima raccolta In a Glass Darkly, 1872), tormentatrice di un povero ecclesiastico fino alla disperazione e al suicidio. Ma in un caso e nell’altro, nel Doppio degradato di Jekyll come nella sospetta entità restituita da qualche oscura rifrazione interiore, il rimando letterario è a un mondo di trasalimenti psichici cui l’età vittoriana ha offerto un’indimenticabile galleria e una sorta di vocabolario cui ricorriamo ancor oggi.
Rivisitando completamente le vecchie strutture del gotico a base di fantasmi — in genere fasulli — e fanciulle in ansia in Italie improbabili, le inquietudini precipitano ora in carne e focolari della donna vittoriana, nel suo asfittico ciclo sociale, in larve che fanno assai più paura perché impastate nella definizione di un’identità. È il caso ovviamente di Laura, la narratrice di Carmilla (1871, poi pure inserito nella raccolta In a Glass Darkly), che proietta il vampiro del suo desiderio nella Pensionopoli di vecchi in cui è esiliata. Ma anche della povera Maud protagonista di un altro straordinario romanzo di Le Fanu, quell’Uncle Silas (Lo zio Silas, 1864) precursore dei moderni thriller psicologici, assurdamente trascurato per tanto tempo in Italia e ora finalmente, meritoriamente in uscita per i tipi Gargoyle.
D’altra parte il vilain cambia faccia: e lasciando alle spalle le malvagità spicciole dei vari Schedoni e Montoni paleogotici, minaccia adesso la collettività, diventa cioè sempre più spesso mostro sociale come Hyde da un lato, e dall’altro Dracula (1897), il Moriarty di Conan Doyle (1893) o il terrificante dottor Lipsius di The Three Impostors di Arthur Machen (1895). E dunque insidiano la società da un lato in forma singola ma indefinitamente seriale (non a caso Jack the Ripper, 1888, arriva solo due anni dopo la pubblica notorietà di Hyde), dall’altro in forma associata, preannunciando il trionfo col Novecento di un nuovo imperialismo criminale, e di macrostrutture di potere non-morte e infettive. Ma in un caso o nell’altro il mostro si rivela invisibile nello specchio sociale: Dracula non si riflette, Jekyll e Moriarty appaiono stimati professionisti. In sostanza, nella cornice non scorgiamo null’altro che il nostro volto, a suggerire che in qualche misura essi inscenino Ombre nostre e delle nostre scelte (o non-scelte), nemesi o Legione dei nostri aspetti più equivoci, personali o collettivi.
E un’ideale unità di misura di questo scarto è talora proprio la scimmia, icona di scontro nell’Ottocento (ma nuovamente oggi) tra modelli evoluzionistici in progressivo aggiustamento e quei creazionismi mai spenti nel riflettere la risposta facile, la resistenza irreligiosa alla complessità. Con la differenza che nel “nuovo” fantastico dell’età vittoriana l’orango omicida della Rue Morgue (1841) si rivela sempre più spesso in noi e nei nostri demoni, “scimmia di Dio” che trotterella sul crinale tra vita interiore e collettiva: e dalla maschera scimmiesca degli Hyde che il cinema ha cercato di definire — forzando l’elusività perturbante del testo di Stevenson — si arriva al raggelante racconto di William Wymark Jacobs The Monkey’s Paw (appunto La zampa di scimmia, 1902) in cui la ghost story svela un’inquieta carica di profezia sociale. E che resta tra i testi più noti del suo autore, un narratore di storie di mare che respirava in casa battaglie civili tramite la moglie militante per il voto alle donne.
The Monkey’s Paw fu portato a teatro nel 1907, poi varie volte su grande schermo fin dall’età del muto, e ancora nel 2007 col film nepalese Kagbeni: e pur essendo chiaramente incentrato sul tema della terribilità dei desideri esauditi, merita tuttavia una lettura a più strati. Il primo dei tre desideri rivolti dal povero signor White alla zampa-talismano del titolo è di ottenere duecento sterline: e tante gliene verranno come grazioso indennizzo aziendale per l’orrenda morte del figlio sul lavoro. Col secondo desiderio degli sconvolti genitori quel morto tornerà a bussare alla porta di casa: ma la terza e ultima richiesta mirerà a far cessare i suoi colpi alla porta. Le zampe di scimmia che oggi tendono a coprire quel frenetico bussare (come certi coretti stizziti per le nuove sanzioni a tutela della salute degli “imprudenti” lavoratori) non sono forse meno numerose che al tempo di Jacobs, e sta a noi sforzare l’orecchio.
Sia o meno corretto ravvisare proprio nell’età vittoriana il momento della saldatura entro il linguaggio fantastico fra trasalimenti interiori e sociali, è comunque a quel periodo che dobbiamo alcune tra le più provocatorie espressioni del tema e chiavi di approccio che restano preziose. E laddove il citato racconto di Citi si chiude nel segno di un desolato riconoscimento interiore, a un livello più generale il panorama dell’Anno Domini 2008 costringe a interrogarsi su quanto di nostro avalli un dilagante, sguaiato balletto di scimmie.
Ma La danza della scimmia interessa anche per un secondo motivo. Massimo Citi, infatti, non è soltanto scrittore di fantastico, ma libraio e piccolo editore: e insieme alla narratrice e critica Silvia Treves regge le fila di una bella operazione di militanza culturale, legata ai tipi CS-libri e all’ormai decennale rivista indipendente di attualità librarie LN LibriNuovi. Se il racconto in questione rappresenta soprattutto un intelligente divertissement, per avere un assaggio della più originale produzione fantastica di Citi val la pena cercare la sua magnifica raccolta In controtempo (appunto CS_libri, 2007, con prefazione di Alessandro Defilippi e fotografie di Cettina Calabrò), popolata da fantasmi che non sono ombre di morti, ma piuttosto di situazioni, cose, sensazioni nella risacca del tempo. Mentre attorno al trimestrale LN LibriNuovi germinano varie altre iniziative: in particolare le antologie annuali Alia, di letteratura fantastica, e Fata Morgana, che invece accorpa novelle di diversa natura attorno a una costellazione tematica. Le antologie, va detto, non sono rare nella produzione dei piccoli editori: ma una caratteristica di quelle curate da Citi & Treves sta nella straordinaria qualità dei racconti, anche grazie a una piccola e agguerrita schiera di complici e fiancheggiatori. E non è senz’altro un caso che il gruppo sia ben rappresentato tra i ventidue nomi eccellenti della raccolta Tutto il nero del Piemonte curata da Danilo Arona e Angelo Marenzana per i tipi di Noubs, 2007.
Proprio dall’undicesima edizione di Fata Morgana, sul tema Musica. Note, pause, silenzi proviene La danza della scimmia: e la ricca scelta di autori — non solo italiani — rende conto di quanto spesso sia labile e artificiosa la distinzione tra genere e mainstream. Basti pensare a come i due bellissimi racconti iniziali, Precario equilibrio di Stefano Mola e Non voglio magliette dei Misfits di Alessandra Rosa — garbato ed elegante il primo quanto frizzante e acidulo l’altro, ma entrambi non “di genere” — si armonizzino con storie classicamente fantastiche. Sull’uno e l’altro versante, merita dunque fare nomi e cognomi: oltre ai già citati, Bruno Bianco, Piero Fabbri, i bravissimi giapponesi Ekuni Kaori, Miura Shion e Tsuji Hitonari, il cinese Wu Yan (con il surreale, fantascientifico Mousepad), Cettina Calabrò, Adolfo Marciano, Mirella Nicola, Fabio Lastrucci, Andrea Rossi, Marilde Trinchero, Francesca Ortenzio. Più i complici abituali: la citata Silvia Treves con L’ultima finestra del cubo, che rilegge in modo liberissimo il tema delle case infestate; Massimo Soumaré (anche traduttore dei racconti giapponesi), col malinconico e delicato Maboroshi — Visioni d’estate; e Davide Mana, che ne La quarta scimmietta frulla insieme in una pirotecnica ucronia “fatti poco noti, leggende metropolitane e coincidenze” sull’avventura dei Monkees, “i «Pre-fab Four», band artificiale composta da due musicisti, un ex fantino e un doppiatore di cartoni animati”. Dove, ancora una volta, il richiamo è alla Scimmia, maschera di sberleffo che fotografa le nostre inquietudini su identità e società. E se, com’è ovvio, non possiamo evitare di esserne turbati, realtà come la squadra di Fata Morgana rappresentano un antidoto preziosissimo al suo fragoroso, acuto berciare.