di Girolamo De Michele
a proposito di:
William Langewiesche, Regole d’ingaggio, Milano, Adelphi, 2007
Babsi Jones, Sappiano di sangue le mie parole, Milano, Rizzoli, 2007
Michael Herr, Dispacci, Padova, Alet, 2005
Un anno dopo la morte di Kubrick, Michael Ciment ricordava come il regista di Full Metal Jacket avesse fatto della guerra il soggetto di quasi tutti i suoi film: «Ogni genere gli ha sempre fornito il pretesto per illustrare una guerra: la guerra di coppia, la guerra del robot e del computer contro l’uomo, la guerra di classe». Narrare la guerra, per immagini o parole, è anche un modo per descrivere le relazioni umane, o quantomeno gli aspetti conflittuali di queste relazioni, senza passare dall’anticamera della psicologia: il discorso sulla guerra è allegoria della condizione umana. Due libri “di guerra”, usciti sul finire del 2007, possono aiutarci a penetrare i meccanismi di questa allegorizzazione.
Regole di ingaggio di William Langewiesche e Sappiano le mie parole di sangue di Babsi Jones — ai quali va necessariamente aggiunto quell’altro grande libro “di guerra” che è Gomorra di Roberto Saviano — raccontano, in modo solo apparentemente opposto, i nuovi scenari di guerra del terzo millennio. Scenari che nell’immaginario globale stanno sostituendosi all’immagine del Vietnam come simbolo universale della guerra, senza però mutarne la sintassi narrativa ed esplicativa di quella dimensione dello spirito che è la vietnamizzazione dell’esistenza, narrata in termini difficilmente oltrepassabili da Michael Herr in Dispacci: che si parli di Iraq o Kossovo, di Ground Zero o Scampia, dal suo «Vietnam, Vietnam, Vietnam, ci siamo stati tutti» non siamo ancora usciti — né si vede come potremmo uscirne.
Langewiesche [a destra] — lo ha sottolineato Saviano — è autore non di reportage narrativi, ma di narrazioni-reportage. Pratica non la cronaca, ma la connessione dei dettagli in «un’oggettività che non è universalismo». Langewiesche sembra far proprio un precetto benjaminiano: non ha nulla da dimostrare, ha solo da mostrare. Le sue non sono inchieste che mirano a scoprire i fatti, ma descrizioni di relazioni che intelligono la realtà E nel mostrare si dimostra narratore di razza; in American Ground (Adelphi, 2002), ad esempio, ci incatena alla pagina dietro la fuga dall’interno delle Due Torri di Pasquale Buzzelli e Genelle Guzman — sembra di assistere a una scena di L’inferno di cristallo — per poi concludere, dopo il salvataggio di Guzman: «è stata l’ultima persona a emergere viva dalle rovine». La tragedia dell’11/9 si riassume in queste poche parole: come col manzoniano «e la sventurata rispose», non c’era altro da aggiungere. Con lo stesso stile scarno e apparentemente asettico Langewiesche penetra, in Regole d’ingaggio, nella sequenza di eventi che porta una compagnia di marines in Iraq a sterminare, il 19 novembre 2005 ad Al-Haditha, due famiglie di inermi civili. E di nuovo, a dispetto della distanza apparente tra il narratore e il narrato, siamo trascinati nel villaggio iraqeno, sentiamo il crepitare delle armi, le voci disperate dei familiari delle vittime. Siamo dentro la sconfitta della democrazia. Langewiesche è un descrittore di fenomeni: ma sa che ogni descrizione deve, per poter diventare oggetto reale, essere interpretata come sistema di segni e compresa come simbolo. Nel disporre i fenomeni davanti ai nostri occhi crea le condizioni perché il lettore svolga questo compito: ci trascina dentro la macchina pigra, e ci mette all’opera, proprio come faceva Michael Herr nel suo Vietnam, colto nel punto in cui gli oggetti reali si frantumano in schegge e ridiventano percetti, fenomeni la cui riconnessione è lasciata a noi (una lezione che Saviano ha metabolizzato negli anni in cui la sua scrittura da cronaca si faceva intelligenza dei fatti all’interno dei fatti stessi).
Col libro di Babsi Jones — una sorta di “taccuino di viaggio” all’interno della guerra contro la Serbia — mutano gli strumenti espressivi, resta immutato l’effetto voluto con consapevole determinazione. L’esperienza personale di una “cronista per caso” non è, come erroneamente è stato detto, una chiave di lettura che dal singolare dell’esperienza personale conduce all’universale. La scrittura di Babsi Jones si situa nel punto cruciale in cui i fenomeni sono divenuti segni, senza per questo trovare una catarsi simbolica che conferisca senso al caos. È qui che l’autrice, ritenendo di aver esaurito il proprio compito, si dilegua: «l’autore fa un inchino all’alfabeto e se ne va», dice Babsi citando Burroughs. Che il senso dell’esistenza sia il conflitto non è una sorta di senso nascosto che il lettore scopre aprendo lo scrigno rinvenuto grazie al mappa del tesoro: è l’effetto di superficie di un caos che si dà nel testo come nella “realtà”, nel quale i segni confliggono senza speranza di pacificazione. Al lettore che accetta la sfida la certezza che, all’interno dei testi citati, non è consentito nulla di più di ciò che afferma Matthew Modine in Full Metal Jacket (non per caso sceneggiato da Herr); «sono vivo in un mondo di merda».
Considerati i linciaggi di cui sono stati oggetto Babsi Jones e Saviano, un’affermazione doppiamente vera.
Elzeviro pubblicato su Liberazione del 6 febbraio 2008