di Tito Pulsinelli
[Proponiamo un intervento scritto a caldo da Tito Pulsinelli per www.selvas.org, appena resa nota la vittoria di stretta misura dei “no” al referendum indetto, in Venezuela, per approvare o respingere le modifiche alla Costituzione proposte da Hugo Chávez e dal suo governo. Le ragioni della sconfitta di Chávez erano in qualche misura state anticipate da Pulsinelli in un suo precedente articolo. In attesa di una riflessione più ampia dello stesso autore, consiglio a chi conosca lo spagnolo di leggere la riflessione molto lucida e dura scritta da due amici della “rivoluzione bolivariana” su Rebellión. Alcune brevi considerazioni in appendice.] (V.E.)
Il referendum per la riforma della Costituzione si è concluso con un vittoria al “fotofinish” del settore che vi si opponeva.
Si è registrato un 44% di astensioni.
Il SI alla riforma ha ottenuto il 49,2% dei voti
Il NO ha ricevuto il 50,7% dei consensi.
Questo significa che c’è stata una differenza di voti che oscilla tra i 125 mila e i 175 mila.
Il “tiranno” Chávez ha immediatamente riconosciuto il verdetto del Consiglio Nazionale Elettorale, ammettendo che la maggioranza della cittadinanza ha respinto la sua proposta. I detrattori e i diffamatori del Venezuela devono arrendersi a una evidenza solare: è un Paese pienamente democratico, dove ci sono state 12 elezioni in 8 anni. E – caso unico – il referendum è uno strumento usato per consultare la cittadinanza su tutte le questioni vitali per il Paese.
L’opposizione è riuscita a tenere a freno la sua ala oltranzista e ha eliminato così il proprio endemico astensionismo. Ha raggiungiunto 4 milioni e mezzo di voti, che è il suo bacino di utenza massima.
Al settore bolivariano che sostiene il Presidente Chávez sono mancati 3 milioni di voti, che nel dicembre dell’anno scorso lo accampagnarono alla presidenza. Perchè? Crisi di legittimità? Inversione improvvisa di tendenza?
La riforma della Costituzione riguardava cambiamenti di fondo che avevano a che vedere con la fisionomia futura del Paese, la rotta che avrebbe dovuto seguire. Era un programma realizzabile nell’arco dei prossimi 20-25 anni, non riguardava la politica e gli indirizzi attuali del governo.
I 3 milioni di voti che mancano all’appello non sono confluiti verso il blocco del NO, non vogliono schierarsi con l’opposizione.
Non è una bocciatura, è un richiamo all’attenzione, a guardare il presente, a mettere un freno alla fuga in avanti. Non si possono trascurare i problemi del presente o illudersi sull’effetto salvifico degli ideologismi.
L’astensionismo bolivariano è spiegabile se non si perde di vista la differenza che c’è tra elettori e militanti, tra consenso attivo e passivo, tra quelli per i quali Chavez è “il Presidente” e non “il Comandante”.
Chavez ha uno zoccolo duro di 4 milioni e 300 mila elettori. L’opposizione, nel suo momento di massimo fulgore, ha raggiunto 4 milioni 522 mila sostenitori.
E’ una dato che la “dittatura mediatica” non può occultare e che deve meditare, se non vuole passare dal pessimismo cosmico all’ebbrezza trionfalista. Fino a ieri il Venezuela era una “quasi”-dittatura, da oggi cominceranno a suonare la grancassa della crisi di legittimità, nuove elezioni, spallata.
Il Paese esce rafforzato da questa prova. Per la prima volta l’opposizione riconosce e fa propria la legittimità della Costituzione del ’99, cioè quella che per molti anni aveva disconosciuto e irriso, e che in quest’ultima fase ha difeso con vigore contro la sua possibile riforma.
NOTA: IL “DITTATORE COSTITUZIONALE”
[Tito Pulsinelli si illude che l’accettazione da parte di Chávez del risultato delle urne (addirittura quando si trovava in testa nello spoglio, ma di stretta misura: al che ha dichiarato che preferiva rinunciare a una “vittoria di Pirro”) sia stata sufficiente a indurre i media occidentali, tra cui quelli italiani, a riconoscere il carattere democratico del suo governo. Niente affatto. Il 4 dicembre il Corriere della Sera è uscito con un editoriale di Sergio Romano (apologeta del franchismo) in prima pagina e le intere pagine 2 e 3 a carattere monotematico: Chávez resta il caudillo rosso, la sua è una dittatura che opprime e reprime, voleva il potere assoluto ma non gli è riuscito, toccava la sacra proprietà privata, osa ribellarsi all’egemonia americana. Dittatore, dunque; e dato che i suoi comportamenti non sembrano conformarsi alla definizione tradizionale, eccone una nuova di zecca: “dittatore costituzionale”. La forma più pericolosa di tirannide.
Corifei di una simile, perpetua condanna, una vera falange: oltre a Sergio Romano, che di falangismo se ne intende, l’ “antipolitico” Gian Antonio Stella (divenuto esperto di Venezuela dopo che scrisse un libro divulgativo sull’emigrazione italiana a Caracas, e per sua ammissione trascorse laggiù quindici giorni, in occasione della Fiera del Libro) e – udite udite – Toni Negri. Il quale accusa Chávez di citarlo a sproposito, e di frenare il cammino verso l’autonomia operaia intrapreso da Lula, da Kirchner e dalla signora Bachelet.
Quando si parla di Chávez si formano le più curiose alleanze, e il concetto di democrazia subisce i più strani rimaneggiamenti. Il presidente della Colombia Uribe – un uomo probo, che ha visto i suoi più stretti collaboratori obbligati alle dimissioni per collusione con i paramilitari – sta per varare non per via referendaria, bensì per decreto legge, una modifica costituzionale che lo perpetuerebbe al potere. Ciò va bene a tutti. Il presidente del Messico, Calderón, le rare volte in cui esce di casa trova le locandine di un film – El Fraude, del pluripremiato regista Luís Mandoki – in cui si dimostra che la sua elezione fu frutto di brogli spudorati. Ma chi mai contesterebbe la presidenza Calderón? Persino al pachistano Musharraf è stato perdonato un colpo di Stato, grazie alla promessa di elezioni da tenersi a tempo debito.
Il concetto di “democrazia”, nel neoliberismo, è ondeggiante e variabile. Non meraviglia troppo, se si pensa che negli Stati Uniti possono candidarsi alla presidenza e alle maggiori cariche pubbliche solo dei miliardari, e che l’autorità suprema dell’Unione Europea, il governatore della BCE, sfugge a ogni controllo dal basso.
Sia biasimo invece su Hugo Chávez, come lo fu su Daniel Ortega quando, nel 1990, prese atto di essere rimasto in minoranza nelle votazioni. Disobbediscono all’Impero (non quello di Toni Negri, per carità!) dunque sono ipso facto dittatori. Anzi, “dittatori costituzionali”. Il peggio del peggio.] (V.E.)