[E’ uscito un saggio-pamphlet cruciale. Lo ha scritto Alessandro Bertante, lo ha pubblicato Agenzia X e si intitola, provocatoriamente nel senso letterale del termine, Contro il ’68. Al centro, la messa sotto accusa della deriva umana che, da rivoluzionaria, si è fatta complice di uno slittamento nazionale nella palude neoliberista, costituendo un blocco di potere che ha cristallizzato più di 25 anni di possibili rotture sociali, fino alla termitizzazione attuale. L’anticipazione data su Lipperatura dell’incipit del saggio ha creato un prevedibile dibattito: acceso nei toni e che necessiterebbe sedi cartacee adeguate alla questione sollevata. Qui riproduco parti del capitolo Conformismo e partecipazione. Ringrazio l’autore per avere concesso la possibilità di mettere on line parte del suo testo, del quale tornerò a occuparmi. gg]
Esauriti la spinta propulsiva e l’entusiasmo della fase iniziale,
i giovani contestatori furono le prime vittime della nascita di
un nuovo conformismo rivoluzionario che con esiti talvolta disastrosi
andò a sovrapporsi al già ben radicato conformismo
borghese, evidenziando in modo farsesco tutte le ambiguità politiche
della nuova sinistra extraparlamentare. Inevitabilmente
la retorica e l’ideologismo gruppettaro condizionarono la produzione artistica in letteratura come nel cinema e nel teatro,
stroncando in modo repentino il grande fermento culturale sorto
nel secondo dopoguerra. Non c’è dubbio che per l’Italia gli
anni cinquanta e sessanta furono una stagione artistica aurorale,
durante la quale si concretizzarono energie e motivazioni
che erano state tenute a freno prima dalla dittatura e poi dalla
guerra.
Contro ogni proclama e contro ogni buona intenzione, la rivolta
politica del Sessantotto, pur non avendo responsabilità
dirette in questa involuzione, accompagnò la nascita un nuovo
modello di comunicazione e fruizione culturale: leggero, orizzontale,
furbescamente accessibile e in apparenza democratico
ma superficiale e pericolosamente subdolo, pensato e costruito
in modo da potersi adattare alla straordinaria forza della televisione,
megafono privilegiato della nuova società “spettacolare”
di massa, proprio come previsto con lucida chiaroveggenza dai
situazionisti alla fine degli anni cinquanta. Un modello che in
apparenza aumenta l’importanza dell’opinione pubblica ma
che di fatto riduce drasticamente l’influenza della società civile
nella vita politica.
In questo contesto anche la figura dell’intellettuale si deteriorò
irreversibilmente, finendo con l’essere quasi vituperato
in quanto portatore di un ruolo etico e culturale, mentre andava
costituendosi un mito democratico dell’opinione pubblica,
voce univoca degli umori di una massa pressoché inerte veicolata
da messaggi mediatici sempre più semplici, sebbene fuorvianti.
“Il falso indiscutibile ha ultimato la scomparsa dell’opinione
pubblica” scriveva lapidario Guy Debord, e francamente non
riusciamo a dargli torto. Sebbene fosse già avviata da tempo, fu
proprio durante gli anni settanta che questa trasformazione divenne
evidente, solo in parte mimetizzata dalla crescente conflittualità
politica. Alla fine del decennio la società di massa, o
sarebbe meglio dire per la massa, aveva già compiuto la sua definitiva
affermazione. Si era allargata a tal punto da diventare
eterea, inconsistente, un deserto cognitivo dove poter operare
qualsiasi forma di manipolazione mediatica.
In questo vuoto pneumatico la società postindustriale fagocita
se stessa e smarrisce ogni punto di riferimento etico. Ogni
opinione ha valore, nessuna opinione ha valore. Ogni linguaggio
ha una sua dignità perché non esistono dignità né linguaggio.
Ogni mezzo di comunicazione è valido, la comunicazione
diventa il principale veicolo letterario o artistico, svilendo l’arte
nel genere, nella ripetizione del genere e poi ancora nella citazione
del genere. E in questo sotterraneo mutare, la violenta
contrapposizione politica — nella seconda metà del decennio
già di fatto perdente e chiusa in un ottuso radicalismo militare,
probabilmente incoraggiato da apparati dello stato — fa da
specchietto per le allodole di trasformazioni ben più radicali e
significative.[…]
Più tardi sarebbe stato invece chiaro che si era trattato di
una evoluzione, non di una sconfitta del capitalismo, già
in rinnovamento, già allora dialogante con il computer (a
noi ignoto), e già fuori da una prospettiva di classe in nome di una società dei servizi e del ceto medio. Una società
in cui la scolarizzazione di massa avrebbe prodotto, invece
che frammentazione e oppressione, un’identità liberale
sul terreno sociale, attentissima ai diritti individuali e
cultrice del benessere. Senza più nemmeno un pensiero
per la rivoluzione.
I frutti di questo cambiamento si iniziarono a raccogliere allo
scoccare degli anni ottanta, quando — repentinamente e quasi
senza che ce ne si accorgesse — venne a mancare ciò che Italo
Calvino chiamava “la voce anonima dell’epoca”, ovvero una
pulsione più forte e autentica rispetto alle riflessioni individuali
del singolo intellettuale o artista, una voce autorevole in virtù
della sua pregnanza rispetto alla contemporaneità.
La generazione dei sessantottini è perfetta per accompagnare
questo cambiamento. Nella sua spudorata inconcludenza
conserva il torto e la ragione assieme. In quanto espressione di
un’unica classe egemone, la borghesia urbana, rappresenta sia
il governo sia l’opposizione. La vittoria e la sconfitta. La lotta
coraggiosa e la ritirata più miserabile. Simulando la battaglia
sociale come fosse un teatro dei pupi, l’Italia postfordista dice
per sempre addio alla conflittualità fra classi.
Negli ultimi trent’anni la crisi, o meglio la percezione della decadenza
di letteratura, cinema e arte in generale, si specchia
nella mancanza di prospettive e nell’affanno esistenziale di una
società formata da uomini e donne confusi e irrisolti, fatalmente
poveri di esperienza o, meglio, del senso della loro esperienza.
L’assenza di un reale conflitto, principale motore del progresso
umano, ha ridotto drasticamente lo spazio per la ricerca
di un contenuto che dia legittimità all’inventare.
Stiamo vivendo la fase crepuscolare di quel modello culturale,
abbiamo di fronte un baratro ancora tutto da esplorare.
Ma è importante sottolineare che mentre nell’Occidente industrializzato
si profilava questo epocale cambiamento, i sessantottini si baloccavano con la chimera liberale di un’informazione
orizzontale e indipendente, dimostrando ancora una volta
di non comprendere gli autentici cambiamenti strutturali in
atto.
[…] Cosa resta quindi oggi del Sessantotto?
Non molto, in realtà. Il trasformarsi del ruolo della donna,
l’affermazione del diritto al divorzio e all’aborto, il progressivo
laicismo sociale e il mutare dei costumi fanno parte di quel trascinante
processo di modernizzazione già in atto nelle democrazie
occidentali dalla fine degli anni cinquanta, del quale il
Sessantotto fu un sintomo importante ma non certo la causa
scatenante. Processo di modernizzazione inevitabile perché legato
ai cambiamenti strutturali del sistema capitalistico, diversificato
e inafferrabile, non più fordista e non più dipendente
dalla produzione delle industrie nazionali.
Per creare nuovi mercati servivano nuovi bisogni e un immaginario
che li veicolasse, quindi una società più aperta e dinamica
che comprendesse uomini e donne, bianchi e neri, omosessuali
e omofobi, destri e sinistri, impiegati e disoccupati, risparmiatori
e gaudenti, benpensanti e tossicodipendenti. Tutti
consumatori, tutti contenti di poterlo essere. Che poi l’esaltazione
delle differenze e dell’individualità borghese vada sempre
a scapito dell’uguaglianza è storia assai nota.
In realtà sono proprio le conquiste più immediatamente politiche
maturate in quegli anni a essere state “superate” e rimosse
dall’aggressivo neoliberismo dei decenni successivi.
Anche con uno sguardo frettoloso alle condizioni dell’attuale
mondo del lavoro italiano ci si rende conto di quanto lo Statuto
dei lavoratori, rivendicato come una delle principali eredità
del Sessantotto, sia stato di fatto circoscritto e aggirato da
altre normative; rimane valido per tutelare alcune categorie di
salariati e stipendiati riemerse alla ribalta politica durante l’ultimo
governo Berlusconi, in occasione del fallito tentativo di revisione
dell’articolo 18. Ma per poco altro.
Oggi la stragrande maggioranza dei giovani tra i venti e i
quarant’anni vedono gli operai e gli impiegati assunti nei decenni
precedenti come privilegiati, e questo aumenta in modo
sensibile la mancanza di comunicazione e di mutua solidarietà
fra le diverse categorie di lavoratori.
Dell’arretramento politico a modelli rivoluzionari datati e
autoritari verificatosi nella seconda metà degli anni settanta abbiamo
già detto; bisogna aggiungere che quei modelli hanno
continuato per molto tempo a condizionare la vita politica italiana.
Ricordo che durante le occupazioni del 1990 — il movimento
universitario della Pantera — noi giovani contestatori guardavamo
con un misto di sgomento e rassegnazione all’eterno riproporsi
delle divisioni politiche degli anni settanta, con gli eredi
dell’Autonomia Operaia e degli stalinisti impegnati a fronteggiarsi
astiosamente, ancora chiusi in ruoli preconfezionati. Con
quel disordinato movimento tentammo di fermare la ristrutturazione
conservatrice già in atto da alcuni anni: le riforme universitarie
nate sull’onda della contestazione — la liberalizzazione
dei piani di studio, gli appelli mensili e l’incremento dell’interattività
fra le diverse discipline — già da tempo erano state
oggetto di limitazioni e di fatto disinnescate nella loro carica
rinnovatrice, prima della recente cancellazione operata dalla
riforma Moratti.
Affrontando il tema dell’eredità politica non si può non ripensare
agli anni ottanta, ed è un compito difficile, quasi doloroso.
Deve forse trascorrere ancora un po’ di tempo per essere
sufficiente lucidi, ma certo non è avventuroso affermare che anche
in Italia si è imposto il modello neoliberista, magari con
un’attitudine meno drastica che in altri paesi (penso all’Inghilterra,
al durissimo ed estenuante conflitto sindacale dei minatori)
e con un costo sociale decisamente più basso. Complici di
questo trapasso quasi indolore sono stati la collaudata attitudine
italiana al compromesso e il ruolo della sinistra borghese intellettuale,
freno motore delle lotte politiche degli ultimi due
decenni.
La crisi culturale della borghesia italiana come ceto trainante
delle trasformazioni sociali è l’autentica eredità del Sessantotto
studentesco.
Non poteva essere altrimenti. Contestando la propria classe
di appartenenza senza la determinazione e la tenacia di una
lotta veramente antagonista, i sessantottini hanno dato vita a
un’estetica rivoluzionaria ingannevole, un insieme di comportamenti
anticonformisti, pose e stereotipi politici ancora oggi
piuttosto diffusi e riproposti con orgoglio. Sul medio periodo
il risultato è stata una rinnovata diffidenza popolare nei confronti
della sinistra borghese intellettuale, vista come l’irritante
espressione di una classe sociale annoiata e parolaia, capricciosamente
affezionata a obiettivi politici che non le appartengono.
La crisi identitaria della borghesia si è fatta lampante con lo
spensierato edonismo degli anni ottanta, quando gli ex contestatori
perfezionarono il loro percorso professionale.
La corruzione diffusa, il malcostume sociale, la perdita del
senso etico dello stato e il definitivo affermarsi della televisione
commerciale monopolistica hanno aperto la strada al quel degrado
civile e culturale che sta all’origine dell’anomalia Berlusconi.
A sua volta, l’imprenditore di Arcore è stato uno dei primi a
capire quanto sarebbero potuti diventare utili gli ex sessantottini
in questa fase di riflusso politico ed esistenziale, sempre che
fossero riusciti a emanciparsi dalle ingenue rivendicazioni politiche
della giovinezza.
Ma questa è storia attuale.