[Riprendo, dal sito Piazza Liberazione, un intervento di Antonio Moscato – professore di Storia del Movimento Operaio all’Università di Lecce – a proposito di un libro uscito per Einaudi due anni fa, La guerra dopo la guerra. Soldati, burocrati e mercenari nell’epoca della pace virtuale, di cui è autore il generale Fabio Mini, di cui su Carmilla ci siamo già occupati qui. gg]
Un generale inconsueto: Fabio Mini
di ANTONIO MOSCATO
Un libro, uscito quasi contemporaneamente a quello di Violante presso la stessa casa editrice e con argomento assai simile, appare di gran lunga più interessante di quello del presidente dei deputati DS, non foss´altro che per l´esperienza accumulata dall´autore in diversi incarichi importanti. Fabio Mini infatti è un generale che è stato incaricato di seguire le esercitazioni della 4a Divisione meccanizzata USA, e tra i vari incarichi ha ricoperto anche quello di addetto militare in Cina, di direttore dell´Istituto superiore di Stato maggiore Interforze, di capo di Stato maggiore del comando Nato delle forze alleate Sud Europa.
Ha anche comandato per un anno l´operazione di peace-keeping NATO in Kosovo. Insomma ha accumulato una bella esperienza diretta. Inoltre fa parte della redazione della rivista “Limes” a cui collabora da tempo.
Il titolo è già stimolante: La guerra dopo la guerra. Soldati, burocrati e mercenari nell´epoca della pace virtuale (Einaudi, Torino, 2003).
Nel libro tuttavia si distinguono due parti diverse: una teorica, con riflessioni a volte utili, a volte discutibili (ma sempre frutto di una conoscenza diretta di fonti inconsuete per un ufficiale superiore del nostro esercito). Tra queste molte riflessioni di strateghi cinesi contemporanei, e molte osservazioni sul ruolo della criminalità in Cina e in Giappone, ma anche digressioni sulla storia dell´impero cinese sotto gli Zhou tra il 1122 e il 770 a. C., o sull´assedio di Pechino nel 1550 da parte del Khan mongolo Altan, un po´ fastidiose perché le comparazioni tra un impero dell´antichità e l´imperialismo del XX e XXI secolo, o tra i khan mongoli e gli eserciti moderni non servono a molto. A meno che, seguendo l´esempio di un autore che cita e apprezza, Igor Man, Fabio Mini voglia “tatticamente” inserire alcune verità scomode in un contesto “culturale” apparentemente neutro, come fa appunto Man quando comincia i suoi articoli con una sura del Corano.
Mini nell´introduzione su la “voglia di impero” (concetto usato senza pensare ovviamente ai nostri dibattiti su impero e imperialismo), e nelle prime due parti (“Occidente e Oriente” e “Guerra e guerrieri”) dice già diverse cose condivisibili: ad esempio che “molti interventi armati di questi ultimi anni hanno avuto come principali beneficiari non gli Stati stessi ma (…) le singole corporazioni”, che hanno spesso bilanci superiori a quelli di decine e decine di Stati; e anche che “oggi la guerra è (…) `possibile´ soltanto come manifestazione di un ritorno all´ordinamento confessionale. Laddove la nuova `confessione´ è il mercato. Un passo indietro di cinque secoli nell´ordinamento giuridico della guerra e uno di dieci per la componente di fanatismo che tale ordinamento comporta” (p. 29)
All´interno della seconda parte, un paragrafo su “Come cambiano i guerrieri” fornisce dati interessantissimi sul “fenomeno del mercenarismo”, assai più vasto e istituzionalizzato di quel che si pensi, che gestisce la maggior parte dei compiti di sostegno agli eserciti regolari, dal catering alla costruzione delle basi militari. “Le compagnie private stanno poi assumendo per conto dei militari (e ovviamente di tutte le organizzazioni committenti) anche veri e propri compiti operativi che una volta non era assolutamente immaginabile fossero attribuiti a dei civili. Compagnie private fanno la guardia a istallazioni militari anche nei teatri operativi, gestiscono le comunicazioni, forniscono intelligence specializzata, effettuano attività di sminamento, sorveglianza aerea del campo di battaglia e così via. Basta pagare”. (p. 126)
E naturalmente i costi aumentano, anche se aumentano le violazioni di ogni norma. Non è un fenomeno nuovo, dato che l´eruditissimo Mini fa riferimento ad attività irregolari organizzate in Kenia già nel 1951-1952 per screditare (e massacrare) i nativi, ingigantendo il pericolo dei Mau Mau, a cui una campagna internazionale di stampa attribuiva migliaia di vittime innocenti tra i “bravi coloni bianchi” mentre dalle memorie del gen. Frank Kitson che organizzò le bande irregolari si desume che il bilancio finale vero fu di 22 (ventidue!) bianchi uccisi rispetto agli oltre ventimila nativi assassinati.
Ma insinua anche qualcos´altro di più inquietante, sulle infiltrazioni di esponenti delle forze speciali inglesi nel WWF e in Greenpeace, al momento degli attacchi alle navi francesi a Mururoa (oltre alla già nota presenza di addestratori inglesi nell´organizzazione di Al Qaeda).
A proposito di questa organizzazione e di Osama bin Laden, Mini dice che “non è certo che ci abbia ideologicamente rimesso dalla distruzione del regime dei talebani, dal nuovo atteggiamento ostile degli USA nei confronti dell´Arabia Saudita, dall´instabilità tra India e Pakistan, dalla precaria situazione degli americani in Asia, o dagli esiti della guerra contro Saddam Hussein”. (103)
Tracciando un bilancio dell´intervento in Afghanistan Mini osserva che “paradossalmente potremmo trovarci nelle condizioni di aver risolto il problema della formazione dei quadri di Al Qaeda per i prossimi venti anni. (…) Il rischio reale è l´incremento della potenzialità clandestina e la dispersione dei centri del terrore. Questo ovviamente nell´ipotesi che la rete di Al Qaeda fosse diffusa, organizzata, efficiente e nel massimo del proprio vigore e della propria virulenza come si è supposto e come molti stanno cercando di dimostrare.”(p.197)
Non si sa se per gli organizzatori statunitensi e italiani delle campagne “terroristiche” sui pericoli di Al Qaeda è più grave la prima affermazione (sul rafforzamento del terrorismo in seguito alla guerra) o la seconda, che mette in dubbio la presentazione di Al Qaeda come quasi onnipotente. D´altra parte, osserva il generale, “anche se la rete non fosse stata il gioiello di organizzazione criminale e ideologica che oggi si crede e si fosse trovata nella sua fase discendente e conclusiva, il problema non sarebbe più semplice. Senza la preventiva capacità di controllare il tessuto esterno, la rottura del bubbone afghano ha provocato la dispersione fisica e ideologica del terrorismo e del potenziale antioccidentale in ogni parte del mondo”. Bel risultato!
Ma sul terrorismo Fabio Mini fa altre osservazioni utili a smantellare le campagne propagandistiche (definite “quasi paranoiche”) che hanno preparato e accompagnato le ultime guerre, e hanno avuto la conseguenza di renderci incapaci di distinguere: “«scopriamo» terroristi fra i nostri vicini di casa, fra i nostri amici, nelle comunità dei poveracci come negli alti livelli della finanza”. Come combatterli? Impossibile eliminarli tutti, quelli attivi e quelli potenziali. Per i primi, forse al massimo 10.000 persone in tutto il mondo, è difficile la localizzazione e non servono i bombardamenti, ma quelli potenziali possono essere valutati a miliardi di persone. Che fare? Sterminarli tutti?
Mini rifiuta anche di banalizzare la questione delle radici sociali del terrorismo, e le ricerca non tanto in una generica miseria o sottosviluppo, quanto nelle distorsioni lasciate in eredità dal passato coloniale. Non sempre la panoramica che fa della sua diffusione geografica è convincente, ma è indubbiamente molto più seria dei soliti luoghi comuni che ad esempio ripete Violante.
Mini lamenta che mancano fondi per le attività di intelligence, che potrebbero scovare i veri terroristi, mentre aumentano vertiginosamente quelle per la guerra. Parlando dell´attuale gruppo al potere negli Stati Uniti egli dice senza troppe reticenze:
“Essi sollecitano alleati e amici a spendere per la difesa soprattutto comprando quello che l´America mette a disposizione, che poi non sempre è quello che ha di meglio o che costa meno. Ovviamente, tutto questo nasce dalla minaccia che è totale. Fortunatamente questi personaggi non rappresentano tutti gli americani e neppure tutti quelli che hanno posizioni di potere e responsabilità. Tuttavia, rappresentano una nuova generazione di «terrorizzati» incapaci di agire al di fuori della logica della guerra e degli interessi, specialmente economici, del proprio sistema. Il terrore, tuttavia, non è soltanto il padrone della loro mente (qui Bin Laden ha fatto un ottimo lavoro), ma anche il solo strumento di cui dispongono per fare affari, influenzare le decisioni e imporre un modello totale che in ogni caso sanno di non poter controllare pacificamente. In questo caso sono dei piazzisti del terrore.”
Non c´è male come franchezza, anche se si dice che “fortunatamente” costoro non rappresentano tutta l´America (ed è vero) e neppure tutti quelli che sono al potere oggi (un po´ meno vero). (p.73)
Con la stessa franchezza e disinvoltura Mini descrive poi gli intrecci tra criminalità organizzate e compagnie di mercenari, dall´Africa alla Russia all´America Latina (pp. 118-135). Basterebbe questo a giustificare l´interesse per questo libro, che a tratti fa venire in mente quello che il generale dei marines Butler disse nel 1933, quando andò in pensione: “la guerra è solo un racket” e viene gestita “a vantaggio di pochissimi e a spese delle masse”.
Ma la parte più significativa e utile del libro è la terza, dedicata a “I dopoguerra”. Qui pesa la conoscenza diretta di alcune esperienze come quella del Kosovo, anche se Mini segue con attenzione anche altri scacchieri.
Ci sono ad esempio molte pagine dedicate all´Australia, il primo “vicesceriffo” riconosciuto dal “caposceriffo” (gli Stati Uniti), severamente criticata attraverso una corretta ricostruzione delle complicità con l´Indonesia di Suharto, in particolare a Timor Est, a proposito della quale si scrivono parole severe anche sull´ONU. Fa piacere scoprire tra le fonti di Mini i preziosi libri di John Pilger.
Su quello che Fabio Mini scrive sul Kosovo occorrerebbe il doppio di spazio di quello a disposizione, per esaminare sia la severa disamina delle bugie di guerra, sia l´attenta descrizione di problemi rimasti irrisolti. Ma segnaliamo solo una “chicca”: il nostro coltissimo generale si è preso la briga di leggere anche Impero di Toni Negri e Michael Hardt, e ne riferisce, proprio dopo aver descritto l´intervento dell´ONU nella ricostruzione del Kosovo, una delle tesi di fondo:
“Essi ritengono che un nuovo capitale globale, agendo mediante l´ONU, il G8, il FMI e il WTO, abbia creato una sovranità imperiale che lega le fazioni dominanti del centro e della periferia in uno stesso sistema di oppressione mondiale. Essi ritengono anche che si sia costituito un nuovo ordine giuridico mondiale «ispirato alla costituzione americana», che prevede il trasferimento di sovranità all´ONU, centro dell´impero.”
Fabio Mini commenta stupefatto che “l´ONU non potrà mai essere un impero per il semplice fatto che un impero è credibile se controlla i fattori di potenza, vale a dire se dispone di un apparato ideologico, di risorse proprie, di strumenti di forza e, soprattutto, di una burocrazia efficiente”. In realtà l´ONU, quando “non si squalifica da sola”, può avere un valore morale e simbolico, un qualche valore diplomatico, ma “quasi nessun valore di potenza perché non ha esercito, non ha risorse, non ha ideologia, e in Kosovo ha dimostrato le limitazioni di efficienza dell´immenso apparato burocratico di cui dispone”. (p. 223) A quanto pare un generale colto e attento può capire meglio di certi compagni l´inconsistenza delle tesi di Negri e Hardt, usando un serio criterio materialistico (grande assente, ahimè, tra le file di gran parte della sinistra).
Anche sull´Afghanistan, in polemica esplicita con il trionfalismo di Rumsfeld, ricorda che la vittoria “contro un avversario che non si è rivelato né potente, né determinato” è stata solo apparente. “La guerra in realtà continua”. Il successo di una guerra deve essere commisurato agli obiettivi che ci si proponeva e al dispendio di risorse.
“Una vittoria del livello tattico, è veramente tale se ha contribuito al successo dell´azione operativa in cui era inquadrata, e questa è tale soltanto se ha contribuito al successo strategico e questo a sua volta ha determinato il successo politico connesso con l´operazione. Ci sono state guerre che nonostante grandi vittorie tattiche non hanno portato nessun beneficio strategico e politico. Ci sono state guerre inequivocabilmente perdute duranti le quali il perdente non è mai stato sconfitto in una sola battaglia. Gli americani in Corea, in Vietnam, in Somalia non hanno mai perduto un solo combattimento. Tecnicamente non hanno mai sostenuto perdite tali da essere considerati battuti eppure non sono riusciti a stabilire i risultati strategici e politici che intendevano raggiungere, e hanno definitivamente perduto”. (pp. 185-186)
Sull´Iraq il libro, pubblicato in ottobre (prima dell´attacco alla caserma di Nasiriya) e scritto presumibilmente prima, pone non pochi problemi. Il titolo del capitolo, ironico, è “Grazie, America”, e allude agli effetti imprevisti e indesiderati di una “guerra” apparentemente facile. Anzi, non una guerra in senso ortodosso: “si potrebbe chiamare ricognizione armata, spedizione punitiva, colpo di mano su larga scala oppure semplice corruzione di un sistema fatiscente di funzionari che si è venduto in blocco alla CIA e si sarebbe più vicini alla realtà”. (p. 253) Altro che retorica sugli eroi!
A più riprese Mini irride non solo alla leggenda delle “armi di distruzioni di massa” ma anche alla presentazione dell´esercito iracheno come un vero esercito: “La resistenza di Saddam non c´è stata. I combattimenti di poche unità intrappolate sono stati soltanto la manifestazione dell´iniziativa di pochi comandanti e non di un piano operativo integrato di difesa nazionale. Non poteva essere altrimenti. Dopo le devastazioni di due guerre e oltre un decennio di martellamento continuo, di sorveglianza aerea e di sanzioni, l´esercito iracheno non poteva che essere allo sfascio.”
Mini cita poi un ufficiale uscito dall´Iraq pochi mesi prima della guerra, che aveva candidamente dichiarato: “I carri armati e i veicoli da combattimento sono relitti della guerra del 1980-1988 con l´Iran. Hanno disperato bisogno di parti di ricambio e gli uomini hanno basso morale e forti carenze di equipaggiamento. In alcuni casi non hanno neppure le scarpe”. (p. 268)
Fabio Mini denuncia l´insensatezza del governo degli Stati Uniti, che ha aggravato tutti i problemi, forse accecato dalle sue stesse menzogne. “In sostanza, l´America ha finalmente e chiaramente detto che può benissimo fare a meno di tutti.” Anzi meglio, così non ci sono testimoni.
“Grazie America! Ringraziano quelli che non hanno mai creduto che la lotta al terrorismo potesse essere condotta con i cannoni e i carri armati. Quelli che si sono dovuti sorbire le litanie di Oriana Fallaci sulla guerra come impegno mondiale e corale. Quelli che temevano di essere rincitrulliti quando avvertivano che il terrorismo non si annulla eliminando «semplicemente» degli Stati. L´America in Iraq, prima e durante la guerra, ha incontrato un solo terrorista suicida. Un pazzo in taxi. Per tutto il resto della campagna di guerra l´America ha dimostrato che i terroristi erano ancora fuori e che con la guerra possono soltanto aumentare e non diminuire: in tutto l´Oriente e l´Occidente. Dopo la guerra, in una situazione di caos e anarchia, gli atti terroristici aumentano di giorno in giorno” (p. 284)
La conclusione generale è severissima, e contraddice tutte le sciocchezze dette dai nostri governanti:
“La realtà è che l´impero della guerra di questo millennio, sottoposto alle spinte dell´impero del terrore, del crimine, dell´economia e di quant´altro, è concettualmente e intellettualmente regredito. Si ritrova in una fase primitiva in cui misura la propria efficacia dalla potenza e dalla distruzione che riesce a esprimere. Non è in grado di calibrare l´uso della forza sugli scopi da ottenere, così come non riesce a immaginare un dopoguerra che faccia parte del processo della guerra stessa al punto di dettarne le condizioni.” (p. 290)
Pensando solo al “prima” e non al “dopo” rischiamo di trovarci in “un dopo di cui abbiamo perduto il controllo”, in “arcaiche comunità di sopravvissuti, le nostre isole di criminali, di relitti umani. Di avere i nostri robot burocratici e tecnocratici, in doppiopetto o in uniforme, pronti agli ordini del computer centrale e dipendenti dall´umore di un sopravvissuto piccolo piccolo che ogni tanto spinge un tasto. Di avere i nostri mutanti, alieni, terroristi ed estremisti che si stanno diffondendo come un virus su tutto il pianeta. Un pianeta che sia già delle scimmie” (p. 291).
Forse esagera un po´. Comunque non dispiace scoprire che in Italia c´è un generale non “integrato” ma “apocalittico”, che ragiona con la sua testa e dice quello che pensa. Anche se è un´eccezione pressoché unica.